Parte quarta - Enigmi di una notte d’incubo

 

Capitolo 1 Capitolo 2

         
 

 

 

CAPITOLO 1


Giungemmo a Blackvalley nel pomeriggio.

La campagna, in quel novembre assai gelido, era più che mai squallida e sepolcrale, con quegli alberi ossuti come grucce piegate dal vento. Su di essa un cielo livido di un tramonto senza sole s'increspava di brume nerastre e all'orizzonte larghe chiazze di nuvolaglie, galoppan­do scompostamente, avvolgevano tutto di una cappa plumbea che presa­giva pioggia.

Sembrava che quella tavolozza livida di colori fosse la rappresen­tazione grafica di una lugubre, per così dire, paludosità psicologica, in cui maturavano deliranti drammi esistenziali soffocati ed occultati da sotterranei involuzioni di un io demenziale che su quello scenario a fosche tinte trovava il suo migliore palcoscenico.

Sul Black River, il fiume del luogo, ci eravamo fermati, avendomi il notaio mostrato, anche se con incredulità sempre più crescente, il punto preciso in cui era stato ritrovato il cadavere di Hander Bosas.

Quel corso d'acqua che per la sua fluidità avrebbe dovuto avere un suo inserimento nel paesaggio come un qualcosa di mutevole, in conti­nuo viaggio e in creativo dialogo con la natura, aveva, invece, un profilo più che mai stagnante e minaccioso. Quell'acqua, scura e limacciosa, non presentava caratteristiche di trasparenza e salubrità poiché vi gorgogliava sopra, in subdole conchette risucchiane, una schiuma grigiognola e fetida. Questa patina di sporcizia era forse riflusso di sostanze inquinanti che si diluivano così in quella massa liquida.

Il letto del fiume, a volte assai ristretto tra le due sponde alte e scoscese, si inselvatichiva di erbacce giallastre e scivolose e di grossi massi ricoperti di muffe brunoverdognole. Lo spettacolo era davvero

squallido e nauseabondo tanto che in alcuni punti del fiume pareva scor­resse liquame, o meglio che questo colà stagnasse. Per questo era sem­brato a tutti assurdo, ed ora ancor più a noi, tutti sottesi a scoccare su quel bersaglio le nostre frecce d'accusa e di sospetto, che il giardiniere, che per di più era un esperto lupo di mare, avesse potuto annegarsi in un'acqua così bassa. Annegarsi (e poi per quale ragione?) in un letto pur infido e scosceso, ma relativamente poco profondo, almeno in quella parte. Pur tuttavia il riconoscimento del cadavere era stato fatto senza la più piccola riserva e senza alcuna ombra di dubbio. E allora? Tutti i problemi divenivano irrisolvibili e l'ombra del mistero si concretizzava sempre più nel nostro cervello come un cappio soffocante, inspiegabile ed assurdo.

Ciò a parte, inquietante e senza alcuna risposta razionale, rimaneva la domanda di base: perché mai un uomo di mondo, assai ricco e con una moglie giovane e bella, com'era il cugino di mia madre, Reginald Kefrai, si fosse andato a comprare una villa, se poi mai villa era quella stranezza di abitazione, in un luogo così assurdo ed impervio in cui la natura con tanto desolato squallore, pareva congiurare a chissà quale oscura macchi­nazione umana?

Dalle nostre conclusioni demoralizzate emergevano solamente, parossistiche e strazianti, due evidenze della storia: Selenya era stata plagiata, rapita e abilmente rinchiusa chissà dove, ma in un chissà dove - vicinissimo -, tanto che ella, in un attimo di fuga, aveva potuto venire a parlare con me, Ronny. Parimenti, era indiscutibile l'esistenza di un cervello squilibrato, di un maniaco che perseguiva chissà mai quale or­ribile piano demenziale. E, a sottendere tra i due il risolutivo filo di Arianna, con nessuna certezza, con nessun indizio, eravamo solo noi due, fuori del logico, del razionale, anzi sul margine dell'altrui incredulità, senza nemmeno più l'aiuto della polizia che si era arenata dopo aver fatto il possibile.

Carichi di questo gigantesco fardello, muti e snervati, io e il notaio entrammo nel grande portone del castelletto di cui entrambi avevamo le chiavi. Colà il gelo fisico e psichico che ci prese fu enorme. La casa era disabitata, poiché la cuoca era stata licenziata e Rosy, la cameriera che ora abitava a Stockwell, ed andava di tanto in tanto al castelletto per

arieggiare e fare le pulizie, non era stata avvertita del nostro arrivo. Così il caminetto era spento e naturalmente non vi era nulla da mangiare. Le stanze, pian piano che lo schiaffo della luce le denudava del loro pesante mantello di ombre, si rivelavano complici di sospettate, misteriose pre­senze. Infatti nella sala da pranzo vi era una bottiglia di vino vuota e dei bicchieri sporchi...

