b   Capitolo II°  a 

 

Nell'archivio di Casa Ruffo di Calabria - nell'aprile del 1947 affidato in custodia da Luigi Ruffo di Calabria, Duca di Guardia Lombarda, all'Archivio di Stato di Napoli ‑ esiste una pergamena (in copia) appartenente alla serie “ Privilegi ”. E' un privilegio di Re Ruggero, scritto in greco con a fianco la traduzione latina, dell'aprile dell'anno 1146, con il quale quel Re concedeva a Gervasio Ruffo, cadetto della Casa di Calabria, le terre di “ Minzillicar e Chambucas, site nel tenimento di Sciacca”. Questo documento, seppure limitatamente agli ultimi cinquant'anni, è abbastanza noto non soltanto agli storici, ma anche ai cultori o ai semplici appassionati di studi storici. Lo citano un pò tutti, ma certo nessuno lo ha mai letto, almeno tra quelli che hanno scritto sulla genealogia di Casa Ruffo e su quel periodo della nostra storia. Se lo avessero letto, infatti, non avrebbero avuto necessità né di congetturare sull’origine Casato, né di fare ‑ anche qui non senza perplessità e riserve ‑ riferimento ad antiche opere per immaginare l'epoca d"arrivo dei Ruffo in Calabria, la loro provenienza, quale condizione avessero avuto in quella Regione, prima dell'insediamento dei Normanni. Nelle note bibliografiche mi propongo di riprodurre la copia fotografica dell'intero documento, per offrire a chi ne ha interesse ‑ com'è giusto ‑ la possibilità di leggerlo.
Intanto riporto in traduzione quella parte del privilegio che riguarda il discorso di cui sopra:

RUGGERO RE IN CRISTO DIO PIO E POTENTE

Nel mese di aprile della presente indizione settima. Mentre siamo dimoranti serenamente e per la gloria di Dio esercitiamo la nostra Potenza nella città di Palermo ed a Dio piacendo abitiamo in questo stesso Palazzo nel quale viene innanzi alla Nostra Maestà [Potenza] il fedele alleato [compagno] d'arme (fidelis armorum socius) lo stratiota (stratiotes) Signore (Dominus) Gervasio Ruffo che presenta domanda e supplica (postulans et supplicans) di avere [terre] non soltanto per il pascolo dei suoi animali ma anche per la coltivazione (pro aratio) perciò affinché abbia terre da coltivare tu ed i tuoi esperti (preceptores) ti diamo nel tenimento di Sciacca terre sufficienti alle tue necessità. [.... ]

Re Ruggero, dunque, riportando la dignità militare bizantina (Stratiota) di Gervasio Ruffo, certifica ‑ per così dire ‑ l'origine dei Ruffo e l'epoca del loro arrivo in Calabra. Definendolo, poi, “ fidelis armorum socius ”, ci fornisce sicura notizia della potenza in quel tempo raggiunta dalla Famiglia Ruffo in Calabria.
Per completare l'argomento ‑ confidando nella pazienza e nell'amore per la storia dei navigatori di Internet ‑ riporto quanto scritto a tal proposito dal Duca Proto che, se non è di dilettevole lettura, serve a render chiaro ed a sintetizzare un discorso altrimenti lunghissimo e di ancor più noiosa lettura:

«Fu dunque in questi tempi ed in cotali infestossime vicissitudini, circa l'anno millesimo di nostra Salute, che lo Imperatore di Costantinopoli, avendo perduto, per invasioni di mori e di principi e conti di stirpe longobarda, quasi tutti i suoi possedimenti nell'Italia, con il soccorso dei Ruffi e dei Giuliani ricuperò la Calabria e la Apulia. Il maggior scrittore di quei tempi ed il più autorevole per la veracità o verosimiglianza delle sue narrazioni, Leone monaco di Montecasino, e comunemente  detto Leone Ostiense, dal suo cardinalato e vescovado di Ostia, nel secondo libro di quella sua istoria, che per modestia egli intitolava Cronaca Cassinese, così discorre di tal fatto “sed cum graecorum, qui paucis ante annis Apuliam sibi Calabriamque, sociatis sibi Riffis atque Iulianis vendicaverunt insolentiam, fastidiunque Appuri ferre non possent, una cum Melo ipso et Dato, quidam equite nobilissimo Meli cognato, rebellare disponunt ”.
