Parte ottava  ALLA RICERCA DEL PODERE POLISSÉNA

Capitolo 1 - Capitolo 2  - Capitolo 3      

 

 

         
 

 

 

CAPITOLO 1

 

Presto l'azzurro terso del cielo della Grecia ci diede, invece, il benvenuto e sotto di noi, sul crespo delle onde, macchie brune di isole ed isolette come bizzarri foruncoli della natura, chiazzavano la distesa turchina del mare, mentre, superba come la dea dei flutti, la Grecia continentale ingobbita dalla sua dorsale montuosità svettava al sole la sacralità dei suoi olivi. Mi accorsi di essermi lasciato andare a pensieri di retorica classica e con amaro rimpianto ripensai ai miei articoli gior­nalistici, in cui usavo la penna a mo' di pennello. Ora invece, la mia penna era quel qualcosa gelido e metallico, sempre carico, che avevo nella tasca, pronto ad usarlo come unica risorsa vitale. Così, tra scenari incantevoli e suggestivi, nel fascino di un'arte nuova e vecchia, maesto­samente splendida (bellezze tutte che i miei occhi ormai non sapevano vedere più), giungemmo ad Atene.

Consolato, uffici vari, agenzie turistiche, stazioni e porti, un vaga­bondare di giorni eterni, vuoti ed inutili. E poi l'informazione preziosa: Mirakys, sì, la cittadina nell'interno, che anticamente portava il nome di Knopulys.

Da Kaphos, un trenino lento e sonnacchioso che ansimava il monotono passar delle ore, ci condusse colà.

Orizzontale alla stazioncina, un viale alberato, anzi recintato a destra e a sinistra dalla frusciante dovizia delle larghe foglie, come due braccia aperte in segno di saluto, ci accolse: era, da un lato, il rumoroso centro cittadino e, dall'altro, una periferia campagnola, dove ben presto le palme lasciavano il posto ad alberi da frutto prima e poi a fronzuti giganti lignei in vista del piccolo raccolto cimitero. Tutta qui Mirakys, ma dove mai era il podere Polissena? La ricerca si dimostrò assai più difficile di quello che pensavamo e fummo costretti a fermarci pressoché diversi giorni, per così dire a tempo perso, presso il modesto albergo che sorgeva nei pressi della stazione.

Nessuno pareva saperne nulla e, se non avessi ricordato le affer­mazioni, certamente attendibili del notaio Ferguson, avrei creduto di aver sbagliato pista.

Poi, quando delusi e sfiduciati ci domandavamo che altro fare, una sera il portiere dell'albergo a cui avevamo ripetutamente chiesto con insistenza, ci disse di aver saputo...

Forse, quel cotal Podere Polissena che noi così tanto cercavamo, era un'antica tenuta con campagna e casa padronale donata già da gran tempo dai proprietari di cui, però, egli non sapeva il nome, ad una co­munità religiosa che su quel terreno aveva costruito un convento e una casa per anziani.

Questa ci sembrò una pista d'oro e, all'indomani, ci catapultammo sul luogo... Purtroppo però, mai come in quel posto, le indagini furono sempre circondate da un muro di silenzio che non si capiva se dettato da vera ignoranza o piuttosto dal bisogno di sottacere, chissà perché, il passato...

Interrogammo in giro tutti quelli che avevamo modo d'incontrare, soprattutto ì vecchi; domandavamo nella locanda, piena dì arzilli consu­matori, notizie degli antichi proprietari del Podere Polissena... chiedeva­mo della famiglia Kiryakopulos ai vecchietti, ciarlieri e sfaccendati, che facevan un chiasso enorme dinanzi ai bicchieri colmi di un vino sangui­gno e profumato, giocando al back gammon. Ma di parlare, nulla! Ci guardavano ostili e diffidenti, dicendosi l'un l'altro che gli stranieri cercavan nebbia e, tra grasse risate, probabilmente si burlavano di noi.

Chiedemmo anche alla superiora del convento che in verità ci ricevette con fredda gentilezza, ma con una certa disponibilità. Ella disse di non sapere niente, anche perché, data la mobilità con cui loro suore si fermavano per breve periodo, or qua, or là, lei che era arrivata da assai poco tempo, nulla sapeva. Tuttavia, aggiunse che se anche avesse saputo qualcosa, per disposizioni dell'Ordine, non ci avrebbe potuto svelare alcunché. Ciò era veramente strano, ma ella, fermamente, alle nostre insi­stenze, ci pregò d'interrompere l'inutile colloquio. Solo, poteva consi­gliarci di rivolgerci all'annessa casa per anziani, gestita da alcune suore del suo stesso Ordine in momentanea sospensione di clausura, per sapere se colà era ricoverata una delle persone che noi cercavamo.

Così, più delusi che mai e certi che anche lì sarebbe andata buca, fummo al ricovero per vecchi "Maria Clemens".

Alla porta venne una vecchietta con sugli occhi un assurdo velo nero che quasi la faceva inciampare. A lei, io con dentro tantissima ansia ed agitazione, chiesi se in quel luogo era ricoverata una certa (e la voce mi tremò nel formulare quel nome) Selenya e non sapevo se dire Weefor o Kiryakopulos. Il pastore, più calmo di me, precisò, pacatamente: "Cer­chiamo Selenya Weefor e Theanò Kiryakopulos e...". Esitò un poco, indi, con tono più sommesso aggiunse: "...e Selenya Bosas Kiryakopu­los. Siamo dei parenti".