Nel caminetto la cenere era tanta e in alcuni strati ancora un po' tiepida... Nella stanza da letto di Selenya il letto era disfatto, e così pure il letto della zia Meg... Io invece ero sicurissimo che sino all'ultima volta entrambi i letti erano a posto. Anzi, proprio io, avevo dato ordine a Rosy che in quelle stanze nulla venisse toccato, per nessuna ragione e che venissero sospese colà le pulizie.

Ora, al contrario, nella camera della zia a terra era il cuscino e l'armadio era aperto, come se vi fosse avvenuto qualcosa di precipitoso. Una fuga? Io e Nick Ferguson ci guardavamo, pallidi ed esterrefatti, senza parole. Il notaio, con la voce che covava una rabbia straziata, e un dolore impotente, mi assicurò che, fino a tre giorni prima di venire da me, quando era stato colà, tutto era a posto... Quindi l'unica deduzione logica era che in quei tre giorni già trascorsi qualcuno fosse entrato nel castelletto, chissà poi da dove e con quali chiavi... La servitù era certa­mente da escludere.

Frugammo come due disperati nelle stanze in cui avevamo consta­tato l'esservi stata una qualche indiscussa presenza. Ma, irrazionalmente stando alla polvere che per quanto a noi fosse dato vedere, non era stata minimamente intaccata da impronta alcuna, sembrava che a procurare quello strano disordine fossero stati ospiti di un tempo lontano. Tutto nella casa giaceva apparentemente usuale, nella massima normalità: so­lamente la porta, in cima alla scala grande, quella che dava alla terrazza della torretta, era aperta e da essa penetrava un sibilo acuto e lacerante di un vento gelido e sinistro. Salimmo sin lassù e, appena all'aperto, un turbine di tramontana ci mozzò il fiato e, quasi, ci schiacciò contro la murata.

Ai nostri piedi, cupe e brune, le ombre del crepuscolo chiazzavano la campagna brulla su cui, qua e là, scheletri arborei, quasi in una saga di spiriti notturni, offrivano i loro ossuti moncherini, come grucce, ai

velari delle ore serotine. Un sole, quasi estinto, deformato in una larva ovoidale, di un tetro color sanguigno, aggrumato di violetti marronati, si accucciava, esausto, sull'estrema linea dell'orizzonte. Da lontananze ir­reali, sul limite di un disfacimento cosmico, irradiava un'ultima striatura di un chiarore evanescente. Così sulla campagna, nuda e piatta, sostavano i primi sfilacciati gomitoli di buio, appena rotti, per brevissimi tratti, da un baluginio di chiaroscuri.

Io mostrai al notaio un certo angolo di visuale, verso dove, cessato il bosco, era un tratto di terreno cespuglioso. Stringendoci saldamente ad un tubo metallico che correva lungo il muro, a causa della violenza del vento, ci spostammo un po' più in là, per vedere meglio. Avemmo, così, in quella fioca luminescenza che ancora restava, modo di scorgere, in lontananza, il capanno. La cadente baracca, forse adibita in passato dai vecchi coltivatori come ricovero degli attrezzi, ed ora del tutto abbando­nata, era stata sia da me che dal notaio ben visitata. Adesso pareva esalare un sottile filo di fumo che si sarebbe, in verità, potuto individuare più chiaramente, se la tramontana che soffiava con malevoli mulinelli di polvere, sterpi e foglie secche, non avesse creato sfalsature e rotture dell'immagine, attimo per attimo, con l'avanzare del buio, sfacendosi nell'indistinto. Tuttavia ad un tratto entrambi notammo qualcosa ed en­trambi sussultammo: la porta che noi eravamo certi fosse sbarrata da un lungo arrugginito saliscendi, quindi di assai difficile uso immediato, si era spalancata, buttando fuori un nuvolone scuro di fumo. Portato da una folata di vento, giunse anche a noi un acre odore di bruciato... Dentro si stava verificando certamente un incendio! E infatti dopo qualche atti­mo la baracca s'inclinò su un lato e subito dopo si disfo ad est della parete lignea... Per una silenziosa reciproca intesa, entrambi volammo giù per le scale e sempre di corsa cercammo di raggiungere il retro della cucina, dove vi era un ingresso secondario che si apriva sulla campa­gna... Si era già fatto buio pesto e non sì vedeva e non si udiva nulla, tranne il sibilo tormentoso e beffardo del vento che con furia disordinata ci piegava ora a destra ora a sinistra. L'odore di bruciato era scomparso! Ben presto ci rendemmo conto che era assurdo tentare di raggiungere il capanno in quel sopraggiunto primo stadio della notte, una notte senza stelle che come tante, sul puledro indemoniato del vento, trasportava un incombente acquazzone. Sconfitti e rabbiosi, fummo costretti a cercare in casa una qualsiasi fonte di luce, ma non trovammo che delle smozzicate candele che naturalmente non avrebbero retto alla violenza del vento. Allora il notaio corse fuori a prendere la pila che teneva sempre con sé in automobile. Con un gesto breve e secco mi mostrò un qualcosa che gli gonfiava la tasca. Compresi al volo ed annuii, indicandogli che nel retro dei miei calzoni vi era la stessa fedelissima compagna... Quindi ci av­viammo, veloci per quanto il basso e fioco lume della torcia portatile ci permettesse. Così, e fu all'improvviso, ci trovammo nei pressi del capan­no, lì, dov'era quella specie di recinzione di cespugli. Entrambi, istinti­vamente, serrammo in pugno la pistola... Ed eccoci alla baracca che esalava ancora un forte odore di bruciato. Per come avevamo ben visto, la fiancata sinistra del casotto si era riarsa parzialmente. Era evidente che l'incendio si era prodotto occasionalmente e che era stato prontamente soffocato con la pompa dell'acqua per l'irrigazione e con dei secchi che giacevano qua e là vuoti e riversi.