Quali che fossero questi Giuliani, che una con i Ruffo, secondo Leone Ostiense, ridussero novellamente in fede dei Cesari Bizantini le Provincie della Calabria e della Apulia, noi non sapremmo dire punto né poco. Conciossiaché di essi Giuliani non si trovi memoria, né prima né dopo l'anno millesimo, in quelle parti di Italia, e manco in quelle provincie che l'affrontano. Indubitato è che essi, dove avessero fatto veramente ciò che il Cardinale Ostiense narrava, dovevano essere altrettanto o di poco men che la Famiglia Ruffo potentissimi in quella regione, e però avrebbero dovuto lasciar di loro maggior memoria. Ma per avventura i Giuliani non sarebbero una seconda diramazione dei Ruffi medesimi, come spesso rinvienesi in quei tempi, che parecchi di un medesimo lignaggio venivano pur diversamente cognominati dal volgo, e solevano anche scriversi più con il nome che loro era comunemente dato, che con quello il quale avevano sortito per loro natal? Il cognome Iuliano, non sarebbe un aggettivo dei Ruffi per la loro consanguineità con gli Imperadori di Costantinopoli o pel discendere un ramo di essi da qualche signore di Casa Ruffo chiamato Giulio o Giuliano? Altri decida così fatta questione: noi lasciamo al benevolo lettore piena libertà di congetturare. Ma questo sì vogliamo si noti che per avere i Ruffo ed i Giuliani, od essi Ruffo solamente, soccorso gli Imperadori di Costantinopoli alla ricuperazione delle provincie della Puglia e della Calabria, indubitato è essi dover essere stati allora potentissimi, avere arme ed armati: ed arme ed armati non si ebbero a quei tempi, né nei secoli posteriori, da altri, che da coloro i quali possedevano tetre e castella. Erano dunque già nell'anno millesimo (se già non l'erano stato in tempi più antichi, siccome crediamo aver chiaramente dimostrato) potenti signori nelle Calabrie i Ruffo, prima dello stabilimento della Monarchia delle Sicilie: e questo non può negarsi, né porsi in dubbio da veruno il quale abbia fior di senno od anche vulgare intelletto. E vogliamo pure si ponga mente alle parole, con le quali discorre del cennato fatto Leone Ostiense, dicendo esso autorevolissimo istorico, che l'Imperatore di Costantinopoli recuperò il dominio della Calabria e della Puglia sociatis sibi Ruffis atque Iulianis. La parola sociatis suona nel volgare nostro eloquio alleato, confederato: e però bisognerà pur convenire che la Famiglia Ruffo fosse sovrana nel mezzo giorno d'Italia, a quei tempi, oppur vi facesse le parti di sovrana. Conciossiaché, se i principi di essa fossero stati semplicemente baroni, non gli avrebbe chiamati come alleati l'Imperatore di Costantinopoli, ma gli avrebbe spediti come capitani e vassalli a combattere gli altri sudditi ribellati e riacquistar le provincie perdute. Oltraché non possiamo tacere, come Giannone e tutti gli altri storici delle nostre regioni, tutti convengano in questa sentenza, che gli Imperatori di Costantinopoli avevan magistrati in Italia ma non baroni, che i Greci del basso impero non conoscevano feudalesimo; e però, poiché terre e castella indibitatamente possedevano i Ruffi nelle Calabrie, nell’anno millesimo e prima di esso, indubitatamente pure queste terre e castella le tenevano come assoluti padroni, come sovrani e non già come utile dominio, al par degli altri conti e castaldi e baroni e valvassori eccetera, che per avventura si trovassero allora in questa Italia Cistiberina. E questa nostra considerazione vuolsi bene tenere a mente, perciocché essa verrà lussuosamente a spiegare quello intitolarsi da sovrani che faceano, nei secoli posteriori al mille, i Ruffo conti di Catanzarto, i quali nel loro diplomi usavano la formula Dei gratia Comes: formula che indica chiarissimamente la sovranità, od almeno la pretensione o presunzione di libero e diretto dominio e possedimento. E noi non sappiamo qual altro signore del Regno avesse mai osato intitolarsi come facevano i Conti di Catanzaro, e, dove ve ne fosse stato, sapremmo grado e grazie a colui che volesse esser cortese di mostrarcene scrittura od altro monumento.