La vecchietta ci guardò con fare interdetto e stupito, bofonchiando qualcosa che era, forse, un - come? -. Indi, tirando fuori dalle sue tante gonne, una specie di taccuino spiegazzato e macchiato d'olio e un rustico mozzicone di matita, indicando al pastore col dito il rigo, disse: "Scrivi, scrivi". David così fece ed ella, borbottando in greco chissà cosa, si allon­tanò più impastoiata che mai.

Di lì a poco, lieve come una farfalla, apparve ora una suorina bassina e tondetta, assai giovane che gentilmente ci chiese il perché della nostra visita e dettagliatamente chi fossimo. Si vedeva che era indecisa... Allora, in un lampo mi venne di chiederle se quel pensionato per anziani si ergesse sull'antico podere Polissena. Ella avvampò e non rispose, ma, con un gesto gentile, ci fece cenno di seguirla. La suorina, pur robustella per quanto l'infagottatura dell'abito nero permettesse di capire, cammi­nava innanzi a noi velocissima, così tanto che il suo passo era quasi una corsa. Percorremmo un lungo corridoio e poi una scala. Giunti alla som­mità s'arrestò di botto e guardò in basso, attentamente, quasi a rassicu­rarsi di non essere stata seguita. Aprì una porta ed entrammo in una vasta sala, ove erano tante sedie e poltrone ed anche un divanetto dinanzi alla televisione. Ci indicò una vecchia signora che sedeva in fondo tutta sola. Indi, con passo leggero, ci precedette e, chinandosi su di lei, in un greco dialettale, le sussurrò qualcosa. Capimmo che le aveva detto di noi, perché la vecchia, che aveva in testa un fazzoletto nero ampio tanto da coprirle parzialmente fronte e guance, facendo una smorfia che mi sem­brò di gran paura, si coprì la faccia, abbozzando violenti segni di diniego. La suorina, allora, in un pessimo inglese, con un gesto assai dispiaciuto, ci disse: "La signora non vuol vedere nessuno, sta male ed ha paura...". Ciò detto, rimase interdetta sul da farsi. Allora David, con tanta dolcezza, esitante, azzardò mormorando con voluta pacatezza: "Signora... signora Kiryakopulos, vero? Signora Selenya Kiryakopulos, io sono il marito di, di... di Sophia, la sua figliola... e questo è Ronny Masters, il cugino di Reginald e della sua Theanò...". Queste parole sortirono su di lei un effetto strabiliante, infatti immediatamente si scoprì la faccia per guarda­re e si slargò il fazzoletto. Allora sia io che il pastore avemmo un tuffo al cuore: quel viso, pur magrissimo ed ossuto, assai assai invecchiato e recintato da un'aureola di capelli grigi, era, pur sotto la maschera di rughe sottili che la segnavano tutta, in tutto e per tutto, per me, il volto di Selenya e, per David O'Connor, quello di Sophia, salvo che negli occhi... Eravamo senza parole, emozionatissimi, entrambi profondamen­te turbati da quella rassomiglianza che adesso, finalmente, ci dava una spiegazione della lettera di Jeremy Tigh (o almeno a questa rassomiglian­za pensavamo si riferisse!...).

Ella che certamente aveva notato il mio pallore, chiuse gli occhi, quei grandi profondissimi occhi di carbone, dolenti ed appassionati che davano alla faccia, pur così sciupata dalla vecchiaia, forse da malattie e certamente dai cumuli di strazianti dolori, una bellezza antica, cupa e misteriosa, sconvolgente.

Forse capì il perché del nostro sguardo fìsso e colmo di dolore stupito; infatti disse rudemente in un discreto inglese: "Che avete da guardare? Sophia è morta. Theanò è morta. E questa Selenya io non la so. Io pure sono morta. Cosa volete da me? Io nulla so e nulla voglio sapere. Andate via, io sono vecchia e malata e voglio morire senza altre lacrime".

Quelle parole amare e taglienti andarono direttamente al cuore e aggiunsero tristezza a tristezza... Il pastore si riebbe prima di me e riuscì a dire: "Non abbiate paura... Io sono il marito di Sophia... a cui voi volevate tanto bene ed anch'io l'amavo tantissimo... Mio Dio, come vi rassomigliava! Identica nei lineamenti, nella forma del viso, solo gli occhi Sophia li aveva verdi come due smeraldi...".

Il viso della vecchia s'incupì e parve che sopra vi fosse caduta una ragnatela di mille altre rughe, profondissime e scure... David continuava: "Lui che mi accompagna ama disperatamente Selenya e la cerca dapper­tutto per salvarla da quel mostro di Hander Bosas...". Ella allora, dive­nendo pallidissima come una morta, s'imbruttì: maschera d'odio, furiosa e con voce roca bassissima, quasi soffocandosi, gracchiò selvaggiamente: "Via! Andate vìa, se no, grido alla suora di cacciarvi. Che volete da me? Io sono una povera vecchia malata e non so nulla, nulla di nulla. E mai più, mai più dite quel nome! Che sia maledetto e dannato nel più profon­do dell'inferno!...".

