ANTONIETTA COZZA

Mario La Cava:

vita e letteratura nazionale

 

  Conferenza tenuta all’Accademia Cosentina il 23/03/2001

 

   Ho accettato e ho scelto di tenere la conferenza di questa sera sullo scrittore calabrese Mario La Cava  con una finalità ben precisa che cela un sottofondo di natura etica e morale: Mario La Cava per tempi lunghi è stato costretto al silenzio, alle “catene” della dimenticanza, alla mortificazione della non lettura, perché i suoi libri erano introvabili nelle librerie, non erano più stampati, non circolavano più. Un silenzio forzato, quindi, di tipo editoriale ed anche critico, nonché di ricezione o fruizione, che per me ha avuto il sapore dell’offesa, anche perché La Cava è una voce imponente (per quanto piccolo fisicamente) della letteratura italiana, non solo calabrese del Novecento. E di questo io ne ero convinta già da anni e, particolare, quando, nel 1995, pubblicai, con la casa editrice Periferia, un saggio critico che, provocatoriamente, portava lo stesso titolo che ho scelto per la conferenza di questa sera.
    Oggi finalmente Mario La Cava può “appartenerci”, ci è stato restituito (si tratta di un percorso ancora aperto) sia editorialmente sia criticamente, la sua voce è tra noi. Ecco, questo vuole essere il punto chiave del mio intervento: usare la mia voce fatta di parole per dare voce allo scrittore calabrese. Mi unisco intanto alla voce dell’editore Carmine Donzelli di Roma che, dopo undici anni dalla morte di La Cava (avvenuta nel 1988 e, precisamente nel 1999, ha deciso di partire per Bovalino e aprire quell’armadio (io direi preziosissimo) che il figlio Rocco custodisce gelosamente. E stata un’emozione forte quella sentita dall’editore, un’emozione che lo ha portato ad intraprendere una riedizione delle opere di La Cava con l’intento “di consentire la lettura e la rivisitazione critica di una figura che per i tempi in cui si trovò ad operare, e per lo stesso modo di ricezione della suo opera, ha avuto, tra gli anni quaranta e ottanta del Novecento, una varia e non inconsistente fortuna, ha potuto fruire di diverse e variegate angolature critiche ma, complessivamente, ha conosciuto una ricezione smorzata, un’eco un po’ sorda” (Carmine Donzelli. Le ragioni di un’edizione, in AA.VV., La narrativa di Mario La Cava, in Atti del Convegno tenutosi presso l’Università “La Sapienza” di Roma, Donzelli, Roma 2000).
    La mia voce si fonde allora insieme con quella di Donzelli, per dar voce ad uno scrittore che, non certo casualmente, nella sua scrittura dà voce (adoperando la sua penna) a chi ne possiede poca o non ne possiede proprio: il mondo lacaviano è fatto di bambini, vecchi, donne, uomini soli. Un mondo reietto, sofferente cui lo scrittore regala la scena e la parola, realizzando una sorta di “insurrezione lirica dei primitivi” come direbbe il critico Luigi Russo. Per questo motivo e non solo per questo, è doveroso – e per me è tale – fare in modo che la voce lacaviana non diventi atona ed afona. L’editoria ha iniziato il suo viaggio. Lo ha intrapreso anche, questo viaggio o cammino di vocalizzazione, la critica letteraria che, a dire il vero, ha spesso nel passato sottovalutato lo scrittore, negandogli il “diritto di cittadinanza” nella grande pagina della letteratura italiana contemporanea.
    Oggi sembra aver cambiato opinione. Io mi inserisco nel coro, felice di non essere più una voce solitaria e poco ascoltata. Anzi, io presto allo scrittore voce, penna e cuore, cercando di mantenere viva una promessa fatta qualche tempo fa al figlio Rocco che mi chiedeva di seguirlo in questa strada, non sempre facile. La voce, non solo mia, è poi fatta di parole.