    Giovanni Ritonio, nell'opera genealogica da noi citata più volte, discorrendo dei Ruffi di quel tempo, scrive: Petrus Ruffus predicti Costantii filius, sub principibus Northomandis (i quali veramente erano venuti nella meridionale Italia, ma non vi avevano ancora signoria e dominio certo) contra Mauros in Italiam militavit. Ed in ciò si accorda il Ritonio con Leone Ostiense, perciocché questo Pietro Ruffo figliuol di Costanzo ben potrebbe essere stato esso il capo di quella famiglia Ruffo, che gli Imperatori Costantinopolitani chiamarono in loro soccorso, per ricuperare il dominio della Calabria e della Apulla, provincie che allora dicevansi Italia, e tali erano veramente quasi esse sole, siccome crediamo aver già detto sopra. Quindi, continuando, esso Ritonio disse: idcirco ab hiis Comitatum  Catanzari quorum praedecessorum a Mauris occupatum, ab eo deiectis, illis, per eundem Petrum, auxliantibus praedictis principibus Northomandis facillime optinuit. E ciò ben poteva essere, perciocché i Normanni, in sul loro primo entrare in queste nostre regioni, non facevan già la guerra per se medesimi, ma per altri principi o repubbliche al quali ed alle quali talentasse valersi del loro braccio e della loro singolare perizia nel governar le cose della guerra, laonde Giovanni Ritonio preseguendo dice:
Sic etiam nonnulla  alia castra in Provincia Calabria Citra per Riccardum  Ruffum fratrem adepta sunt. De istis vero nati nonnu11is  i1lustribus  homibus:  de Petro vero Furconus, Gerardus, Anotonius et Philippus.  De praedicto  Gerardo Petri fratre, Ugo1inus, Rubertus, Henricus, Gug1ie1mus, et Landulfus, omines  baroni va1orosissimi et multorun castrorum domini. Nunquam certe de hac Familia Principes Ecclesiasticos antiquis temporibus imvenimus; eo quia fortasse,  epse sub militaribus ordinibus in servitio Orientatilium Imperatorum  vivisset, et postea Northomandorum contra Graecos in Italia pugnavisset,  prout textal Leo Cardinalis Hostiensi in sua Historia. E qui il Ritonio si riporta alle parole medesime della Cronaca Cassinese, da noi addotte in mezzo, poco innanzi ».

    Così nel XIX secolo scriveva il Duca Proto, al quale non era noto il privilegio di Re Ruggero II. Avendo acquisito queste conoscenze è maturo il momento di discorrere della genealogia del Casato dei Ruffo.
    Credo di far cosa gradita ed utile ai navigatori ” di questo nuovo mare etereo” al quale, lo confesso, guardo con perplessità ed una certa diffidenza. Ma io non faccio né meraviglia né opinione: sono rimasto cittadino del passato millennio ‑ dicevo che credo di fare cosa gradita limitando le notizie genealogiche al periodo storicamente documentato ed ai personaggi più noti e indicativi. Alla fine, per i “naviganti ” più esigenti ed appassionati, riporterò un albero genealogico lungo poco più di mille anni, ma rigorosamente limitato alla Linea primogenita ed aggiungo che sarebbe mia ambizione riuscire a fare qualcosa di diverso di un elenco del telefono ”. Da ora in avanti, accanto al nome dei personaggi dei quali scriverò, riporterò tra parentesi il numero che nell'albero genealogico li distingue al fine di facilitarne l'individuazione.
Scorrendo quest'albero si noterà che del primo personaggio, Giovanni Fulcone e fino al sesto, Pietro di Calabria Signore di Catanzaro, non si riportano i nomi delle rispettive consorti, che non sono noti.
    Il periodo storicamente documentato inizia con (7) Giordano, che nel 1186 sposò Agnese sua consanguinea.