Quello scatto, quella furia, così chiaramente autodifensiva, mi la­sciò di stucco, perché mai l'avrei immaginata così ferocemente terroriz­zata di tutto e di tutti, ostile a qualsiasi comunicativa. Esitai, non sapendo con quali altre parole, più rassicuranti e convincenti, continuare il dialo­go. Il pastore, però, con infinita dolcezza, prendendole le mani tra le sue, le disse teneramente: "Calmatevi, per carità, calmatevi, siamo amici e vi vogliamo bene! E parlate piano, ogni posto ha orecchie e può sentire, capire e quel maledetto è ovunque...".

La vecchia iniziò a tremare violentemente e quegli occhi di pece ardente le si colmarono di lacrime. Si guardava attorno, spaventatissima ed ora serrava lei le mani del pastore, convulsamente, in una disperata richiesta d'aiuto. Con un filo di voce che appena riuscimmo a captare, ripeteva con monotona frenesia: "Maledetto, maledetto, ci ha ammazzate tutte, maledetto...". Poi, guardandoci di nuovo sospettosamente, ci chie­se piano: "Ma che volete? Se cercate notizie da me, io non so nulla e di che dovrei sapere? Tutte morte, solo io ancora sono qui che aspetto la mia morte, che mi sta accanto ed ancora non mi vuole prendere". Tacque agitatissima, poi riprese: "Chi avete detto che siete? Io non vi conosco e non ci avete un segno, andatevene!...".

Intanto, da una delle due porte in fondo della stanza parecchio grande, un infermiere anziano o forse uno delle pulizie, passò veloce­mente. La vecchia trasalì e le sue mani gelate si uncinarono alle nostre, ma la sua voce, stranamente calma, narrò monotonamente: "Non mi ri­cordo bene quanti anni ho, ma qui sto bene, mangio e mi curano. Mi curano e tutti sono buoni, poi vado in chiesa...". L'ombra che aveva raccattato qualcosa da terra, se ne era andata e la donna ci spalancò in viso due occhi terrorizzati: "Andatevene, per carità!", bisbigliò, indican­do col mento l'uomo che era appena sparito. "Io non so chi era quello lì, ma ho paura di tutti e a voi non vi conosco...".

Allora, io, d'un colpo, mi ricordai di un qualcosa che portavo sempre con me, nel taschino più interno della camicia. Cautamente, guardandomi attorno, tirai fuori il medaglione che era caduto a Selenya, in quella notte, quando mi era apparsa come un angelo martoriato e dolente. Serrandolo nella mano, lo passai tra le mani della vecchia signo­ra. Ella lo tastò col pollice, poi, chinandosi come per un improvviso colpo di tosse, lo guardò e uggiolò un gemito di bestia ferita. Indi, sempre coprendolo con la mano, mi fece cenno di metterlo via, mentre dai suoi occhi un diluvio di lacrime ardenti le rotolava sul viso, chiazzato da un rossore così acuto che non pareva più tanto vecchia, ma anzi assai più giovane e bella e, ahimè, ancor di più, in maniera maggiormente straziante rassomigliante a Selenya.

Si mordeva le labbra a sangue, perché non le scoppiasse singhioz­zo alcuno e si serrava nuovamente attorno alla faccia il fazzoletto nero. Era l'immagine di un dolore straziato sino all'impossibile! Mi venne istintivo di abbracciarla, ma ella m'immobilizzò con un gesto brusco e sul viso, tornato una maschera di cera, si dipinse un terrore gelato. Si guardò attorno e, con avida ingordigia, si scartò una caramella che aveva in tasca, quindi, simulando di essersi quasi mezza affogata, facendo un colpo di tosse che la costrinse a piegarsi in avanti, mi sibilò: "Andate­vene, se no il maledetto scopre tutto... Loro (e calcò la voce su quel -loro -) stanno nella... pace, benedette finché lui non... trova... Andate­vene, per carità, che quello vi spia e può scoprire tutto...".

Io sentivo il cuore che mi batteva così forte che il suo pulsare mi otturava quasi le orecchie. Il pastore che aveva anch'egli udito, pallidis­simo, con un fil di voce, sussurrò: "Loro? Sophia?... È... è morta...". La vecchia lo fissò con uno sguardo carico di tenerezza e, lievemente, gli fece sulla mano una fuggevole carezza. Egli fu percorso da un brivido d'intensa commozione, poi, a fatica, bianco più di un cadavere, si rad­drizzò e disse a voce alta, schiarendosi la gola per ricacciare giù il pianto: "Noi andiamo, domani partiamo per l'America. Vi lascio, in nome del Signore e che la pace dell'Eterno sia con voi e con il vostro dolore per le troppe morti di tutte le persone a voi tanto care; per come io supplico che abbia pietà di me e mi dia rassegnazione e pace per la morte della mia adorata sposa".

Io non sapevo che dire e che fare, mentre una valanga di domande mi tempestava dentro. Le dissi: "Anche se sono disperato, me ne vado, ma se voi avete bisogno di qualcosa...". Mi interruppe dicendo: "Io ho bisogno solo della morte!". Poi, alzando la voce, cupamente aggiunse: "Di questa morte che ancora non mi prende, e che, finalmente, mi unirà a tutti i miei cari che ormai non sono più...".

