ANTONIETTA
COZZA
Mario La Cava:
vita e letteratura nazionale
Ho accettato e ho scelto di tenere la conferenza di questa sera sullo
scrittore calabrese Mario La Cava con
una finalità ben precisa che cela un sottofondo di natura etica e morale: Mario
La Cava per tempi lunghi è stato costretto al silenzio, alle “catene” della
dimenticanza, alla mortificazione della non lettura, perché i suoi libri erano
introvabili nelle librerie, non erano più stampati, non circolavano più. Un
silenzio forzato, quindi, di tipo editoriale ed anche critico, nonché di
ricezione o fruizione, che per me ha avuto il sapore dell’offesa, anche perché
La Cava è una voce imponente (per quanto piccolo fisicamente) della letteratura
italiana, non solo calabrese del Novecento. E di questo io ne ero convinta già
da anni e, particolare, quando, nel 1995, pubblicai, con la casa editrice
Periferia, un saggio critico che, provocatoriamente, portava lo stesso titolo
che ho scelto per la conferenza di questa sera.
Oggi finalmente Mario La Cava può “appartenerci”, ci è
stato restituito (si tratta di un percorso ancora aperto) sia editorialmente sia
criticamente, la sua voce è tra noi. Ecco, questo vuole essere il punto chiave
del mio intervento: usare la mia voce fatta di parole per dare voce allo
scrittore calabrese. Mi unisco intanto alla voce dell’editore Carmine Donzelli
di Roma che, dopo undici anni dalla morte di La Cava (avvenuta nel 1988 e,
precisamente nel 1999, ha deciso di partire per Bovalino e aprire
quell’armadio (io direi preziosissimo) che il figlio Rocco custodisce
gelosamente. E stata un’emozione forte quella sentita dall’editore,
un’emozione che lo ha portato ad intraprendere una riedizione delle opere di
La Cava con l’intento “di consentire la lettura e la rivisitazione critica
di una figura che per i tempi in cui si trovò ad operare, e per lo stesso modo
di ricezione della suo opera, ha avuto, tra gli anni quaranta e ottanta del
Novecento, una varia e non inconsistente fortuna, ha potuto fruire di diverse e
variegate angolature critiche ma, complessivamente, ha conosciuto una ricezione
smorzata, un’eco un po’ sorda” (Carmine Donzelli. Le ragioni di
un’edizione, in AA.VV., La narrativa di Mario La Cava, in Atti del Convegno
tenutosi presso l’Università “La Sapienza” di Roma, Donzelli, Roma 2000).
La mia voce si fonde allora insieme con quella di Donzelli,
per dar voce ad uno scrittore che, non certo casualmente, nella sua scrittura dà
voce (adoperando la sua penna) a chi ne possiede poca o non ne possiede proprio:
il mondo lacaviano è fatto di bambini, vecchi, donne, uomini soli. Un mondo
reietto, sofferente cui lo scrittore regala la scena e la parola, realizzando
una sorta di “insurrezione lirica dei primitivi” come direbbe il critico
Luigi Russo. Per questo motivo e non solo per questo, è doveroso – e per me
è tale – fare in modo che la voce lacaviana non diventi atona ed afona.
L’editoria ha iniziato il suo viaggio. Lo ha intrapreso anche, questo viaggio
o cammino di vocalizzazione, la critica letteraria che, a dire il vero, ha
spesso nel passato sottovalutato lo scrittore, negandogli il “diritto di
cittadinanza” nella grande pagina della letteratura italiana contemporanea.
Oggi sembra aver cambiato opinione. Io mi inserisco nel coro,
felice di non essere più una voce solitaria e poco ascoltata. Anzi, io presto
allo scrittore voce, penna e cuore, cercando di mantenere viva una promessa
fatta qualche tempo fa al figlio Rocco che mi chiedeva di seguirlo in questa
strada, non sempre facile. La voce, non solo mia, è poi fatta di parole.
Parola che nell’opera dello scrittore è fondamentale: le
sue parole sono scelte, levigate, ubriacano chi legge, hanno una risonanza
eccezionale, toccano l’anima. Proprio per questo, il critico Walter Pedullà
lo definisce “grande”, per questa capacità di selezione che appartiene al
“cercatore d’oro”. La Cava però cercava parole non pepite. Ma le parole,
se ben adoperate, hanno la lucentezza dell’oro e la duratura dell’eternità.
Il filo da seguire allora è questo: voce- parole-dialogo.