Il Loro figlio fu (8) Pietro I, portato dall'Imperatore Federico II ai più alti gradi della gerarchia militare ed alle più importanti cariche di governo. Su Pietro I gli storici ed i genealogisti fecero in ogni tempo una grande confusione, ‑non avendolo distinto da suo nipote (ex avo) che portava il suo stesso nome. Come conseguenza era stata creata la figura di un Pietro Ruffo, protagonista dei maggiori eventi storici, che era vissuto per più di cento anni. Dell'esistenza di due personaggi dello stesso nome se ne era accorto e ne aveva documentatamente scritto D. Vincenzo Ruffo della Floresta, ma egli non era uno storico ed ebbe scarso credito. Fu merito di un grande calabrese, il sommo storico Ernesto Pontieri, d'aver fatto luce sui due distinti personaggi dello stesso nome ‑ (8) Pietro I (1188‑1257) e (10) Pietro II (1230‑1310), ovvero avo e nipote ‑ vissuti, il primo al tempo dell'Imperatore Federico, ed il II al tempo del regno di Carlo I e di Carlo II d’Angiò. Su (8) Pietro I e su suo nipote il Pontieri scrisse almeno tre volumi Pietro Ruffo di Calabria e la sua Presunta fellonia ”, “ Un Capitano della guerra del Vespro:  Pietro II Ruffo di Calabria ”, “ Ricerche sulla crisi della Monarchia siciliana nel secolo XIII ”. In questo terzo volume, che raccoglie alcuni studi giovanili ‑ rivisti ed emendati “ dalle sviste che per l'età e la disattenzione vi erano rimaste ”, come lo stesso Pontieri scrive nella prefazione ‑ il Pontieri fa una sintesi dei suoi scritti sulla crisi della monarchia siciliana nel secolo XIII.
    Anche il Pontieri non condusse personali ricerche genealogiche sui personaggi dei quali scriveva, disponendo degli studi condotti da Francesco Scandone, il quale non fu sempre preciso e, di conseguenza, creò alcune confusioni. Io ne discuto lungamente nel mio scritto “ I Ruffo alla Corte di Federico II  al quale rimando gli interessati (Lo scritto è presente nel sito www.sbti.org ).
(8) Pietro I fu politico avveduto, fedelissimo alla casa Hoenstaufen ed ai voleri testamentari di Federico, anche quando Manfredi, figlio naturale del defunto Imperatore, usurpò il Regno a suo nipote Corradino. Fu il più tenace oppositore di Manfredi e, per ostacolare i suoi disegni d'usurpazione, lui Ghibellino, cercò aiuto e si associò al Papa. Sconfitto, riparò a Terracina nello stato della Chiesa, dove nel primi giorni di gennaio del 1257 morì proditoriamente pugnalato da un sicario di Manfredi.
Suo Nipote, (10) Pietro II, fu descritto come uno dei maggiori generali del suo tempo. Si scrisse che se il nipote avesse avuto l'acume politico dell'avo, e che se questi avesse posseduto le stesse capacità militari del nipote, gli eventi di quel tempo avrebbero avuto un corso diverso. Questo (10) Pietro II continuerà la Linea primogenita dei Ruffo di Calabria, detta dei Conti di Catanzaro.
    Altro nipote ex avo di (8) Pietro I fu (1) Fulcone Ruffo di Calabria (1231‑1256?).
E' il capostipite e lo troviamo con il numero (1) nella Linea secondogenita, che subentrerà a quella primogenita quando, per mancanza di eredi maschi, i Ruffo di Catanzaro si estingueranno nei Centelles Ventimiglia nel corso della seconda metà del XV secolo. Questo stesso (1) Fulcone è il capostipite di tutte le Linee dei Ruffo, nostri contemporanei.
    (1) Fulcone è anche conosciuto col nome di Folco o come il “ rimatore della scuola poetica siciliana ”. Occorre brevemente parlare di lui che, nonostante abbia avuto vita breve, fu uomo che lasciò traccia di sé perché fu d'intelletto vivace e dotato di capacità militari da tutti ricordate.
E' indispensabile, per meglio far comprendere l'uomo (1)Fulcone, fare cenno alla personalità dell'Imperatore e descrivere l'ambiente di corte, nel quale dall'età di quattordici anni i valletti vivevano a stretto contatto con l’ Imperatore. Nel ricordato mio articolo “ I Ruffo alla corte di Federico II ” così scrivo dell'Imperatore e dell'ambiente di corte:  

" [....] Dalla madre gli fu dato il nome di Costantino ma, in baptismo, quel nome fu mutato in Federico Ruggero: il nome dei suoi avi, il tedesco Barbarossa ed il normanno Ruggero II. Imperatore e Re si chiamò Federico II. I suoi contemporanei lo definirono "stupor mundi ", meraviglia del mondo, e " immutator mirabilis ", meraviglioso trasformatore. Ma "stupor mundi ", nel linguaggio di quei tempi, significava anche "sovvertimento dell'ordine costituito, che genera paura e confusione "!