    Parola che nell’opera dello scrittore è fondamentale: le sue parole sono scelte, levigate, ubriacano chi legge, hanno una risonanza eccezionale, toccano l’anima. Proprio per questo, il critico Walter Pedullà lo definisce “grande”, per questa capacità di selezione che appartiene al “cercatore d’oro”. La Cava però cercava parole non pepite. Ma le parole, se ben adoperate, hanno la lucentezza dell’oro e la duratura dell’eternità.
    Il filo da seguire allora è questo: voce- parole-dialogo. Dialogo che La Cava sapeva stabilire con i lettori, con i libri che amò sommamente, con i letterati del suo tempo. Sulla scia, anche affettiva, di questo trinomio io proverò ad essere l’elemento centrale per riavvicinare l’autore ai suoi lettori, dopo i tempi del silenzio. Perciò proverò a raccontarvi La Cava, con la mia voce che sposa la sua e la riprende e la richiama, e proverò a farlo tenendo presente, in particolare, un tema che avvolge la sua narrativa come un filo di ragnatela e ce lo rende attuale e vicinissimo. La Cava ci parla del Dolore, lo dipinge, lo scolpisce sulla sua pagina, ci permette di toccarlo e, forse, di conoscerlo. Per chi è disposto a conoscerlo. Ci offre quindi un’eccezionale esperienza di tipo conoscitiva, che in tempi d’inaridimento affettivo e interiore, io credo ci possa riguardare molto da vicino. Ma prima di entrare nel tema, vorrei per un attimo farvi conoscere la sua vita. E queste “finestre” aperte sulla sua vita, che poi diviene emblematicamente metafora della sua scrittura (vivere cioè equivale a scrivere e scrivere equivale a vivere come ci dirà nella sua ultima opera Una stagione a Siena nel 1988), le aprirò servendomi delle parole stesse di La Cava che così si racconta:
   “Sono nato a Bovalino, sulla costa Jonica della Calabria, in provincia di Reggio, l’anno 1908, il giorno 11 settembre,ch’era venerdì, secondo il ricordo dei miei genitori. Ero di pochi mesi quando, il 28 dicembre di quell’anno, scoppiò verso l’alba il grande terremoto che distrusse Reggio e Messina…Il terrore accompagnò la mia comparsa sulla terra, attraverso lo sgomento dei miei genitori, ed è probabile che a ciò si debba la mia nessuna vocazione per l’eroismo e il martirio. Non capii le ragioni della guerra del 15-18, al contrario degli altri bambini che inneggiavano alla patria e all’eroismo, e fin d’allora mi accorsi che ero destinato a pensare diversamente dagli altri. La solitudine mi pesava. Ero un bambino, timido scontroso e con una segreta volontà di emergere in qualche cosa…Mio padre era maestro elementare, mia madre casalinga…la mia educazione fu laica…Non ero uno scolaro diligente, ma ero ansioso di conoscenze e fantasticavo che “avrei fatto qualcosa”…Trovai a casa l’ambiente favorevole alla formazione di un giusto criterio, ma debbo anche riconoscere che probabilmente fu più il rigore dei miei genitori che la mia prudenza ad impedirmi colpi di testa che sarebbero potuti riuscire pericolosi…M’iscrisse al fascio dopo la laurea conseguita a Siena nel 1931 (avevo pure fatto tre anni di medicina a Roma), brigando per eludere il dispositivo che proibiva nuove iscrizioni, e mi destreggiai abbastanza bene nel mio paese, dove mi stabilii dopo la fine degli studi universitari, tanto da superare vittoriosamente tutte le prove dell’epoca…La mia vita si concentrò negli studi letterari e nella vita privata…Dopo la guerra decisi che avrei fatto lo scrittore” (Mario La Cava, Presento me stesso, in”Ausonia”, giugno 1961)
   