Dialogo che La Cava sapeva stabilire con i lettori, con i libri che amò
sommamente, con i letterati del suo tempo. Sulla scia, anche affettiva, di
questo trinomio io proverò ad essere l’elemento centrale per riavvicinare
l’autore ai suoi lettori, dopo i tempi del silenzio. Perciò proverò a
raccontarvi La Cava, con la mia voce che sposa la sua e la riprende e la
richiama, e proverò a farlo tenendo presente, in particolare, un tema che
avvolge la sua narrativa come un filo di ragnatela e ce lo rende attuale e
vicinissimo. La Cava ci parla del Dolore, lo dipinge, lo scolpisce sulla sua
pagina, ci permette di toccarlo e, forse, di conoscerlo. Per chi è disposto a
conoscerlo. Ci offre quindi un’eccezionale esperienza di tipo conoscitiva, che
in tempi d’inaridimento affettivo e interiore, io credo ci possa riguardare
molto da vicino. Ma prima di entrare nel tema, vorrei per un attimo farvi
conoscere la sua vita. E queste “finestre” aperte sulla sua vita, che poi
diviene emblematicamente metafora della sua scrittura (vivere cioè equivale a
scrivere e scrivere equivale a vivere come ci dirà nella sua ultima opera Una
stagione a Siena nel 1988), le aprirò servendomi delle parole stesse di La Cava
che così si racconta:
“Sono nato a Bovalino, sulla costa Jonica della
Calabria, in provincia di Reggio, l’anno 1908, il giorno 11 settembre,ch’era
venerdì, secondo il ricordo dei miei genitori. Ero di pochi mesi quando, il 28
dicembre di quell’anno, scoppiò verso l’alba il grande terremoto che
distrusse Reggio e Messina…Il terrore accompagnò la mia comparsa sulla terra,
attraverso lo sgomento dei miei genitori, ed è probabile che a ciò si debba la
mia nessuna vocazione per l’eroismo e il martirio. Non capii le ragioni della
guerra del 15-18, al contrario degli altri bambini che inneggiavano alla patria
e all’eroismo, e fin d’allora mi accorsi che ero destinato a pensare
diversamente dagli altri. La solitudine mi pesava. Ero un bambino, timido
scontroso e con una segreta volontà di emergere in qualche cosa…Mio padre era
maestro elementare, mia madre casalinga…la mia educazione fu laica…Non ero
uno scolaro diligente, ma ero ansioso di conoscenze e fantasticavo che “avrei
fatto qualcosa”…Trovai a casa l’ambiente favorevole alla formazione di un
giusto criterio, ma debbo anche riconoscere che probabilmente fu più il rigore
dei miei genitori che la mia prudenza ad impedirmi colpi di testa che sarebbero
potuti riuscire pericolosi…M’iscrisse al fascio dopo la laurea conseguita a
Siena nel 1931 (avevo pure fatto tre anni di medicina a Roma), brigando per
eludere il dispositivo che proibiva nuove iscrizioni, e mi destreggiai
abbastanza bene nel mio paese, dove mi stabilii dopo la fine degli studi
universitari, tanto da superare vittoriosamente tutte le prove dell’epoca…La
mia vita si concentrò negli studi letterari e nella vita privata…Dopo la
guerra decisi che avrei fatto lo scrittore” (Mario La Cava, Presento me
stesso, in”Ausonia”, giugno 1961)
Una malattia fisica infatti, che chiamerò destino, lo ha
infine reso incapace di scrivere e articolare la parola. Ma questa è una storia
triste che lascerò da parte.
Nel 1939 (è questa la data storica della sua attività) vede
la luce Caratteri (che verrà ripubblicato nel “53 e nell’80 in
edizione accresciuta) presso Le Monnier. Un libro che farà parlare di lui. Un
libro nuovo, sorprendente, bello. Un libro che tuttavia lo legherà ad un
destino non totalmente felice: la critica, infatti, lo esalterà per questa
scrittura breve e intensa, ma gli negherà, proprio in virtù di questa
scrittura, il passaggio alla pagina più ampia e distesa della narrativa. La
Cava lotterà da vero “titano” (talvolta incatenato) contro questo destino
in nome del romanzo. Soffrirà per questa ingiustizia. Ma questa pagina sofferta
della sua vita noi, per ora, non possiamo aprirla, solo accennarla, perché i
lettori possano sentire, anche in lontananza, la sua inconsueta statura morale.
