Castel del Monte



Giovanni Ruffo

   La Puglia e la Terra di Lavoro furono tenute in grande pregio da Federico II, che si autodefiniva “uomo d’Apulia” e considerava sua patria la Capitanata. I contemporanei lo chiamarono, infatti, “Puer Apuliae”. La predilezione di Federico per la Puglia , traeva origine da motivi politici. Questa era la provincia più settentrionale del suo regno e la più vicina al teatro delle sue guerre, ossia l’Italia centrale e settentrionale. La piatta, sassosa e boscosa Puglia non poteva competere in lusso e bellezza con l’esotica Palermo o con la meraviglia del golfo di Napoli, ma era anch’essa sul mare e le vaste, incolte sue pianure ben si prestavano all’esercizio dello sport che l’Imperatore più amava: l’arte venatoria. E Federico, in verità, avrebbe fatto di questo crudo sport veramente un’arte e ne avrebbe consacrato le regole addirittura in un trattato, che sarà ammirato in patria ed in tutto il mondo allora conosciuto: “Ars venandi cum avibus”. E poi, non era stato definito dai contemporanei “Stupor Mundi” ed “Immutator mirabilis” ossia il meraviglioso trasformatore?

   La seduzione, che su di lui esercitarono l’asperità dei luoghi ancora vergini e quella tanta materia pronta ad essere plasmata, certamente bastò a fargli prediligere quella provincia, che negli anni avrebbe tanto trasformato da imporla all’attenzione dell’Occidente e dell’Oriente.

   Federico mise piede per la prima volta in Capitanata nel 1221 e dovette subito decidere di eleggerla a sua residenza, infatti, due anni dopo già faceva iniziare la costruzione del castello di Foggia. Poiché l’imperatore del tempo per “tradizione e convenienza militare” abitava un castello, Foggia saliva ai fastigi di città imperiale!  A breve distanza di tempo, l’uno dopo l’altro, sorgeranno altri castelli, rocche militari o di piacere, casini di caccia, casali di campagna. A tutti l’Imperatore farà annettere un podere. 

   Castel del Monte, nei pressi di Barletta, è oggi quello meglio conservato, ma non certamente per questo il più noto. Si vuole che sia stato ideato dallo stesso Imperatore ed architettonicamente è unico: un ottagono regolare fatto di blocchi di giallo, levigato calcare, semplicemente sovrapposti l’uno all’altro. Crea al visitatore l’impressione assurda d’essere stato ricavato da un unico, grande blocco di pietra. Alla sommità d'ogni uno degli otto spigoli, una torre anch’essa ottagonale, schiacciata sul muro. Tra le torri otto grandi spazi a forma di trapezio, tutti della medesima grandezza. All’interno un grande cortile, naturalmente ottagonale, con al centro una vasca di marmo anch’essa ottagonale, che serviva da piscina. Castel del Monte fu descritto come “un monumento orientale, con portale rinascimentale, finestre gotiche, sale voltate a crociera; pavimenti di fine mosaico, pareti rivestite di marmo roseo o bianco, le volte a crociera sostenute da semicolonne rette da capitelli corinzi o da pilastri a fascio di marmo bianco: maestà e grazia si fondevano ovunque”. La desolazione del paesaggio intorno esaltava, certo, il lusso squisito e lo splendore dell’edificio, dietro le cui silenziose mura alla fantasia popolare era lasciato libero sfogo nell’immaginare splendori di feste ed incredibili misteri. E’ questa la descrizione di una festa imperiale all’interno di un castello, fatta da un cronista contemporaneo: “Ogni genere di gioia festosa vi si dava convegno, e variavano i cori, e allietavano la vista le vesti di porpora dei cantori. Alcuni di essi (sic!) venivano poi fatti cavalieri, altri adornati di onorificenze particolari. Il giorno intero passava tra le feste, e quando volgeva alla fine, fiaccole ardenti, accese qua e là, facevano della notte giorno, fra le gare degli attori”.    

   E’ arrivata sino a noi la descrizione di una festa particolare, quella che accolse il conte Riccardo di Cornovaglia, figlio del re d’Inghilterra, di ritorno dalla crociata: “Era d’estate e grande la calura. Il conte fu ristorato con bagni, salassi e corroboranti, dalle fatiche del viaggio e della guerra; quindi creato ogni genere di divertimenti. Stupito ascoltava musiche strane suonate da strani strumenti; e guardava i giocolieri prodursi nell’arte loro, e si dilettava delle danze di giovani saracene, le quali al ritmo di cembali e castagnette scivolavano su grosse sfere, sul pavimento liscio e colorato dal sole”.    

   Le feste dell’Imperatore erano così descritte: “Novelle e favole trasfiguravano con toni di leggenda le feste di Federico e gli splendori della sua corte. Centinaia di cavalieri d’ogni paese ospitati dall’Imperatore in tende di seta, artisti accorsi da ogni parte del mondo, ambascerie straniere coi doni più rari e preziosi: come i messi del Prete Gianni, che portarono all’Imperatore una veste d’amianto, un filtro di giovinezza, un anello che rendeva invisibili e, ancora, la pietra filosofale. E si narrava come il misterioso astrologo di corte di Federico, Michele Scoto (il cui nome faceva rabbrividire), durante una festa, un giorno di gran caldo, chiamasse a raccolta per desiderio dell’Imperatore, nubi temporalesche e compisse altri miracoli”.  