    Giovanni Villani, cronista fiorentino (1280‑1348), nella sua " Nuova cronica " fece questo ritratto di Federico II di Svevia: " Questo Federigo regnò trent'anni Imperadore, e fu uomo di grande affare e di gran valore. Savio di scrittura, e di senno naturale, universale in tutte le cose. Seppe la lingua latina, e la nostra volgare, tedesco e francese, greco e saracinesco e di tutte virtudi copioso. Largo e cortese in donare, prode e savio in arme, e fu molto temuto. E fu, dissoluto in lussuria in più guise e tenea molte concubine e mammalucchi a guisa de' saracini.
In tutti i diletti corporali volle abbondare, quasi vita epicurea tenne, non facendo conto che mai fosse altra vita. E questa fu l'una principale cagione perché venne nemico de' chierici e di Santa Chiesa ".
   E' un ritratto vagamente somigliante al personaggio reale, che risente chiaramente di varie influenze: clima politico degli anni che seguirono ai vespri siciliani; le fonti alle quali l'ex mercante fiorentino, diventato cronista, si ispirò. Più vera ed in maggiore accordo con quanto scrissero molti autori, alcuni contemporanei dell'imperatore, è la descrizione che diede fra Simone da Parma (1221‑1287), il quale conobbe di persona Federico II: " Era un uomo scaltro, avaro, lussurioso, collerico e malvagio. Di tanto in tanto tuttavia rivelava anche buone qualità, quando era intenzionato a fare mostra della sua benevolenza e liberalità: sapeva allora essere amabile, gentile, pieno di grazia ed esternava nobili sentimenti. Leggeva, scriveva, cantava e componeva melodie. Era bello e ben fatto, sebbene di non alta statura. Io una volta lo conobbi e per un certo tempo anche lo onorai ".
La lettura della cronaca di questo monaco, giunta sino a noi forse autografa, ed il ritratto che fa dell'Imperatore, mi fanno però venire in mente che egli, nel 1247, fuggì da Parma, assediata da Federico, per esulare in Francia in cerca di soccorso.
   Ancora più completa e storicamente più veritiera è la descrizione che di Federico II fece Michele Amari ne " La guerra del vespro siciliano ": " [...] pro' nelle armi, sagace e grande nei consigli, promotor delle scienze e delle lettere italiane, costante nemico di Roma. Raffrenò Federigo i feudatari, che nella fanciullezza sua si eran prevalsi; chiamò nei parlamenti nostri i sindichi delle città; represse nondimeno gli umori di repubblica; riordinò vigorosamente i magistrati; vietò, primo in Europa, i giudizi ch'empiamente chiamavan di Dio; dettò un corpo di leggi, ristorando o correggendo quelle dei Normanni; le entrate dello stato ingrossò, e troppo. Macchiano la sua gloria, severità e avarizia nel governo; e mal ne lo scolpa la necessità di tender fortissimo i nerbi del principato, per aiutarsene alla guerra di fuori ".
A distanza di sette secoli una considerazione, può fare cornice a quanto scritto, in tutto questo tempo, su Federico II ‑e sugli Hoenstaufen in genere; un Papa creò Federico Imperatore e Re:  Innocenzo III, grande Pontefice ed accorto uomo di stato. Un altro Papa, poco dopo la morte dell'Imperatore, la dinastia degli Hoenstaufen letteralmente distrusse: Urbano IV, al secolo il francese Jacques Pantaleon, scialba figura di nessun rilievo nella storia della Chiesa.
   Questo fu essenzialmente Federico II e tanto uomo non poteva che avere attorno a se una corte altrettanto grande e meravigliosa. Per alcuni suoi aspetti, la decantò anche Brunetto Latini, che ebbe modo di frequentarla. Una corte da sovrano orientale, scrissero molti contemporanei, colpiti dall'aspetto più appariscente ma che costituiva solo un " contorno ", destinato essenzialmente ad impressionare le plebi.  Ed i Papi, che avrebbero avuto ben altre accuse da muovere a Federico, quando vollero contro di lui far leva sul popolo lanciando i loro anatemi, a quell'aspetto della corte fecero riferimento. Altro dava lustro e rendeva unica al mondo la corte imperiale, che riconosceva nell'Imperatore, assiso sul trono della giustizia, l'unica fonte del diritto! Questo splendore sfuggiva alle masse, ma era ben percepito dagli uomini di " senno ": a corte viveva ed operava il fior fiore degli uomini di cultura di quel tempo. Diversi per nazionalità, razza, religione; della più varia estrazione sociale, in gran parte giovani o addirittura giovanissimi, in comune avevano tutti la sete di apprendere o d'insegnare. A corte vigeva il concetto che " colla scienza si acquista fama, con la fama si arriva all'onore distinguendosi dagli altri, e con l'onore si consegue la ricchezza ". Non per nulla Pier delle Vigne poteva scrivere ad un amico: " A corte hanno le mammelle della retorica dato latte a molti spiriti eletti ".  