Inizia così una fervida attività di lettura, una formazione intensa, fatta in maniera personale,da autodidatta. Nel 1932 è pronto Il matrimonio di Caterina, piccolo grande gioiello, un lungo racconto che piacque tanto a Luigi Comencini. E per questo ne realizzerà un racconto filmato. Ma ci vorranno quarantacinque anni (1977) perché il racconto veda la sua effettiva pubblicazione. A riprova di come la scrittura di La Cava sia stata attraversata e, in qualche modo, deprivata da queste intermittenze editoriali, snervanti, offensive, troppo lunghe per lo scrittore e per l’uomo. Ma purtroppo ascritte nel suo destino fino alla fine della sua vita, quando proprio quello strano destino gli leverà la voce, la parola e la penna.
  
Una malattia fisica infatti, che chiamerò destino, lo ha infine reso incapace di scrivere e articolare la parola. Ma questa è una storia triste che lascerò da parte.
    Nel 1939 (è questa la data storica della sua attività) vede la luce Caratteri (che verrà ripubblicato nel “53 e nell’80 in edizione accresciuta) presso Le Monnier. Un libro che farà parlare di lui. Un libro nuovo, sorprendente, bello. Un libro che tuttavia lo legherà ad un destino non totalmente felice: la critica, infatti, lo esalterà per questa scrittura breve e intensa, ma gli negherà, proprio in virtù di questa scrittura, il passaggio alla pagina più ampia e distesa della narrativa. La Cava lotterà da vero “titano” (talvolta incatenato) contro questo destino in nome del romanzo. Soffrirà per questa ingiustizia. Ma questa pagina sofferta della sua vita noi, per ora, non possiamo aprirla, solo accennarla, perché i lettori possano sentire, anche in lontananza, la sua inconsueta statura morale. Noi invece ci fermiamo proprio ai Caratteri per fare conoscenza con la penna di La Cava. Ecco di seguito alcuni dei suoi piccoli-grandi caratteri, tratti dall’attuale testo di Donzelli (Mario La Cava, Caratteri, Donzelli editore, Roma 1999):
    “Il venerdì vengono i poveri a chiedere l’elemosina. Bussano piano piano al portone e aspettano. Tossiscono per farsi sentire, strisciano i piedi. Si può andare ad aprire con comodo” (n. 115, pp. 54-55).
    “Si mise, la donna, a sedere nel mezzo della porta che dava sulla strada. Aspettava il passaggio dell’uomo amato. Lo vide, appena. Fu come un baleno; e il suo bel viso ansioso si torse d’angoscia” (n. 216, pag. 97).
    “Il bambino dei poveri correva e correva. Una lucida canna, messa tra le gambe e tenuta per mano, era il suo veloce cavallo” 8n. 217, pag. 97).
    “Erano proprietari, vecchi, semplici e modesti. Vivevano soli, marito e moglie, nella gran casa avita. E quando avevano certi bisogni, ricorrevano al gabinetto posto su un lato del pianerottolo della scala, senza porta, e lì, tranquillamente seduti, ricevevano contadini e garzoni che col cappello in mano timidamente venivano a dire le loro ragioni” (n. 281, pag. 119).
    “La serva sola era a piedi nudi nella casa. E il porco piccolino, portato dai campi, presso di lei soltanto si ricoverava, sotto le sue vesti si nascondeva”(n. 283, pag. 119).
    “Preparavano il letto nuziale nella povera casa, e il damasco comprato per poco alla fiera era stretto. Ed allora lo tirarono tutto da una parte, fino a terra, dal lato che guarda la camera, lo stesero (n. 290, pag. 122).
    “La ragazza sapeva che al padrone piaceva la malvarosa che nasce nelle siepi; ed ella andando per i campi, la ricercava, con essa si profumava le mani e il viso” (n. 290, pag. 122).
    Giuseppa, contadina matura, carica di figlioli, domanda a Clara, giovane serva, come sia la bambina della padrona. Bella che sembra un fiore! – risponde Clara. – Eh, sì - interrompe Giuseppa. – Se non è bella lei? Chi può essere Bella? La mia figliola ha tutti i comodi che ha la sua?E mangia quello che mangia lei? Ed io posso darle tutte le cure?” (n. 310, pag. 129).
    Volava la farfalletta attorno al lumino nella gran casa solitaria. La luce l’attirò, ed ella, correndole incontro, con le ali la spense. Prende un fiammifero Carmelo, e accende il lumino. La farfalletta era là ancora, posata sul marmo. Vuole salvarle la vita Carmelo, le sfiora con le dita le ali. Ma la farfalletta si dibatte, si libera. Travolta dalla luce, di nuovo esce all’incontro. Avvicinatasi troppo, spegne il lumino, cadendo affoga nella cera disciolta Invano Carmelo, accesa la luce, tenta liberarla! Il suo povero corpo, con le ali piegate, rimane incrostato di cera, un’ombra di esso si vede nel liquido che di nuovo si forma. Inutile stare a pensare, bene certo svestirsi, mettersi a letto, riposare nel sonno il cuore agitato!” (n. 2 pag. 23). 
  