In un canto, per quanto ci era dato vedere, era una specie di bra­ciere da cui, probabilmente, si erano originate delle scintille. Su questo era ben visibile una grossa pentola in cui forse vi era del brodo o qual­cosa di similare. Anche questo liquido era stato totalmente rovesciato su quell'inizio d'incendio che però aveva immediatamente intaccato la pa­rete laterale totalmente di legno: le altre chissà perché erano rivestite di lamiera.

Tuttavia il puzzo di bruciato lasciava chiaramente capire la natura del materiale che aveva preso fuoco prima: era un grosso mucchio di giornali che si erano quasi del tutto disintegrati, tranne che per qualche lembo totalmente illeggibile e fratturabile appena preso in mano.

Inoltre doveva essere andato in fiamme anche qualcosa di sughero, almeno così sembrava potersi dedurre dall'intenso odore che era nel piccolo fabbricato. Ovviamente in quell'ammasso di legna e carta carbonizzate, fra cento cianfrusaglie ammucchiate alla rinfusa e tutte fradice d'acqua, era impossibile non dico capirci, ma neanche muoversi, anche perché la luce a stretto raggio d'illuminazione permetteva di ve­dere assai poco. Addirittura, in un canto, un armadietto era stato rove­sciato a terra con l'apertura verso il basso e le due ante apertesi lo sorreggevano distaccato dal pavimento. Su questo era un pezzo di lamie­ra ondulata di forma irregolare, già notata ma creduta cementata al suolo. Eppure in quella caotica area del capanno, tutta sconvolta dall'inizio d'incendio subito domato, era evidente un qualcosa di voluto, di inten­zionalmente causato come a depistare o a nascondere chissà cosa... Ciò lo avevamo notato entrambi e ce lo dicevamo a frasi mozze, dilaniati da una certezza che ci dava contemporaneamente furia di ricerca e rabbia di esser giunti tardi. Con un calcio cercai di spingere un po' più in là l'armadietto in quella strana positura, che chissà come mai, non si era bruciato. Si spostò anche la lamierina e con stupore mi accorsi che essa in verità, posto in quella posizione, nascondeva egregiamente una specie di botola! Non l'avevamo mai notata prima d'ora nei frequenti sopralluoghi.

Io e il notaio cercammo con tutte le nostre forze di sollevarne il coperchio, ma non vi fu verso: evidentemente era stata richiusa dal di dentro. Esausti, con le mani graffiate e spellate, cercando di far leva con i vari attrezzi disseminati ovunque, non volevamo arrenderci: in entram­bi, anche se non ce lo dicevamo, era, ardente più del fuoco, la speranza che sotto quella botola vi fosse ciò che entrambi volevamo disperatamen­te: Selenya! Madidi di sudore per lo sforzo e insieme gelati dalle raffiche taglienti di tramontana che continuavano a scagliarsi su quel rudere di capanno, alla luce di quel piccolo raggio luminoso della torcetta, pur vedendo fallire ogni tentativo, ci ostinavamo a rimanere lì, incatenati idealmente a quella portella metallica dietro alla quale pregavamo fosse ancora viva Selenya. Io di tanto in tanto, per quanto l'emozione dava forza alla mia voce, inginocchiato per terra, gridavo: "Selenya!...", chia­mavo: "Selenyaaaa..." e poi con il cuore in gola attendevo in risposta un qualsiasi suono, un botto pur lontano, un qualcosa di auditivo che venisse dal di sotto di quella maledetta portella, pesante come un macigno sul terreno e sul nostro cuore! Ma il tempo trascorreva inutilmente e con il suo passaggio come un torchio di delusione che nel cervello stringeva forte, si smontava la nostra speranza.

Così dovemmo desistere e decidemmo di rientrare per avvertire la polizia affinché intervenisse tempestivamente con mezzi più idonei.