Noi invece ci fermiamo proprio ai Caratteri per fare conoscenza con la
penna di La Cava. Ecco di seguito alcuni dei suoi piccoli-grandi caratteri,
tratti dall’attuale testo di Donzelli (Mario La Cava, Caratteri, Donzelli
editore, Roma 1999):
“Il venerdì vengono i poveri a chiedere l’elemosina.
Bussano piano piano al portone e aspettano. Tossiscono per farsi sentire,
strisciano i piedi. Si può andare ad aprire con comodo” (n. 115, pp. 54-55).
“Si mise, la donna, a sedere nel mezzo della porta che dava
sulla strada. Aspettava il passaggio dell’uomo amato. Lo vide, appena. Fu come
un baleno; e il suo bel viso ansioso si torse d’angoscia” (n. 216, pag. 97).
“Il bambino dei poveri correva e correva. Una lucida canna,
messa tra le gambe e tenuta per mano, era il suo veloce cavallo” 8n. 217, pag.
97).
“Erano proprietari, vecchi, semplici e modesti. Vivevano
soli, marito e moglie, nella gran casa avita. E quando avevano certi bisogni,
ricorrevano al gabinetto posto su un lato del pianerottolo della scala, senza
porta, e lì, tranquillamente seduti, ricevevano contadini e garzoni che col
cappello in mano timidamente venivano a dire le loro ragioni” (n. 281, pag.
119).
“La serva sola era a piedi nudi nella casa. E il porco
piccolino, portato dai campi, presso di lei soltanto si ricoverava, sotto le sue
vesti si nascondeva”(n. 283, pag. 119).
“Preparavano il letto nuziale nella povera casa, e il
damasco comprato per poco alla fiera era stretto. Ed allora lo tirarono tutto da
una parte, fino a terra, dal lato che guarda la camera, lo stesero (n. 290, pag.
122).
“La ragazza sapeva che al padrone piaceva la malvarosa che
nasce nelle siepi; ed ella andando per i campi, la ricercava, con essa si
profumava le mani e il viso” (n. 290, pag. 122).
Giuseppa, contadina matura, carica di figlioli, domanda a
Clara, giovane serva, come sia la bambina della padrona. Bella che sembra un
fiore! – risponde Clara. – Eh, sì - interrompe Giuseppa. – Se non è
bella lei? Chi può essere Bella? La mia figliola ha tutti i comodi che ha la
sua?E mangia quello che mangia lei? Ed io posso darle tutte le cure?” (n. 310,
pag. 129).
Volava la farfalletta attorno al lumino nella gran casa
solitaria. La luce l’attirò, ed ella, correndole incontro, con le ali la
spense. Prende un fiammifero Carmelo, e accende il lumino. La farfalletta era là
ancora, posata sul marmo. Vuole salvarle la vita Carmelo, le sfiora con le dita
le ali. Ma la farfalletta si dibatte, si libera. Travolta dalla luce, di nuovo
esce all’incontro. Avvicinatasi troppo, spegne il lumino, cadendo affoga nella
cera disciolta Invano Carmelo, accesa la luce, tenta liberarla! Il suo povero
corpo, con le ali piegate, rimane incrostato di cera, un’ombra di esso si vede
nel liquido che di nuovo si forma. Inutile stare a pensare, bene certo
svestirsi, mettersi a letto, riposare nel sonno il cuore agitato!” (n. 2 pag.
23).
“Ebbero così termine
i racconti sulle principali famiglie di Orsa, poiché tutto ha termine in questo
mondo. Finisce soprattutto la vita e il suo istinto di conservazione.
Altrimenti, dove si andrebbe a finire? Chi resisterebbe senza sollievo al
dolore? Giacché la vita è dolore soprattutto se ci si accorge piano piano,
andando alla fine che nient’altro che questo rimane. Le gioie ci sono, sì ma
sfumano, e il dolore resta. Quando il dolore arriva al colmo, la vita si
arresta. L’uomo non vuole più vivere, e non lo sa. L’istinto di vita lotta
sino alla fine, e poi soccombe” (Mario La Cava, Le memorie del vecchio
maresciallo, Donzelli Editore, Roma 2000, pp. 123.124).
“Il letterato che rinuncia alla vita della metropoli, e
si rintana fra la sua gente, convinto che da un punto di vista esistenziale e
artistico con essa si compia l’osmosi, non denega la modernità, ma l’assume
all’interno di una personale dialettica, e pertanto si fa a tratti critico
della società di massa. La Cava dice a tutto tondo che gli altri non siamo noi
(grande attualità): c’è una distanza incolmabile, che non è creata dalla
solitudine del soggetto, ma dalla sua qualità di individuo: più una personalità
si costruisce e si distingue, meno si identifica” (Renato Nisticò, Agesilao,
Senocrate e gli altri, in Mario La Cava, Caratteri, Donzelli, Roma 1999,pp.