   Mentre presso la cancelleria imperiale, vera scuola di " ars dictandi ", la vita letteraria di corte aveva il suo cenacolo, attorno e direttamente a contatto con l'Imperatore, invece, unitamente a quelli letterari ai quali, in questo caso, era riconosciuto valore propedeutico, fiorivano particolarmente gli studi scientifici e quelli dell'arte militare. Taluni giovani, ritenuti specificatamente dotati, ai quali maestri della statura di Pier delle Vigne e di Michele Scoto avevano già aperto vasti orizzonti letterari, qui erano istruiti nelle discipline scientifiche seguendo metodi in parte empirici, affinché  fossero stimolati all'osservazione diretta, perché l'uomo dotto ‑ sosteneva l'Imperatore ‑ per ben riuscire nello studio delle scienze deve " cominciare di nuovo a guardare coi proprio occhi ed acquisire la capacità di dare al " vedere " compiuta espressione.        
    Presso questa corte, dove trionfava la cultura laica, che trovava per la prima volta forma ben definita, si andava forgiando un nuovo genere di cittadino capace, in ugual misura, di imprese guerresche o intellettuali; i funzionari non si identificavano, come un tempo, con il ceto feudale e tanto meno con quello dei chierici, ma erano scelti tra i più eletti delle diverse discipline, direttamente dall'Imperatore. Di conseguenza rivestire la dignità di funzionario non costituiva un " beneficium " bensì un " officium " e per tale motivo non soltanto erano inconcepibili le cariche ereditarie, ma lo sviluppo delle carriere avveniva solo ed esclusivamente per merito.  
   A corte vissero tra gli altri alcuni membri del casato dei Ruffo che, per essersi distinti nelle lettere, nelle scienze e nell'arte militare, furono molto vicini e particolarmente cari all'Imperatore[....].

  
Tra questi Ruffo vi fu (1) Fulcone, figlio di (9) Ruggero di Calabria e Belladama e dunque fratello di (10) Pietro II e nipote ex avo di (8) Pietro I. Traggo sempre dal citato mio scritto, altre notizie su Fulcone e sulla vita a corte dei valletti:
   “[…] Com'ra uso presso quella corte, Fulcone iniziò la carriera come valletto imperiale a 14 anni, ossia intorno al 1243. Dovette essere dotato di particolare ingegno e di non comune capacità d'apprendimento se ancora giovanissimo lo troviamo, non ultimo, tra i rimatori di quella scuola. Furono certamente queste qualità che richiamarono su di lui l'attenzione e l'affetto di Federico II, che lo volle accanto a sé sino all'ultimo suo giorno di vita. Addirittura, poche settimane prima della morte dell'Imperatore, ebbe da questi, alcuni possedimenti in feudo, che erano appartenuti al filosofo di corte maestro Teodoro (da documenti d'archivio, invece, risulta che quell' investitura risale al 1247). A conti fatti quando morì l'imperatore Fulcone Ruffo non doveva avere ancora 20 anni.
   Francesco Torraca, nella sua opera " Studi su la lirica italiana del duecento " (Bologna Zanichelli 1902) a pag. 127 scrive: " Una sola lirica di messer Folco di Calabria è giunta sino a noi; ma egli occupa non ultimo posto nella storia.
Somiglia, per l'una cosa e per l'altra, ad Arrigo Testa. Nipote di Pietro Ruffo conte di Catanzaro, cugino o fratello del cavaliere Giordano Ruffo autore del " liber mascalciae ", assistette agli ultimi istanti del grande Imperatore, del quale firmò il testamento ".