Una volta in casa la mia rabbia raggiunse il culmine quando mi accorsi che la linea del telefono era chissà perché interrotta! Sicché era­vamo del tutto isolati e in balia di quel mostro folle che certamente era colà!

Tutto lo dimostrava già prima ed adesso l'improvviso incidente del guasto telefonico diventava diabolicamente un'inquietante, pericolosa coincidenza.

Chiusi nel nostro impotente furore, eravamo nel salone, presso la tavola su cui erano quei bicchieri e quella bottiglia usati da relativamente poco tempo. Eravamo tesissimi, entrambi con la pistola in mano, pronti a sparare a qualsiasi più piccolo rumore!

Così, tutto ad un tratto, guardandomi circospetto attorno, mi accor­si che il vecchio pendolo con il vetro infranto per il colpo di pistola partito dal basso verso l'alto, camminava ancora. Strabiliato, lo mostrai al notaio ed anch'egli rimase di stucco, ricordando attonito che io prece­dentemente gli avevo fatto notare che era ancora fermo sulle tre.

A quell'ora precisa tempo prima ero riuscito, chissà come, se non ero anch'io soggetto ad allucinazioni, a far aprire quel maledetto pannel­lo ligneo che, a mio parere, nascondeva un marchingegno infernale, capace di far muovere la parete. Marchingegno che per la verità, malgra­do tutti i tentativi delia polizia e miei personali, nonché del notaio, riu­sciti vani, non aveva mai più ripetuto il suo prodigio, rivelandomi la cavità da cui mi era stato esploso il colpo di pistola. In più, colmo dei colmi, la pistola in questione, e qui il mio cervello rischiava di impazzire veramente, ad irrefutabile giudizio della polizia scientifica, era la mia, da cui mancava un proiettile, lo stesso che era stato ritrovato nel muro, accanto all'orologio!

Ad ogni modo, adesso l'orologio ticchettava regolarmente e le lancette segnavano le nove e dieci. Sia io che il notaio controllammo di scatto i nostri cronometri e, salvo qualche lieve scarto di minuti, l'ora era quella. Ciò voleva dire che il misterioso personaggio che si occultava nel castelletto, chissà per quale sconosciuta nevrotica ragione, mentre noi eravamo nel capanno si era preso la libertà ed il tempo di aggiustare, chissà come, quel vecchio pendolo. Perché poi? Per beffarci? O perché quell'orologio aveva un senso per lui? A noi non era dato sapere!

Solo restavamo lì, impotenti e indifesi, senza alcun contatto con

l'esterno, consci che un grande pericolo, forse mortale, incombesse su di noi. Tacevamo, tormentandoci interiormente sul da farsi: era assai impru­dente mettersi in macchina a quell'ora e con quel buio, indifesi da un nemico invisibile e circondati dalle tenebre che potevano essere sue al­leate. Conveniva attendere il mattino successivo.

Ad un tratto in lontananza, ma molto nitidi nel silenzio della notte, si udirono, anzi si riudirono, perché io li avevo già avvertiti quando ero nel capanno, degli strani rintocchi di campana.

Il vento era assai diminuito ed adesso cadeva una pioggia insisten­te, fina, quieta che fermava i rumori in irreali sospensioni, in monotoni fruscii. Il suono della campana, negli spazi aperti della campagna, oltre il sipario lieve di pioggia, non giungeva, però, come un dondolio armo­nico di note, mosso da una forza continua, tesa a mettere in moto il batacchio contro la cavità bronzea. Bensì quel suono rotto e disordina­tamente intermittente, ora fesso, come appena originato, forse involonta­riamente, ora cupo e profondo, pareva fosse inferto non dal disegno della razionalità di un cervello che comanda la mano, ma da un qualcosa in movimento disordinato che causava le ripercussioni.

Dalla fissità del notaio Ferguson capii che anch'egli aveva udito e con un cenno del capo gli comunicai la mia attenzione allo strano feno­meno. Egli corrugando le sopracciglia, pensosamente mi disse: "L'ho udito anche prima, ma, pur sembrandomi strano, ho pensato che fosse la campana della chiesetta di Stockwell, mossa dal vento. Adesso però il vento è ben poco e non certo da causare un simile fenomeno che io in verità, pur essendo stato qui un'infinità di volte, con e senza il vento, non ho mai udito... Non capisco davvero! Pare che tutto congiuri a rendere qui ogni cosa, ogni attimo angosciosi ed infernali... come infernale è quel maledetto, maledetto dannato che tiene prigioniera mia figlia!".

Tacemmo, veramente immersi in un tunnel allucinato che ci sner­vava.

Il fenomeno, pur assai lontano, sì ripetè distintamente! Il notaio impulsivamente, di scatto, aprì la finestra per sentire meglio. Ebbe l'im­pressione che un qualcosa in aria si fosse mosso. Anch'io ebbi la sensa­zione come di un batter d'ali. Il notaio, allora, puntando il nero della notte, sparò!