 

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 2



...Ora io e David O'Connor eravamo fuori dal vecchio pensionato per anziani. Era un dolce meriggio di primavera avanzata, ma in quella terra odorosa di languidi fiori e di turgidi frutti sembrava già estate. Il lungo viale che portava dall'immediata periferia fiorita di casette candide e, qua e là, di campetti e praticelli verdissimi, (sede romita del convento delle suore Dolenti e del ricovero Maria Dolens) sino al piccolo centro cittadino, era un lovepath: sì, pareva, con quegli alberi a destra e a sinistra che, a tratti, fondevano in alto i loro rami, un dolce condotto di aromi agresti che, smossi dal lieve venticello che veniva dal mare, ci avvolgevano in una soavità d'altri tempi, d'altri luoghi. Colà, quel respi­ro intenso della campagna ridesta nella sua veste d'oro caldo, con le spighe tremule alla lieve carezza del vento, son quei fiati di erbe varie, ora dolciastri, ora amarognoli e selvaggi, annullava il concetto di città, sporcata dalle corse di un traffico convulso. In fondo, parecchio lontano, si scorgevano, severi e cupi, i verdi custodi del piccolo cimitero, recintato di cipressi... Qualche bicicletta passava e chi era sopra ci guar­dava, sorridendoci spesso...

Noi andavamo... Andavamo, pervasi da una commozione intensa che non dava posto a parole, ciascuno con i propri ricordi.

Ad un tratto, sotto un gruppo di alberi di magnolie vidi una pan­china solitaria, fatta apposta per gli innamorati: un angolo romantico che sembrava conoscere dolcissimi segreti, custoditi prima nelle candide coppe dei grandi fiori e donati poi dal cinguettio festoso degli uccellini a quel cielo turchino che già si animava dei palpiti rossi e violetti del tramonto... Mi sedetti e mi presi la testa tra le mani: erano ormai troppe le emozioni che spaccavano il cuore e troppo pochi gli aquiloni di speranza che duravano ancor meno di un attimo, per poi rovinare ed infognarsi nell'imbuto nero della disperazione. Avrei voluto che quel mstico sedile in pietra fosse il mio ultimo sasso su cui poter finalmente dormire un sonno senza tempo, in quell'occaso fremente di garriti e di quell'intenso odore asprigno di erba fresca.

Il pastore sostava vicino a me, in piedi, col viso pallido e smunto, dalle grandi occhiaie che cerchiavano gl'ingenui occhi celesti. L'alta figura era curva dolorosamente in avanti, come se fosse carica di un peso insostenibile.

Il silenzio fu lungo e infiammato di pensieri. Poi, egli, con la dolcezza paterna di chi, sulla barca del dolore, ha raggiunto la riva della rassegnazione, mi disse: "Ronny... Ronny, andiamo! Domattina presto dobbiamo partire. Dobbiamo...". - Partire? - Questo verbo trovò dentro un io stupito e impreparato, mentre l'altra parte di me, con gli occhi chiusi, su quella panchina attendeva il risveglio e l'evasione da quella orribile storia. ...Quieto mi rispose un suono di campane... "Partire?", gli chiesi ed egli, appoggiandomi la mano calda ed affettuosa sulla spalla, annuì. Allora, improvvisamente carico di una desolata vecchiaia, incre­dula di quell'arcobaleno di speranza che la vecchia mi aveva schiuso, mi alzai. Mi vennero sulle labbra mille domande e convulsamente iniziai a chiedergli se credeva... se poteva esser vero... Ma egli, divenuto im­provvisamente brusco e severo, mi ordinò: "Taci!". Sussultai e mi guar­dai attorno, ansiosamente. "In albergo...", mormorò David, sottovoce. M'incamminai e quella lava ardente di dubbi, di speranze, d'illusioni, di probabilità calò sui miei sensi: spense l'incanto di quel tramonto medi­terraneo e la suggestione ottica ed olfattiva, di quei colori che incendia­vano il cielo e di quegli aromi, di quelle sottili essenze campagnole che olezzavan la sera.

David, come un regista perfettissimo, comandava la sceneggiata e, simulando l'aria ingenua del più candido turista, cercò un ristorantino. Lì, con dolce fermezza, m'impose di prender qualcosa: un brodo, un thè, almeno... Per sé ordinò un bicchiere di latte. Chiacchierava senza fretta, guardandosi attorno con interesse - turistico -. Solo quando io mostrai, in uno scatto di nervosa tensione, la mia urgenza di rientrare in albergo, serrandomi fortemente il braccio, mi alitò da dietro la carta del menu:

"Attento, mi sembra ci abbiano seguiti...". Mi alzai in piedi, simulando di essenni appena macchiato e guardai fuori dalla porta aperta: una macchina nera che prima non avevo notato era ferma proprio dinanzi al marciapiede ma era vuota. Intanto il pastore chiedeva al cameriere, a voce alta, quali fossero i piatti locali tipici, rammaricandosi di dover improrogabilmente partire all'indomani. Era un peccato lasciare per sem­pre quella stupenda terra greca!