12-13).
Come a dire che La Cava, dall’interno del suo mondo
“chiuso”, centra l’uomo-individuo nella sua scrittura con tutto il suo
sentire che tocca le varie gradazioni della scala tonale, mantenendosi sempre ad
un livello dolente, ascrivibile al “male di vivere”.E allora dalla lettura
dei suoi brevi capitoli viene fuori una caratteristica che credo sia percepibile
da tutti: l’essenzialità e la nudità delle cose, delle persone, delle
parole. Una forma eccezionale di scarnificazione del tutto, specie del soffrire
che, spesso, non si può dire se non denudandolo come fa Giuseppe Ungaretti
nell’Allegria. Tutto, come già dicevo, va cercato nel non detto e, forse, nel
non dicibile. Io, con modestia senza voler essere esaustiva, ho provato a dire
qualcosa di più.
Vorrei ancora soffermarmi, per ampliare questo punto, su
un’altra opera lacaviana pubblicata anch’essa da Donzelli: La melagrana
matura. Ma prima vorrei segnalarvi le date più importanti e le opere dello
scrittore. 1954: Colloqui con Antonuzza; 1958: Le memorie del vecchio
maresciallo; 1959: Mimì Cafiero; 1962: Vita di Stefano; 1973: Una storia
d’amore; 1974: I fatti di Casignana; 1977: La ragazza del vicolo scuro e il
matrimonio di Caterina; 1986: Viaggio in Egitto e altre storie di emigranti;
1988: Opere teatrali e una stagione a Siena
(importante per le domande senza risposta da cui è percorso).
Ho scelto infine di parlarvi de La melagrana matura per un
motivo ben preciso. Intanto perché i lettori possono comprarla e leggerla, poi
perché questa bella raccolta di racconti detiene una serie di consonanze
stilistiche, strutturali, linguistiche e tematiche con i Caratteri. E’ infatti
costituita da racconti, ora brevi ora più lunghi, che, in un certo senso, si
possono considerare come sviluppo o ampliamento del più breve carattere. E poi
ancora si deve ricordare che i racconti appartengono a tutta la vita di La Cava
e, quindi, possono funzionare, per il lettore, come “cornice” per la sua
opera o come “grimaldello” per familiarizzare con questa scrittura. C’è
qui tutto il mondo dello scrittore,tutta la sua anima, tutta la sua bellezza. Ci
sono i temi portanti del suo scrivere: la nodità del tutto, l’inquietudine e
l’angoscia umana, il soffrire silente inteso come un Male che sta dentro gli
uomini e fuori nelle cose e, quindi, è innominabile e indicibile. In più c’è
l’indurimento dell’uomo di fronte al destino, una sorta di terrificante
pietrificazione o metamorfosi interna che il lettore sente sulla sua pelle. E ne
trema, il lettore, se riesce a “leggere” (che è vedere) in questi volti
medusei, in queste anime simili alla sfinge qualcosa in più:
l’incomprensibilità che è inconsistenza della vita. E’ infatti tutto senza
spiegazione logica, senza perché, senza cause ed effetti. In tutto il tessuto
narrativo, nelle pieghe del significante, c’è il non - sense della vita, c’è
la gaddiana “cognizione del dolore” che mangia onnicomprensivamente il
tutto. Come se La Cava sfidasse attimo dopo attimo i suoi lettori ricordandogli
l’illusionarietà dell’esistenza umana, la sua non spiegabilità, il suo
mistero totale e divino. E’ una sfida quindi, affascinante, per chi legge. Per
il lettore che lo scrittore chiama in causa continuamente di fronte alla sua
scrittura che dice senza dire.
E, per concludere, vorrei che fosse la parola scritta di La Cava a conclusione la mia conversazione. Vi leggerò un racconto tratto dall’opera di cui vi ho parlato. Il titolo del racconto è In fondo al burrone ed è tratto dalla raccolta citata ( Mario La Cava, La melagrana matura, Donzelli Editore, Roma 1999).
IN
FONDO AL BURRONE
Nacque il bambino e nessun sguardo d’amore fu posato
su di lui.
La madre lo respinse nell’angolo più freddo del letto,
il padre stolido si baloccò col suo piede piagato dai lunghi cammini. Ma il
bambino piangeva e la madre lo mise sul suo petto. Poi gli preparò un
canestrino per culla e l’appese nel punto più alto della casa.