E qualcosa saettò... "Forse un pipistrello", guardai attento, ma allo sparo, ecco un ghigno proveniente dal basso, in direzione del mulino! Al colpo faceva eco una risata che roca e delirante guadagnava la notte e, quasi per un assurdo gioco di amplificazione, cresceva in un folle scher­no... Il notaio puntò nuovamente la pistola, ma io feci in tempo a gri­dargli: "Non spari!" conscio dell'inutilità del gesto per il buio e la distan­za e che a nostra difesa non avevamo che quei pochi colpi.

Il notaio, pallidissimo, abbassò l'arma e passandosi la mano sulla fronte madida, esclamò: "Bastardo!". Io gli dissi: "Lei resti qui, con la luce accesa affinché creda che siamo in questa stanza entrambi. Io vado al mulino e lo ammazzo, quel vigliacco!...". Mi avviai, ma il notaio, rapidissimo mi si affiancò dicendomi: "Vengo anch'io!". Dal lampo in­fuocato che colsi nei suoi occhi d'acciaio, capii che era inutile tentare di dissuaderlo.

Come due ombre uscimmo dal portone, con la pistola in pugno e la torcia che io tenevo bassa ed accuratamente nascosta il più possibile, affinché illuminasse quel tanto che ci permettesse appena di muovere i piedi senza inciampare. Così, superato il breve spiazzo, eccoci a scendere il viale dei cipressi.

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 2


Non nascondo di essere stato veramente terrorizzato da quelle ombre lunghe e malfide degli alberi che potevano nascondere ad ogni passo un agguato mortale: infatti, posti a destra e a sinistra del sentiero non largo, quei cipressi mai potati, coi loro rami fronzuti ed incolti, erano davvero delle barriere complici, dei nascondigli... Inoltre, il continuo fruscio della pioggia che ci inzuppava fino al midollo, ci circondava di mille lievi suoni, sconosciuti e misteriosi, che potevano essere infidi presagi di attimi terribili.

In verità, ora che ci penso, la nostra imprudenza fu enorme, giu­stificata solo dal tormento che ci rodeva di trovar Selenya (Selenya viva, Selenya, presto).

Nello stesso tempo il nostro poter guadagnar strada, passo per passo, in un'eternità di tempo, indicava solamente due cose: o lo scono­sciuto non era più colà, o la sua follia era tale e così assurdamente autoesaltante e presuntuosamente vincente, che non si era reso conto della nostra presenza denunciata continuamente dagli scricchiolii e dai tonfi pur lievi, che erano inevitabili...

A me sembrava che quella tortuosa fettuccia alberata non avesse mai fine e la mano serrata convulsamente sul calcio della pistola mi doleva e mi tremava. Quei maledetti cipressi, poi, erano un agguato continuo e da dietro ad ogni tronco mi sentivo sbucare addosso quell'es­sere che mi colpiva. Intanto il tempo inchiodato nel mio cervello moriva in quell'umidore d'acqua che ci inzuppava e rendeva la strada assai viscida e pericolosa. Due volte il notaio barcollò e quasi cadde e natu­ralmente fece rumore. Rabbrividii! Sostammo con il fiato sospeso e le pupille sbarrate a forare quel buio. Ma si sentiva solamente lo scrosciare

sinistro e monotono della pioggia e l'ansare del nostro respiro che incespicava nella gola secca, riarsa...

Così, dopo un tempo senza tempo, sul limite del collasso nervoso, giungemmo al mulino.

Ansanti, sostammo alla porta scardinata che, come sempre, era accostata. Poi d'un balzo, fummo dentro ed accendemmo la luce...

Come al solito le stanze viste tante volte parvero guardarci con sarcastica indifferenza; noi contro loro: le sentivamo custodire quel cru­dele segreto. Ci guardavamo attorno, guardinghi e quasi increduli che non ci fosse dato scoprire nulla di sospetto. Ingiunsi sottovoce: "Andia­mo" e con un gesto della mano indicai la scala.

Avrei voluto divorare quei gradini sempre più rotti e sdrucciolevo­li, tale era la febbre d'ansia che mi rodeva dentro. Ma il notaio con una mano di ferro mi afferrò il braccio e con appena un fiato di voce, mi sussurrò: "Piano, salendo siamo scoperti". Perciò, accostati al lato ove era il muretto che fungeva da parapetto, iniziammo a salire. Ci si faceva scudo di questo, tentando di evitare anche il più piccolo rumore, con la pistola puntata e tutti sottesi a captare anche il più lieve fruscio.