Più tardi, in albergo, pianissimo, temendo di essere uditi persino dallo spento grigiore delle pareti, si scatenarono commenti, incredulità, speranze, progetti... Io ero come un ragazzo impazzito e lui, invece, come un vecchio saggio, pur straziato ma certo della crudele giustezza della sua decisione, continuava a ripetermi: "Se la vuoi viva, domani improrogabilmente si deve partire... Comprendilo, si deve partire. Non contano il nostro spasimo, le nostre speranze: solo salvar loro... Oh, mia Sophia... Qual è, mio Dio, la verità?!...". Ma su me, in quegli attimi d'assurda illusione, non pesava più l'ombra malefica del Bosas! La feb­bre di Selenya, di ritrovarla, forse in quel misterioso podere Polissena di cui avevamo saputo poco o nulla, m'incollava colà, col miraggio di poterla avere finalmente tra le braccia... Inoltre, più forte del mio trasporto era il terrore che le fosse fatto del male e la speranza, seppur illusoria, di fare io da bersaglio sostitutivo.

Comunque pensavo che avrei potuto difenderla più da vicino che da lontano.

Perciò il giorno dopo, affranto partì solamente il pastore, in verità assai preoccupato e scuro perché temeva stessi facendo un scelta imprudente, pericolosissima per me e per altri. Io invece, simulandomi turista, dopo vari giri e comprata una sbarra di cioccolata, tornai al pensionato di Maria Clemens. Prima avevo allungato sino al piccolo cimitero che pareva donnire un sonno irreale in quel mattino radioso di sole e di cento frulli d'ali. Lì, avevo pregato nella cappelletta e, ricordando accoratamente mia mamma, l'avevo supplicata di aiutarmi, certo di un continuo, intensissimo legame che unisce i vivi ai morti più cari...

Giunto nell'ospizio, chiesi della suora piccola e rotondetta che il giorno prima mi aveva accompagnato. Ed eccola! La suorina, che poi seppi chiamarsi suor Helèna, mi pregò gentilmente di essere brevissimo, perché la signora, nella notte, era stata male col cuore.

La trovai che era seduta presso l'ampia vetrata, al sole. Aveva in mano una scodella di latte che sorbiva lentamente e poco discoste erano altre suore che davano delle ciotole a delle altre vecchine. Appena mi vide, sbiancò e le mani ebbero un tremito, rovesciando in parte la tazza del latte... Mi mormorò, cupa e spaventata: "Perché sei ancora qua?". Esitai, sentendomi in colpa, mentre la suora, con affettuosa cortesia, l'asciugava e in greco disse qualcosa a quelle altre suore. Una si girò e, dando all'altra che invece restò immobile, di spalle, il vassoio con le rimanenti tazze, prese un'altra scodella di latte e la portò. Ma i miei occhi, come calamitati, restarono attaccati alla figurina alta e snella della suora che non si era girata e... senza un perché, il cuore m'iniziò a battere pazzamente! Così, istintivamente, feci un passo in quella direzio­ne, ma la suora anziana che aveva portato il nuovo latte, fissandomi con degli occhi severi, allargò il braccio libero e mi arrestò. Poi, continuando a fissarmi intensissimamente, quasi a trasmettermi con quello sguardo un ordine indiscutibile, sorridendomi lievemente, con la testa, appena appe­na mi fece cenno di no. Indi, diede la tazza alla vecchia signora che carezzò dolcemente e, velocissima, ritornò dall'altra religiosa ed entram­be, lievissime ombre di vento, sparirono in una porta...

Ero emozionato... La donna, la madre di Theanò, sottovoce, mi disse: "Tienimela" e mi porse la scodella, indi, guardandosi in giro, si aggiustò la copertina sulle gambe e si protese per riprendersi la bevanda calda. Così mi alitò in viso in un soffio: "Vattene e vai al telefono del bar Zàlatta, ma giura che poi parti". Annuii e, cercando di superare il tremito interno, dissi ad alta voce: "Il pastore è partito e la saluta tanto. Anch'io parto oggi e le auguro tanta buona salute e la pace del Signore. Le ho portato questa sbarra di cioccolata". Alla donna si riempirono gli occhi di lacrime e fece con la mano un gesto vago e triste, dopo aver preso la tavoletta... Leggera come una piuma, riapparve suor Helèna che mi fece cenno di muovermi. Fummo al vestibolo ed ella, guardandosi lestamente d'attorno, mi bisbigliò nel suo buffo inglese: "Il bar Zàlatta è all'angolo a destra. Ma non torni più...". Sparì! Ed il sole di quell'ul­tima mattina greca mi guidò.

Riflettevo con un batticuore interiore che presso quelle suore tutto aveva uno strano sentore di mistero, come se quelle religiose sapessero, e cosa non sapevo, e non volevano o non potevano parlare...

Fui nel bar, assai frequentato da una piccola folla ciarliera. Ero indeciso e con gli occhi cercavo la cabina telefonica. Il barista mi chiese cosa prendessi ed io, nervosamente, ordinai un whisky. Nel servirmelo, egli mi disse in un pessimo inglese: "La cabina è là". Trasalii e, simu­lando indifferenza, a passi lenti mi ci recai... Lì dentro mi mancava l'aria ed avevo quasi un senso di paura e di terribile ansia... Precauzionalmente misi la mano in tasca, ove avevo la pistola. Attesi, attesi... Ed il tempo era secoli di piombo... ma quel telefono taceva. Guardavo e riguardavo l'orologio...