Una penna, quella dello scrittore calabrese, dove, già lo accennavo, risuona il sentimento della malinconia e del dolore, categorie proprie dello scrittore. Intanto, i Caratteri sono 354: ora brevi ritratti, ora capitoli, frammenti, frasi lapidarie vicine alla formula strutturale dell’epigramma, ora brevissimi racconti. Ciò che li caratterizza intanto è la brevità, la capacità di racchiudere il contenuto in un giro di parole forti (una sorta di “giro di vite”), in cui significante e significato trovano raramente la possibilità di congiungersi, perché la parola è allusiva, non autoreferenziale, non statica, ma capace (questa parola-grande musa dello scrittore) di allontanarsi dalla “prigione” della sintassi e della frase chiusa che rappresentano l’ordine, che ha la caratteristica di surrogare la vita. La Cava, apparentemente, sembra “imprigionarsi” nella circolarità della forma. Invece la rompe perché le sue parole parlano di tutto ciò che lo scrittore non scrive, dicono tutte le cose che non sono scritte. Eccezionale è allora per il lettore che, mentre legge “vede”, capire il non detto, sentire sulla pelle le tante, forse troppe, sensazioni che lo scrittore sa evocare. Per questo, forse solo per questo, La Cava è scrittore d’altissima statura, è scrittore nazionale che deve appartenere a tutti. Sono dei giganti gli artisti e gli scrittori che sanno far tremare l’anima, solo adoperando parole. La Cava appartiene a loro. E, poi, volendo scendere nel particolare tema (quello del dolore che è malinconia, nudità esistenziale) che ho scelto come leit-motiv (o filo conduttore) di questa conversazione, i Caratteri ce lo offrono, questo sentire, nelle sue sfaccettature più diverse. Ma questa malinconia esistenziale che è “male di vivere” tocca il culmine, attraverso la parola lacaviana che non dice ma  evoca, quando lo scrittore fa “sfilare” nella sua pagina i poveri, le fanciulle sole, i bambini, figli di quei poveri. Un mondo di derelitti che non hanno fremiti, i fremiti sono tutti dello scrittore e di chi legge. E’ una malinconia dolorante, totale, quella che si tocca, quella che arriva all’essere, è dolore o malinconia ontologica, annichilente, perché non muta, non ha possibilità di trasformazione (è il Dolore di Giuseppe Ungaretti nell’omonima raccolta poetica). E’ lì e basta. Aprendo un’altra finestra rapidissima, che meglio ci aiuta a capire la prova dei Caratteri, voglio offrirvi una citazione sul tema del dolore che compare nel romanzo lacaviano. Le memorie del vecchio maresciallo (pubblicato nel 1958 insieme ai Colloqui con Antonuzza presso Einaudi):
    “Ebbero così  termine i racconti sulle principali famiglie di Orsa, poiché tutto ha termine in questo mondo. Finisce soprattutto la vita e il suo istinto di conservazione. Altrimenti, dove si andrebbe a finire? Chi resisterebbe senza sollievo al dolore? Giacché la vita è dolore soprattutto se ci si accorge piano piano, andando alla fine che nient’altro che questo rimane. Le gioie ci sono, sì ma sfumano, e il dolore resta. Quando il dolore arriva al colmo, la vita si arresta. L’uomo non vuole più vivere, e non lo sa. L’istinto di vita lotta sino alla fine, e poi soccombe” (Mario La Cava, Le memorie del vecchio maresciallo, Donzelli Editore, Roma 2000, pp. 123.124).
   