Finalmente fummo all'apice, estenuati più che dalla fatica, dalla tensione nervosa. Anche lì sembrava rutto vecchio ed usuale, ma per noi maledettamente sospetto. Gli occhi del notaio, malgrado la sua persona fosse in un evidente stato di estenuazione, erano lucenti, simili alla lama di un coltello ed egli, come un rapace, scrutava ogni ombra. Pensai, lievemente rinfrancato, che nelle immediate vicinanze non doveva esser­vi alcuno, poiché altrimenti, malgrado avessimo cercato di salire più lestamente possibile, saremmo stati visti. La precarietà della scala, salita col timore di far rumore e il tempo impiegato sarebbero stati sufficienti a chi fosse stato sopra o nascosto in basso, per prenderci di mira e farci fuori.

Entrammo nella stanza che si trovava subito a destra, all'apice della scala. Era stata, per quanto era dato a vedere, una camera da letto, infatti si poteva scorgere, in fondo allo stretto spazio rettangolare, un letto a due piazze con dei materassi vecchi e sporchi di ampie macchie brune. Naturalmente anche in quella camera, come per tutte le altre del mulino, non vi erano più vetri alla finestra, ma solamente delle grate. Mi

ci accostai e, con allarmata sorpresa, vidi che non erano infisse nella muratura, bensì su un'intelaiatura metallica che, tirando, si apriva facil­mente. Con un gesto indicai il tutto al notaio Ferguson che annuì col capo, non so bene se per dirmi di averlo notato anch'egli o che di ciò era già a conoscenza. Intanto, quatto quatto, egli si accostava al grande ar­madio a muro che era nella parete, ai piedi del letto. Mi indicò di sor­vegliare la porta e, con un gesto brusco, impugnando la pistola, ne aprì di scatto un'anta. Entrambi fummo come soffocati dall'odore intenso che da esso si sprigionò: lo stesso stramaledetto odore di sempre, dolciastro e stomachevole...

L'armadio era vuoto. Solamente, da una gruccia, pendeva un'am­pia cintura di raso bianco. Egli la prese con un fare quasi possessivo ed insieme delicato e religioso. Sussurrò, muovendo appena le labbra livide: "Era di Theanò! La legava spesso in vita e con essa fermava i fiori azzurri del prato che le piacevano tanto... Diceva che quei fiori erano una delle poche cose belle di questo luogo orribile...".

L'ascoltavo e il mio cuore aveva avuto un tonfo di tristezza: dinan­zi agli occhi mi era tornata Selenya, un giorno che aveva fatto una gita... Anch'ella amava appuntarsi i fiori alla cintura e poi sorrideva felice con quel suo visino dolcissimo, quasi che quei fiori l'aiutassero a fugare un po' della sua malinconia. Ero in quell'attimo di ricordo, rapito e dispe­rato, quando vidi che il notaio si era chinato a raccogliere dal basso qualcosa: era una carta tutta appallottolata. Egli l'aprì e vidi che il suo viso si faceva attento. Poggiò il tutto sul letto e con la mano tentò di lisciare le pieghe, per poter veder bene ciò che vi era.

In quell'attimo, però, un qualcosa, e non so se alla sensazione io posso dare il nome di un qualcosa, sembrò "essere" fuori dalla porta. Io sussultai ed anche il notaio Ferguson si girò di scatto, tesi com'eravamo a cogliere nel silenzio anche il respiro delle cose... Camminando raso la parete, silenziosissimo, raggiunsi la porta, con la pistola puntata. Sostai, trattenendo il fiato. Poi, come un falco che balza sulla preda, mi sporsi fuori dall'uscio. Non vi era nessuno e niente. O meglio, niente no!: nel breve corridoietto che portava alle scale si avvertiva, quasi, un movimen­to d'aria. Da giù, dal fondo delle scale, poi, lievissimo, ma tuttavia ben percepibile, giunse al mio olfatto quell'abominevole odore che, sul mio cervello esaltato, aveva l'effetto di uno scudiscio, fustigante la mia ansia e che io, chissà perché, accomunavo alla prigionia di Selenya. Ancor più, in fondo al mio io esasperato, lo associavo all'odore del sangue, in un contesto di allucinogeni vapori, erotici e stordenti...

Il notaio mi era scivolato accanto ed anch'egli che aveva annusato, tra i denti sibilò un'imprecazione rabbiosa.

Scrutammo dappertutto, allarmatissimi, poiché ci rendevamo conto che l'essere in una stanza con la luce accesa, ci rendeva facile bersaglio.

Poi, visto che nulla di sospetto si riusciva a captare, mi fece cenno di entrar dentro. Sul letto, ben distesa, era la carta raccattata preceden­temente e, malgrado le molte pieghe dell'appallottolamento, si riusciva a vedere chiaramente che vi era tratteggiato qualcosa: in primo piano era il fiume, il Black River, disegnato con una tale vivezza di tratto da indicare una vera mano d'artista e su esso, il ponte. Lì dove vi era l'ansa più profonda, ai piedi di quel gigantesco cipresso, dove era stato ritrovato il corpo del giardiniere, era scritto: "No".