Dei passi veloci si avvicinarono ed il cuore galoppò... Un attimo di esitazione e poi i passi andarono oltre... Serrai la pistola e mi accorsi che la cabina non aveva vetri, ma era tutta in legno. I passi tornavano: mi tesi, sicuro che ora qualcuno avrebbe spalancato la porta e mi dissi che ero stato stupido ed incauto. Quello era certamente un trabocchetto! Ma i passi leggeri, di una donna, probabilmente, erano andati oltre.

Tuttavia ero perplesso, lì lì per uscirmene, quando... lo squillo! Mi sembrò che il mio braccio si fosse atrofizzato, poiché lo sentivo rigido. Invece in uno scatto afferrai la cornetta; feci: "Sì..." e dall'altra parte una voce di donna, non giovanissima (annotai), mi recitò velocemente, in perfettissimo inglese: "Non parlare, non chiedere nulla, ma ti supplico se ci vuoi tutte vive (e caricò il tutte) parti subito, fallo, per pietà, e bada, cercherà di ucciderti! Se vuoi una prova, purché tu parta, vieni alle 12 alla chiesa del Cristo Re, all'acquasantiera. Accertati (devi esserne sicu­rissimo) di non essere seguito...". Ciò detto, senza che io potessi ribat­tere una parola, agganciò. Uscii dalla cabina che ero tutto un sudore! Ordinai una bibita fredda e poi, che ne avevo davvero bisogno, un dop­pio whisky... Mi sentivo tutto lo stomaco in subbuglio, ma il cuore mi si spaccava dalla gioia e dall'ansiosa attesa... Chi era quella persona? Ero certo di non aver mai sentito quella voce. Era forse Theanò Kefrai? E cosa mi aspettava in chiesa?

Cercando di dare alla mia andatura un passo medio, chiesi più volte, a voce alta, ove fosse l'agenzia viaggi, che invece ben sapevo dove si trovasse.

Poi entrai da un fotografo e comprai un nuovo rollino che caricai nella macchina fotografica in strada, approfittando per guardarmi attor­no... Indi, lemme lemme, raggmnsi l'agenzia dove presi un biglietto per il primo aereo...

Guardavo nervosamente l'ora: le 11. E sì che un secolo prima erano le 11 meno 10!

Gironzolavo, fotografando e chiedendo di monumenti artistici. Una donna con un bimbo in carrozzina mi fece una lunga elencazione di cui io capii pochissimo, ma annuivo, fingendomi assai interessato, men­tre in cuore mi sentivo un burattino caricato meccanicamente... Fra le altre cose ella mi disse di andare a vedere la Chiesa di Cristo Re!... Il cuore sparò un sì felice, ma la mia faccia mascherata da turista sfaccen­dato, si limitò a sorridere... Formulai un "Thank you, very much" e, pigramente!, andai...

Strade, piazze, viuzze. Ed io, Ronny Masters, l'ombra di me stesso per il continuo accavallarsi di emozioni, (trascinavo al guinzaglio tre cuori, uno verde di tìmide speranze, uno rosso d'accese emozioni, uno nero di vaghe paure, fotografavo) mi fermavo alle vetrine, mentre quel mio maledetto orologio non andava, non andava!

Ecco la chiesa! Un nodo alla gola mi costrinse a fermarmi. Era nella parte vecchia di Mirakys: la vedevo pressoché di fronte, trovando­mi in una stradicciola laterale che sbucava quasi all'angolo. Non distanti, dei ragazzetti giocavano rumorosamente, mentre uno armeggiava ad una bicicletta. Allungando il braccio per posizionare la macchina fotografica, guardai in un baleno l'ora: 12 meno tredici, tredici d'agonia! Scattai! E poi feci altre foto alla facciata della chiesa e alle casette vecchie, ma estremamente caratteristiche, per la verità, che con grande armonia archi­tettonica, facevano da corona alla chiesa.

Contemporaneamente mangiavo tempo e mi guardavo da tutte le parti, per esser certo che non vi fosse qualche viso sospetto che potesse avermi seguito. Entrai. Dal fondo della chiesa, verso l'altare maggiore mi accolse uno snodarsi lugubre e sonnolento di liturgia a più voci. Ebbi un attimo di disorientamento, causato più che altro dalla violenta emozio­ne... Poi la penombra della chiesa mi sembrò mi accogliesse, complice.

Mi guardai attorno e mi accorsi così che si stava celebrando un funerale. Con sguardo ansiosissimo cercai l'acquasantiera e la scorsi non distante dall'entrata principale. Non vi era nessuno. Feci qualche passo e poi mi misi a scattare qualche foto, tenendo però ben presente l'artistica marmorea bacinella che pareva una conchiglia rovesciata. Con un sussul­to interno vidi che, in fondo, due suore, vestite in maniera simile a quelle del pensionato, sistemavano in vari contenitori dei fiori. Altre, inginoc­chiate in prima fila, recitavano il rosario. Dei sacerdoti, girando intorno al catafalco, scuotevano il turibolo e un lieve profumo d'incenso penne-ava l'intimità del luogo. Tre religiose si alzarono ed andarono a prendere da una piccola cappelletto laterale dei portafiori che recarono alle altre due. Si muovevano meste e tacite, almeno così mi sembrava. Poi, due di queste, tenendo in mano due grandi vasi, colmi di crisantemi, a passi lesti, andarono verso l'acquasantiera. Avevano entrambe il volto coperto da un velo nero...