Il dolore malinconico che è una sorta di ripiegamento dentro l’essere, allora, nella pagina di La Cava, “sposa” l’uomo, diviene tutt’uno con l’essere, si radica nell’individuo. E’ un “sentire dolente” che non è lamentosità (è anche in questo la carica nuova dello scrittore che spiazza dal di dentro tanto meridionalismo piagnucoloso e ripetitivo, fatalistico e assegnatario), ma è capacità – eccezionale – di penetrare nell’individuo (e quindi osservarlo dal suo interno come già accadeva, in quel periodo storico, nei romanzi moderni del “900) e fare in modo che quel sentire, che è quasi atavico, ancestrale, simbolico, venga fuori. A ragione, Pasquino Crupi ha definito La Cava “un ingegnere d’anima”. E di questa modernità, finalmente, la critica si è accorta se Renato Nisticò, bravo curatore delle edizione di Donzelli, può scrivere nell’introduzione ai Caratteri:
  
“Il letterato che rinuncia alla vita della metropoli, e si rintana fra la sua gente, convinto che da un punto di vista esistenziale e artistico con essa si compia l’osmosi, non denega la modernità, ma l’assume all’interno di una personale dialettica, e pertanto si fa a tratti critico della società di massa. La Cava dice a tutto tondo che gli altri non siamo noi (grande attualità): c’è una distanza incolmabile, che non è creata dalla solitudine del soggetto, ma dalla sua qualità di individuo: più una personalità si costruisce e si distingue, meno si identifica” (Renato Nisticò, Agesilao, Senocrate e gli altri, in Mario La Cava, Caratteri, Donzelli, Roma 1999,pp. 12-13).
  