Il notaio, con la punta dell'unghia, me lo mostrò, fiatandomi: "Colà è stato ritrovato il cadavere"...

Nella parte alta della carta, poi, molto più in piccolo, erano raffi­gurate, con brevi linee schematiche, tre sagome: del mulino (più in bas­so) del castelletto (torvo e opprimente, con tutte quelle edere bruno-verdognole che lo avvolgevano come in un abbraccio letale di una mo­struosa piovra) e della capanna degli attrezzi (era probabile fosse questa più per deduzione logica che per effettività del disegno: infatti la carat­terizzavano solo quattro linee schematiche).

Colpiva la singolarità del fatto che sia il mulino che il capanno erano appena accennati, in massima schematicità di tratti, mentre il ca­stello era disegnato con dovizia di particolari, in maniera magistrale. Si poteva pensare che ad eseguire il tutto non fosse stata la stessa mano e forse anche in momenti diversi...

Fra il disegno del mulino e quello del castelletto e quello del fiume, era uno strano scarabocchio, o tale sembrava a prima vista. Io e il notaio guardavamo in silenzio, pur gettando continue, rapide occhiate verso la porta, quell'insieme incomprensibile di linee che si dipartiva con due segmenti da quel punto del fiume. Sottovoce egli osservò: "Pare un

robot che, emergendo dall'acqua, unisce con le due braccia il mulino e il castelletto".

Sì, infatti era così. Dall'ansa del fiume l'una, dal cipresso ove era scritto "No" l'altra, si dipartivano due linee oblique (le gambe), conver­genti in alto. Giungevano sino ad un rettangolo che poteva fungere da corpo. Al termine di questo, era un tondo con un largo taglio che poteva far pensare ad una bocca aperta. A destra e a sinistra del rettangolo erano due segmenti, simili a due specie di braccia che, idealmente, univano tra di loro il mulino e il castelletto; cioè, per intenderci, le due traiettorie erano asimmetriche, l'una più rivolta verso il basso (al mulino), l'altra, protesa verso l'alto (al castelletto). Poco più su, come detto, vi era la forma circolare, la testa immaginaria del robot.

Guardavamo e ciascuno di testa propria formulava tentativi di ipotesi ed almanaccava supposizioni... Tuttavia, data la circostanza del ritrovamento e l'inquietudine del luogo e dell'ora, noi si scrutava quel­l'incomprensibile rompicapo solo con la speranza che ci fornisse qualche indicazione d'immediata utilità... Certo era evidente che quel disegno o era stato fatto da un pazzo o, nella sua apparente bizzarria, voleva signi­ficare qualcosa: un messaggio volutamente incomprensibile a tutti, tranne che a chi ne doveva essere destinatario o una mappa promemoria...

Io protendevo per l'ipotesi di un qualcosa di cifrato. Ma cosa mai in realtà voleva significare? E chi lo aveva fatto? Qualcuno (Selenya?), per dare qualche pista? O invece quel demonio misterioso con chissà quale intento? Forse di far perdere delle tracce preziose!

I minuti passavano ed ancora una volta ebbi l'impressione che "fuori" vi fosse una presenza. Toccai col gomito il notaio che mi fece un lieve cenno di assenso con il capo. Non si sentiva alcun rumore ed il tempo era scandito solo dal battito accelerato del nostro cuore e dal disagio fisico di tenerci addosso quegli indumenti fradici di pioggia. Tuttavia, ora sì che ne ero sicuro, degli occhi magnetici ed ipnotizzatori mi foravano la pelle. Mi sentivo spiato ed ero certo che quell'essere fosse ormai molto vicino, che quasi mi sembrava di udire il suo respiro ansante ed affannoso... Mi sentii frugato dentro e quasi carpito in una invisibile rete di mortale pericolo. Ebbi un brivido e una sensazione fisica incom­bente come se qualcuno alle mie spalle stesse per colpirmi... Mi girai di

scatto e il mio dito sul grilletto, comandato dal mio io interiore che aveva visto il grugno della morte, sparò! Il colpo silurò l'aria e con un sibilo bucò la parete laterale alla scala, al di là della porta. La luce si spense!, quella dannata luce che in quella casa, invece che esser parte di un comune impianto di illuminazione, pareva appartenere al satanico domi­nio di una potenza malefica. Io e il notaio ci serrammo vicini, certi che adesso saremmo stati attaccati.