A me, anzi alla pazzia della mia anima innamorata, parve che una delle due suore, la più alta e snella, assai esile malgrado l'infagottamento dell'abito, fosse la medesima vista nel refettorio del pensionato assieme alla suora anziana che mi aveva fissato a lungo, facendomi quello strano segno di negazione.

Dentro, il cuore mi scandiva un nome: Selenya! Come ombre oranti, le due sorelle furono all'acquasantiera. Avevano sul viso il mede­simo velo nero della suora portinaia, però, stranamente, questo mi sem­brava assai più spesso, tanto che non riuscivo, da dove ero, ad intuire nulla dei loro lineamenti. Una delle due, non Quella, dopo essersi devo­tamente segnata, prendeva con la mano dell'acqua e la buttava lievemen­te sui fiori.

La cosa insolita mi colpì e mi venne di scattare una foto, ma poi qualcosa mi fermò... Alla suora, non so come, era caduto un fiore per terra ed io, allora, che non ero lontano, mi accostai e glielo porsi. Ella lo prese, lo infilò nel vaso e, con un gesto velocissimo, nascondendosi a tutti, tranne che a me che le ero vicino, si alzò il velo. Non so tradurre il fuoco ardente di quell'attimo in cui i miei occhi, anziché fornirmi un'immagine pura e semplice, mi proiettarono, in un flashback intensa­mente emozionale, la donna del quadro che il notaio Ferguson mi aveva detto essere Theanò Kefrai. Sì, quel volto pallido e stanco, ormai non più giovanissimo, dai grandi occhi fondi e nerissimi, era, era certamente quello... Mi morsi le labbra a sangue per non urlare! La rassomiglianza era spaventevole, tanto identica che per un attimo pensai che quel volto pur così invecchiato, fosse quello di Selenya. Ma, no! Non potevo sba­gliare...

Ovviamente il velo era già stato abbassato! Ma ella, quasi leggesse i miei roventi pensieri, fece di sì con la testa. Indi, facendo scambio con la compagna del vaso, e notai, se il mio sguardo non era così stravolto, che a questa tremavano violentemente le mani, anche su questo gettò un lieve spruzzo d'acqua. Poi inchinò dentro la conchiglia marmorea i cri­santemi. Un petalo, se petalo era, si era staccato ed ella, mi parve, me lo indicasse con un gesto impercettibile... mentre già si muoveva per anda­re. Mi sembrò che l'altra suora, quella sempre col velo abbassato, esitas­se un attimo... No, leggere e tacite, più lievi di un sogno, le due religiose andavano ed erano all'altare maggiore, confuse con le altre, indi­stinguibili, irraggiungibili.

Rapido presi dall'acqua il - petalo - che galleggiava; indi mi segnai meccanicamente, mentre le dita spasmodicamente serravano, pal­pando come potevano, il qualcosa che petalo non era! Misi la mano in tasca con il - coso - ed uscii e mai strada nella mia vita fu più... flagellante. Eterna!

Il cervello mi ripeteva a martello: Theanò Kefrai, data addirittura per cremata, non era morta! Chissà come, per quale rocambolesca traver­sia, dall'America era ora in Grecia! Ma era poi questa la verità?... E l'altra suora, per me suor Mistero, era Selenya? Ipotesi!...

Ciò a parte, non riuscivo a raccapezzarmi, per quanto si possa nel chiuso di una tasca, di cosa fosse quel quasi tubicino: era morbido e vellutato come un petalo e nel dentro liscio e un po' rigido...





CAPITOLO 3


       Fui in albergo e il mio sbigottimento, la mia incredulità trovarono purtroppo solo un ulteriore inquietante interrogativo in quel microscopi­co messaggio che ebbi modo finalmente di decifrare... Quella lettura nella stanza d'albergo, fatta mille e mille volte, causò l'immediata par­tenza!

Torturato, con nel cuore una gioia che appariva e spariva, strazian­domi in un'alternativa di dubbi e di incertezze, un pensiero mi trapanava il cervello come un ferro rovente: tra me e Selenya, se veramente ella era viva, se veramente ella era Quella vestita da suora, era il gioco feroce di due vite: la mia e quella del Bosas, che mi cercava per uccidermi, che avrei cercato, fino all'ultimo respiro, per uccidere, poiché la sua morte voleva dire la vita di Selenya e la mia e il poterla finalmente ritrovare!...

Quel biglietto! Una pellicola di qualcosa simile alla carta velina, ricoperta da un esile strato di plastica incollato su un petalo di crisante­mo! Su esso, appena appena leggibile, tracciato da una, quella, (follia!?) scrittura inconfondibile ma ora assai incerta si coglieva: "Lasciaci vivere. Vai. Ho dato gli occhi, tu forse la vita, fallo per Selenya". Non c'era firma, ma sull'anima mia, un nome brillava inequivocabilmente, pur tra i mille chiodi del dubbio più esasperante. Mio Dio, se non ero pazzo, quella era la caratteristica scrittura di... Nick Ferguson, il notaio!