Come a dire che La Cava, dall’interno del suo mondo “chiuso”, centra l’uomo-individuo nella sua scrittura con tutto il suo sentire che tocca le varie gradazioni della scala tonale, mantenendosi sempre ad un livello dolente, ascrivibile al “male di vivere”.E allora dalla lettura dei suoi brevi capitoli viene fuori una caratteristica che credo sia percepibile da tutti: l’essenzialità e la nudità delle cose, delle persone, delle parole. Una forma eccezionale di scarnificazione del tutto, specie del soffrire che, spesso, non si può dire se non denudandolo come fa Giuseppe Ungaretti nell’Allegria. Tutto, come già dicevo, va cercato nel non detto e, forse, nel non dicibile. Io, con modestia senza voler essere esaustiva, ho provato a dire qualcosa di più.
    Vorrei ancora soffermarmi, per ampliare questo punto, su un’altra opera lacaviana pubblicata anch’essa da Donzelli: La melagrana matura. Ma prima vorrei segnalarvi le date più importanti e le opere dello scrittore. 1954: Colloqui con Antonuzza; 1958: Le memorie del vecchio maresciallo; 1959: Mimì Cafiero; 1962: Vita di Stefano; 1973: Una storia d’amore; 1974: I fatti di Casignana; 1977: La ragazza del vicolo scuro e il matrimonio di Caterina; 1986: Viaggio in Egitto e altre storie di emigranti; 1988: Opere teatrali e una stagione a Siena  (importante per le domande senza risposta da cui è percorso).
    Ho scelto infine di parlarvi de La melagrana matura per un motivo ben preciso. Intanto perché i lettori possono comprarla e leggerla, poi perché questa bella raccolta di racconti detiene una serie di consonanze stilistiche, strutturali, linguistiche e tematiche con i Caratteri. E’ infatti costituita da racconti, ora brevi ora più lunghi, che, in un certo senso, si possono considerare come sviluppo o ampliamento del più breve carattere. E poi ancora si deve ricordare che i racconti appartengono a tutta la vita di La Cava e, quindi, possono funzionare, per il lettore, come “cornice” per la sua opera o come “grimaldello” per familiarizzare con questa scrittura. C’è qui tutto il mondo dello scrittore,tutta la sua anima, tutta la sua bellezza. Ci sono i temi portanti del suo scrivere: la nodità del tutto, l’inquietudine e l’angoscia umana, il soffrire silente inteso come un Male che sta dentro gli uomini e fuori nelle cose e, quindi, è innominabile e indicibile. In più c’è l’indurimento dell’uomo di fronte al destino, una sorta di terrificante pietrificazione o metamorfosi interna che il lettore sente sulla sua pelle. E ne trema, il lettore, se riesce a “leggere” (che è vedere) in questi volti medusei, in queste anime simili alla sfinge qualcosa in più: l’incomprensibilità che è inconsistenza della vita. E’ infatti tutto senza spiegazione logica, senza perché, senza cause ed effetti. In tutto il tessuto narrativo, nelle pieghe del significante, c’è il non - sense della vita, c’è la gaddiana “cognizione del dolore” che mangia onnicomprensivamente il tutto. Come se La Cava sfidasse attimo dopo attimo i suoi lettori ricordandogli l’illusionarietà dell’esistenza umana, la sua non spiegabilità, il suo mistero totale e divino. E’ una sfida quindi, affascinante, per chi legge. Per il lettore che lo scrittore chiama in causa continuamente di fronte alla sua scrittura che dice senza dire.

E, per concludere, vorrei che fosse la parola scritta di La Cava a conclusione la mia conversazione. Vi leggerò un racconto tratto dall’opera di cui vi ho parlato. Il titolo del racconto è In fondo al burrone ed è tratto dalla raccolta citata ( Mario La Cava, La melagrana matura, Donzelli Editore, Roma 1999).

 

IN FONDO AL BURRONE


    Nacque il bambino e nessun sguardo d’amore fu posato su di lui.
  
La madre lo respinse nell’angolo più freddo del letto, il padre stolido si baloccò col suo piede piagato dai lunghi cammini. Ma il bambino piangeva e la madre lo mise sul suo petto. Poi gli preparò un canestrino per culla e l’appese nel punto più alto della casa.
    Oh, se fosse caduto da lassù, come il bambino sarebbe volato in cielo! La madre si sarebbe liberata da un peso, poiché non ce la faceva con altri due bambini piccoli che avevano  bisogno di assistenza e il lavoro continuo dei campi che la stroncava.
    Il padre concludeva poco, era tanto stolido che tutti lo raggiravano. Alla fiera gli avevano rubato cinquantamila lire della vacca venduta e nemmeno un soldo era rimasto in casa. Ella l’odiava; e l’uomo geloso del passato di lei che aveva avuto un figlio da un giovane che poi l’aveva abbandonata, sarebbe stato capace perfino di strozzarla. Era per lui che la donna non seppe sorridere al suo stesso figliolo. E quando lo guardò, lo vide brutto al pari del padre. Oh, quanto era stata infelice  nella sua vita, la prima volta a concedersi a un uomo che l’abbandonò, e la seconda a cercare salvezza in un uomo digiuno di conoscenza! Aveva sperato di saziare con lui almeno la fame, ed invece solo legumi senz’olio aveva, se li avesse voluti; e del marito pugni e figlioli, uno dopo l’altro.
  