Oh, se fosse caduto da lassù, come il bambino sarebbe volato
in cielo! La madre si sarebbe liberata da un peso, poiché non ce la faceva con
altri due bambini piccoli che avevano bisogno di assistenza e il lavoro continuo dei campi che la
stroncava.
Il padre concludeva poco, era tanto stolido che tutti lo
raggiravano. Alla fiera gli avevano rubato cinquantamila lire della vacca
venduta e nemmeno un soldo era rimasto in casa. Ella l’odiava; e l’uomo
geloso del passato di lei che aveva avuto un figlio da un giovane che poi
l’aveva abbandonata, sarebbe stato capace perfino di strozzarla. Era per lui
che la donna non seppe sorridere al suo stesso figliolo. E quando lo guardò, lo
vide brutto al pari del padre. Oh, quanto era stata infelice nella sua
vita, la prima volta a concedersi a un uomo che l’abbandonò, e la seconda a
cercare salvezza in un uomo digiuno di conoscenza! Aveva sperato di saziare con
lui almeno la fame, ed invece solo legumi senz’olio aveva, se li avesse
voluti; e del marito pugni e figlioli, uno dopo l’altro.
Per questo si curò poco del bambino, i cui panni sporchi a
lungo insozzavano il suo tenero corpo. Ella partiva, il giorno per andare a
pascolare le capre, e il bambino restava solo nella casa. Il suo pianto si
perdeva nel rumore che faceva la cascata dell’acqua in fondo al burrone
vicino, e nessuno lo sentiva.
Ma presto il bambino si abituò al suo tormento e divenne
tranquillo. Prendeva il latte al seno materno, quando gli era possibile, e si
accontentava.
Da principio gli bastò, poiché la madre aveva soltanto una
mammella buona; ma poi ebbe bisogno di altro nutrimento ed egli mangiò di
quello che gli davano.
Tutto era buono per lui: perfino i peperoni assaggiò e i
broccoletti indigesti e quant’altro mangiavano i genitori; e intanto cresceva
così forte che niente era capace di farlo morire.
Ormai il cestino era troppo piccolo per contenerlo bene; ed
egli poggiava la sua testina lanuginosa sul bordo duro di esso dove si
addormentava. Le sue spalle si stancavano nella posizione supina, ed egli,
facendo forza con la testa, sollevava, sia pure per poco, il corpo. Si metteva
pure di fianco e si riposava, facendo oscillare il cestino.
Certo, qualche giorno, sarebbe caduto e forse si sarebbe
ammazzato. Ma la madre non aveva amore per pensare al pericolo; e non avendolo
visto morire subito, si era rassegnata ad aspettarne la crescita.
Accadde un giorno che ella, come al solito, fosse andata su
uno di quei greppi che si alzavano nelle vicinanze, a pascolare le capre. Faceva
freddo, poiché era inverno; e il suo vestito, comprato al mercato tra gli abiti
usati, era di seta colorata, che stranamente contrastava con la povertà dei
suoi piedi nudi.
Il bambino era rimasto nel suo cestino aereo, con la testa
tutta sporgente dal bordo. Il vento arrivava sin là, attraverso i buchi della
porta fradicia, e con esso il pulviscolo della cascata vicina.
Si agitò il bambino, voleva sfuggire al tormento del
freddo, e dall’alto cadde sul pavimento che un truogolo rovesciato aveva
inondato d’acqua. Svenne dapprima, e poi, ripresi i sensi, pianse al contatto
dell’acqua fredda.
Passò di là un uomo; ed era il fratello della madre, che da
parecchio tempo non passava, per l’inimicizia che si era stabilita tra loro.
Intese il pianto, guardò da uno di quei buchi e poi chiamò la sorella.
La donna rispose adirata: “Ti ringrazio della premura. Ma
meglio avresti fatto ad averla in altra occasione!”. Perché il fratello non
l’aveva difesa, al tempo in cui il giovane l’aveva abbandonata dopo averla
sedotta.
L’odio divampò nel suo cuore alle parole di lei, e
ingiurie caddero dalla sua bocca. Sdegnosamente si allontanò, col proposito di
non avvicinare più la sorella.
Mentre la donna, combattuta se correre subito in soccorso del
figlio o più tardi, si mosse alfine verso casa. Vide il suo figliolo che
smaniava per terra. Un’ira incredibile l’invase, per il disturbo che quello
le recava. Avanzò verso di lui per batterlo e col piede lo colpì, come faceva
con le capre: il bambino tacque improvvisamente.