La mia mente si smarriva. Come nei film più assurdi ed incom­prensibili, i sicuramente morti riapparivano sicuramente vivi, quasi che un dissennato regista, con macabra alternanza dei ruoli e delle scene, presentasse situazioni sempre più sconcertanti, con il solo intento di sconvolgere completamente l'equilibrio dello spettatore. Io mi sentivo veramente esausto in questi labirinti dell'incredibile.

E il trapano delle mie supposizioni mi ruotava dentro tre nomi: Selenya, Theanò, Nick Ferguson! Ed anche se mi vergogno di me stesso, voglio confessare che, come il più pezzente dei pezzenti, morente senza amore, solo e solo e solo con il mio odio, pensavo, se poi era vero, a quella loro diafana e angosciata felicità. Finalmente insieme, loro erano finalmente insieme!: due morti sicuri e un'ombra più che morta, volatilizzata, come nella migliore letteratura gialla, "orrido-demenziale!".

Ironizzai con me stesso, sempre più disorientato.

Quelle apparizioni in chiesa, quel sogno di suora da me im­maginato Selenya, quel fiato dell'oltretomba che scriveva su un petalo di fiore, loro, forse insieme, ed io con questa vita vuota ed inutile insegui­tore e inseguito dalla demenza di un lupo feroce e sanguinario... Ma come poteva essere avvenuto che Theanò fosse riuscita a fingersi morta e poi a fuggire nascondendosi in Grecia? Aveva saputo la verità Reginald? Forse per questo non aveva voluto una celebrazione ufficiale del funerale... E per quel che riguardava il notaio, chi era il morto di cui mi aveva parlato il consolato? E cosa voleva dire "io ho dato gli occhi"? Che era rimasto cieco? Ancora una volta cento cappi di domande senza risposta!

Molte volte avevo letto che le circostanze della vita hanno sull'es­sere umano un effetto talmente scardinante che si arriva al guado e ci si domanda se sia il caso di tentare la traversata, pressoché sicuramente persa, o sia meglio lasciarsi andare e metter per sempre il punto ad ogni angustia. Oppure, ultima ratio, spettatori di se stessi, si attende, ormai privi di volontà e di scelta, che avvenga il qualcosa che decida per la ripresa o per l'estremo abbandono.

Con spirito di passività, di totale mancanza di futuro io ero all'ae­roporto. Guardavo quei giganteschi uccelli del cielo rombare ed innalzar­si nel turchino, puntando quasi arrogantemente verso il sole. Io avrei voluto prenderne uno senza atterraggi... Su, su andarmene oltre l'umano, oltre l'assurdo ergastolo dei pensieri, perdendo nell'immensità del Dio galattico le mie piagate scorie d'umano e questo mio cuore testardo ed inutile che con fili più sottili delle ragnatele continuava a costruirsi fantomatici appigli di speranza...

La voce dell'altoparlante annunciò la partenza ed io, fuscello di vento su quei trampoli della fragile ricerca, mi misi in fila, ordinatamen­te. Poi, su per la scaletta, mi avviavo a lasciare quella terra che poco conoscevo, ma che sentivo di amare, poiché ella era un nido protettore, quel nido che io, ahimè, non avevo saputo dare a Selenya...

Con l'ardore del mio cuore, disperato pregai: "Signore, te la affi­do! Conservala nell'affetto di sua mamma e, pur se paradossalmente impossibile, in quello di suo padre, entrambi redenti, forse, per amo­re...". Io, invece, avevo scelto di andarmene, trascinandomi dietro, quasi legato a me da un'invisibile catena d'odio, quel demonio dissacrato, facendomi, così, ormai lo sapevo, suo bersaglio, in un duello mortale. Sull'ultimo gradino, girai la testa, per il più dolente degli addii e... feroce come uno schiaffo, tagliente come una rasoiata, da una distanza relativamente percepibile, a me fu sparata una risata, quella folle, sata­nica risata! Mi girai di colpo e furente mi protesi, tentando di scendere. -L'ammazzo... oh, adesso finalmente l'ammazzo! -

Ma la hostess, con dolce violenza, sussurrandomi qualcosa che neanche ascoltai, mi costrinse a tornare dentro.

Minuti, o attimi, non so! Il cuore mi scoppiava!... So solo che quella vastità, come un crespo ceruleo qua e là chiazzato da lievi trucioli di nuvolette rosa, avvolse la mia sconfitta e con essa il respiro di quel­l'aria mediterranea che lievemente scivolando sul grande corpo presurizzato del metallico uccello, pareva offrire alla mia passiva malinconia una lieve carezza di solidarietà. Andavo e tra me e quel miraggio che aveva nome Selenya, era la risata bestiale di quel bruto, ahimè, ancora ed ancora incredibilmente e ossessivamente vincente... Quello era stato l'ultimo saluto, dunque, di quella dolce terra?!

 

 

                                                                                                                                                                                                                      torna a indice