Uno sbuffo d'aria fredda ci sbatté sul viso, indicandoci chiaramen­te che ora eravamo di fronte ad una fonte d'aria, aperta sull'esterno: infatti da fuori ci giunse cupo e lontano un brontolio sordo di tuono... E poi, poi, e ancora mi sento dentro quella lama tagliente che mi spacca il cervello, poi, ecco, quella risata!... Vicina, vicinissima, prima; con una sonorità che si andava disperdendo ed incupendo in lontananze cave, dopo, quella risata di pazzo ci beffava in un allucinante scherno di vit­toria. Bestemmiai ed urlai con tutte le mie forze: "Carogna!, maledetto!". Ma la risata diabolica continuava a snodare echi di lugubri risonanze, perdendosi in concavità sonore che sprofondavano sempre più. Più volte la luce tornò e poi si spense ed io e il notaio, terrorizzati e lividi di una rabbia, ahimè sterile, sparavamo verso quella direzione da cui ci sembra­va giungesse quel ghigno malefico. Silenzio... Il notaio, furente sibilò: "Credo che non siamo riusciti a prenderlo... Però, perché non ci ha attaccato?...".

Un tuono rotolò la sua fuga con un rimbombo carico di echi e a quel frastuono la risata delirante si fuse, ampliandolo e divenendo quasi l'asmatico tartassare di un orgiastico grido di vittoria...

La luce tornò definitivamente e con nostro infinito stupore ci ac­corgemmo che la parete forata dai nostri innumerevoli colpi di pistola andava presentando un'ampia fessura, apertasi, indi richiusasi male. Con frenesia, tentai con le mani di divaricare quello spiraglio che pareva resistere. Il notaio intanto aveva preso uno sgabello sgangherato che era nella stanza e con quello iniziò a percuotere la parete in quel punto. Miracolo!

Pian piano la fessura si allargava come camminando su un invisi­bile binario su cui prima si era incantata. Ed ecco che ci apparve uno stretto vano, illuminato da una fioca luce bluastra... Da lì si vedeva

iniziare una lunga scala, assai ripida e scoscesa... Esclamai: "Mio Dio! Rassomiglia a quell'altra che dietro il pannello ligneo porta chissà dove...".

Io e il notaio ci guardavamo sconvolti e notai quanto egli fosse pallido e tremante, addirittura quasi cianotico e con la bocca schiusa in un tentativo estremo di respirare meglio. Con una mano si premeva for­temente il petto e ad un tratto, quasi vacillando, si appoggiò alla parete. Gli chiesi preoccupato, mentre il pensiero tremendo che egli potesse essere stato colpito mi attraversava la mente: "Sta male?". Egli fece di no con il capo, ma il suo aspetto diceva esattamente il contrario. Gli feci il gesto di volerlo sorreggere e di accompagnarlo di là. Scosse violente­mente la testa in segno di diniego e con la voce roca ed ansante mi disse: "È questo vecchio cuore che non vuole più andare". Sorrise amaramente con le labbra strette in un taglio dolente. "Fuori ho le gocce, le prenderò, ma prima voglio annientare quel lurido verme, me la deve pagare!...". Io lo ascoltavo e intanto, rivivendo quell'altra terribile esperienza che quasi mi era costata la vita, cercavo di esaminare bene dove mai potesse por­tare quella discesa in cui, ne ero certo, era fuggito il pazzo.

L'apertura era lì, all'apice della scala appena salita, quella che dal piano terra portava al corridoietto del primo piano, ove ora ci trovavamo.

Propriamente, il varco era sul limite della parete, là dove mancava il parapetto della prima scala. Pertanto, da quel vano, reso invisibile da quell'insospettabile pannello scorrevole, era facile spingere giù per i gradini rotti e sberciati, una persona, facendola precipitare nel vuoto. Certamente così era avvenuto per la mia povera zia Meg che in quella terrìbile notte cercava colà Selenya, attratta da chissà quale voce, da quale canto o forse da un crudele inganno di quel mostro che era il suo assassino. Sì, ora sapevo: quel miserabile aveva assassinato la zia e, quasi sicuramente, anche lo zio Martin, pur se ancora non mi era noto il come; e lui, sempre lui era il carnefice carceriere di Selenya.

Questo pensiero mi assestò un pugno di ferro allo stomaco e mi accese dentro un odio dilaniante. Guardai il notaio che ora sembrava un vecchio di settant'anni, se non fosse stato per quel lampo d'acciaio negli occhi foschi. Gli dissi: "Io vado giù, vado sino all'inferno, devo, devo salvare Selenya... Lei mi aspetti in macchina, è meglio!".

Egli si drizzò nella persona e con le pupille scintillanti d'odio mi disse con una voce metallica che non ammetteva discussioni: "Ragazzo mio, Selenya è mia figlia, capiscilo, ed io non sono ancora morto! Vengo anch'io con te, fosse fino all'inferno!...".

Quel - tu - per la prima volta e quelle parole così ardenti e dispe­rate mi legarono a lui con un nodo indissolubile di affettuosa solidarietà: mi sentii più forte ed ora avvertivo che eravamo due tigri pazze di dolore che volevano attaccare fino all'ultimo sangue...

Dissi, deciso: "Avanti vado io, lei mi guardi le spalle".

 

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                              torna a indice