Per questo si curò poco del bambino, i cui panni sporchi a lungo insozzavano il suo tenero corpo. Ella partiva, il giorno per andare a pascolare le capre, e il bambino restava solo nella casa. Il suo pianto si perdeva nel rumore che faceva la cascata dell’acqua in fondo al burrone vicino, e nessuno lo sentiva.
  
Ma presto il bambino si abituò al suo tormento e divenne tranquillo. Prendeva il latte al seno materno, quando gli era possibile, e si accontentava.
    Da principio gli bastò, poiché la madre aveva soltanto una mammella buona; ma poi ebbe bisogno di altro nutrimento ed egli mangiò di quello che gli davano.
    Tutto era buono per lui: perfino i peperoni assaggiò e i broccoletti indigesti e quant’altro mangiavano i genitori; e intanto cresceva così forte che niente era capace di farlo morire.
  
Ormai il cestino era troppo piccolo per contenerlo bene; ed egli poggiava la sua testina lanuginosa sul bordo duro di esso dove si addormentava. Le sue spalle si stancavano nella posizione supina, ed egli, facendo forza con la testa, sollevava, sia pure per poco, il corpo. Si metteva pure di fianco e si riposava, facendo oscillare il cestino.
  
Certo, qualche giorno, sarebbe caduto e forse si sarebbe ammazzato. Ma la madre non aveva amore per pensare al pericolo; e non avendolo visto morire subito, si era rassegnata ad aspettarne la crescita.
  
Accadde un giorno che ella, come al solito, fosse andata su uno di quei greppi che si alzavano nelle vicinanze, a pascolare le capre. Faceva freddo, poiché era inverno; e il suo vestito, comprato al mercato tra gli abiti usati, era di seta colorata, che stranamente contrastava con la povertà dei suoi piedi nudi.
  
Il bambino era rimasto nel suo cestino aereo, con la testa tutta sporgente dal bordo. Il vento arrivava sin là, attraverso i buchi della porta fradicia, e con esso il pulviscolo della cascata vicina.
  
Si agitò il bambino, voleva sfuggire al tormento del freddo, e dall’alto cadde sul pavimento che un truogolo rovesciato aveva inondato d’acqua. Svenne dapprima, e poi, ripresi i sensi, pianse al contatto dell’acqua fredda.
    Passò di là un uomo; ed era il fratello della madre, che da parecchio tempo non passava, per l’inimicizia che si era stabilita tra loro. Intese il pianto, guardò da uno di quei buchi e poi chiamò la sorella.
  
La donna rispose adirata: “Ti ringrazio della premura. Ma meglio avresti fatto ad averla in altra occasione!”. Perché il fratello non l’aveva difesa, al tempo in cui il giovane l’aveva abbandonata dopo averla sedotta.
    L’odio divampò nel suo cuore alle parole di lei, e ingiurie caddero dalla sua bocca. Sdegnosamente si allontanò, col proposito di non avvicinare più la sorella.
    Mentre la donna, combattuta se correre subito in soccorso del figlio o più tardi, si mosse alfine verso casa. Vide il suo figliolo che smaniava per terra. Un’ira incredibile l’invase, per il disturbo che quello le recava. Avanzò verso di lui per batterlo e col piede lo colpì, come faceva con le capre: il bambino tacque improvvisamente.
  
Ella si chinò per sollevarlo: tra le sue braccia ch’erano dure come artigli di bestia nemica, non avvertì che il cuore del suo piccolo figlio, che la guardava con gli occhi di grande, e che solo gli angeli del cielo sostenevano in tanta durezza di vita, batteva palpitando, come un uccellino ferito, di disperazione e paura.

 

   Ritorna alla Pagina "Articoli La Cava"