   Penso valga la pena soffermarmi a descrivere l'ambiente di corte, nel quale vivevano e maturavano esperienze di vita e di dottrina i valletti imperiali. Nella scelta dei valletti o dei funzionari Federico II non dava importanza alla loro nascita, alla provenienza sociale o al colore della pelle, ma molto contavano le doti e le qualità personali. Un esempio per tutti: Giovanni Moro, figlio di una schiava, saracena, ebbe a corte una posizione di rilievo, fece parte della " familia " e ricevette una baronia. Per quanto concerneva i valletti, numerosissimi erano tra questi i rampolli della nobiltà cavalleresca, ma anche sulla loro carriera era ininfluente la potenza o la ricchezza della famiglia dalla quale provenivano. I valletti (tra questi vi erano anche i figli di Federico II) vivevano a diretto contatto con l'Imperatore e ricevevano una educazione cortese‑cavalleresca ‑ a noi resa nota dalla poesia di quel tempo unitamente a quegli insegnamenti che, da adulti, avrebbero fatto di questi adolescenti dei perfetti funzionari statali. La presenza di un gran numero di nobili tra i valletti trova spiegazione in una particolare circostanza: un nobile non poteva diventare cavaliere se prima non avesse servito come valletto. Dunque i rampolli della nobiltà regnicola passavano a corte gli anni della giovinezza e, come valletti, entrando a far parte della " familia ", ricevevano un mensile di sei once d'oro ed il diritto di avere al servizio tre scudieri con relativi cavalli. I valletti rappresentavano il gradino più basso della gerarchia cavalleresca ed avevano a capo un siniscalco. Non avevano mansioni precise: erano destinati in particolare a servizi di " tipo cavalleresco ". I valletti cessavano il servizio a corte quando si fossero guadagnato il cingolo cavalleresco. Andavano allora a ricoprire, ancor giovani, cariche amministrative importanti o servivano nell'esercito o ritornavano nei loro feudi. Altri erano avviati agli studi universitari. In ogni caso l'essere stati partecipi della vita di corte dava loro un grande prestigio ed apriva molte carriere. Al padre di un valletto scrisse una volta l'Imperatore: " Noi abbiamo accumulato su di lui i rudimenti delle virtú, affinché si sentisse degno di se, agli altri utile e a
noi fruttuoso ". 
    In tale ambiente fu educato Fulcone Ruffo. Non fa dunque meraviglia che, forse neppure diciottenne, fosse annoverato tra i più apprezzati rimatori e ricevesse ancora in giovanissima età direttamente dall'Imperatore l'investitura di cavaliere e la titolarità di feudi. 
Trovano legittimazione anche gli incarichi importantissimi‑ che Fulcone ebbe negli anni 1251‑52 quando in Istria firmò come testimone concessioni imperiali ed attese a ricevere il novello Imperatore Corrado IV. Nel 1254 fu, dal suo avo Pietro I, posto a capo degli ambasciatori inviati al Papa.
Come soldato fu lodato persino dall'Anonimo ‑ cronista denigratore del casato dei Ruffo ‑ quando sotto le mura di Aidone fermò l'impeto di quell'esercito, che stava per travolgere le truppe al comando del suo avo. E lo stesso Anonimo non seppe trovare che espressioni di rispetto quando narrò di Fulcone che, arroccato nei suoi castelli di Bovalino e Santa Cristina, tenne testa per quasi due anni all'esercito di Manfredi.
   Nel 1253 Fulcone sposò Margherita di Pavia, figlia di Messer Carnelevario, dalla quale ebbe i figli Enrico e Fulco II. Non si conoscono la data e la causa della sua morte, ma nel 1266 certamente non era più in vita [...]

Temo d'avere scritto un po' troppo su Fulcone, ma il personaggio lo richiedeva.
Suo fratello (10) Pietro II, al quale ho più sopra fatto cenno, nel 1266 fu da Carlo I d'Angiò reintegrato nei feudi e nel titolo di Conte di Conte di Catanzaro, posseduti dal suo avo (8) Pietro I. Sposò una dama di gran Casato, Giovanna d'Aquino, dalla quale ebbe sei figli. (11) Giovanni continuò la Linea primogenita, mentre un altro figlio di nome Giordano dette vita al ramo dei Conti di Montalto, che tanto lustro ebbe nel secoli seguenti.
La Linea dei Conti di Catanzaro Marchesi di Cotrone si estinse con (15) Enrichetta nei Centelles Ventirniglia, nella seconda metà del secolo XV.
Questa Eririchetta era figlia di (14) Nicolò, del quale darò notizie nell'albero genealogico.


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