   La Puglia s’impose all’attenzione del mondo come un faro di sfarzo, di civiltà, di cultura. Sede di una corte imperiale spesso itinerante con inimmaginabile sfarzo da un castello all’altro, o addirittura per la Penisola , assorbiva da essa la cultura, la raffinatezza, lo splendore, nel suo genere unico, e li diffondeva in ogni angolo del mondo allora conosciuto.

   L’Imperatore sin dall’età infantile conosceva, parlava e scriveva in tedesco, in francese, in arabo, in latino. Si affermò conoscesse anche il greco. Non è meraviglia che presso di una tale corte avesse vita la poesia cortese siciliana, che l’Imperatore modellava, nel contenuto come nella forma, sui provenzali. Presso la corte fridericiana - nelle corti della nobiltà italiana del nord la lingua in uso era quella provenzale - si poetava, però, in italiano: in dialetto siculo-pugliese. Era questa la grande innovazione, schietta espressione del disegno imperiale di riunire in un unico regno le province italiane. La lingua siciliana era già stata usata in poesia dal leggendario Ciullo d’Alcamo, ma la storia della poesia italiana comincia con le canzoni nate nel cenacolo creato da Federico, presso il quale la scuola siciliana darà alla nuova poesia in volgare compattezza, importanza e rapido sviluppo, tanto da fare scrivere a Petrarca: “ In breve tempo, il modo di poetare rinato in Sicilia, si espanse per tutta Italia e anche più lontano”.

   L’Imperatore aveva riunito province creando uno stato ed aveva riunito popoli diversi, ai quali ora dava una lingua comune, perché i popoli diventassero uno solo. Tutto questo era in perfetta sintonia con l’indole di Federico, oltre che con i suoi disegni politici: come plasmando la grezza natura aveva dato nuova “forma” alla Puglia, così, strappando ai vicoli ed ai mercati il dialetto siciliano, creava una nuova lingua. Levigato ed ingentilito, il dialetto diventava volgare illustre, ossia la lingua della corte e della poesia. Partendo da quella soglia, nel secolo seguente Dante creerà la lingua italiana.

   Federico amava adornare gli atri, i cortili, le sale dei suoi castelli di Puglia con sculture antiche, che faceva prelevare da qualsiasi posto si trovassero. Da Grottaferrata, per esempio, fece dagli schiavi trasportare in Puglia le statue di una vacca e di uomo di bronzo. Nel cortile interno di Castel del Monte vi è un rilievo in cui si vede un cavallo col suo cavaliere; forse una caccia di Meleagro, si disse, che era di frequente riscontro nei sarcofagi romani. Questa supposizione, che richiama la temeraria impresa venatoria del figlio del Signore di Calidone, potrebbe corrispondere al vero. Meleagro aveva ucciso il terribile cinghiale mandato dall’offesa Artemide contro suo padre Eneo, che non aveva sacrificato in suo onore.  E’ meraviglia che Federico volesse che un’opera scultorea, ispirata a così epica impresa, fosse presente nel suo castello preferito? A voler lasciare libero ed audace corso alla fantasia si può perfino accostare il rancore della Dea per lo “inadempiente” Enea, al “rancore” del Pontefice Innocenzo IV che, da Lione, proprio in quel tempo (1245) scomunicava e deponeva lo "inadempiente" Federico e bandiva contro di lui una crociata di tutti i popoli cristiani.

   Federico non si limitò a raccogliere cimeli dell’antica arte scultorea; volle che i suoi scultori creassero nuove sculture modellate su esemplari classici. Le Teste ed i resti di sculture rinvenute a Castel del Monte sono certamente copie di opere della classicità ellenica o romana. La bravura di molti scalpellini imperiali di Puglia fu tanta che, se talune sculture non fossero datate XIII secolo, si potrebbe essere indotti a ritenerle risalenti ad epoca imperiale romana.

   Castel del Monte, certamente più residenza imperiale che rocca militare, stimolò in ogni tempo la fantasia di storici, architetti e cultori d’arte, i quali cercarono di appurare se fu costruito su progetto dell’Imperatore. Resta in dubbio se il progetto fu suo. Rimane un unico documento dell’Imperatore, datato 1240, nel quale si legge l’ordine di approntare il materiale edilizio per il castello che noi intendiamo edificare. Non si sa neppure con certezza se Federico fece in tempo a vedere il Castello finito e se mai vi abitò. Si scrisse che l’asserzione che fu Federico a progettarlo: “Si fonda sulla singolarità dell’astrazione matematica e sulla forma ottagonale dell’edificio, intesa quale ricostruzione della corona imperiale e simbolo del potere autocratico”. Poiché è ben noto che Federico abbia tratto dall’architettura araba profondi stimoli e suggestioni, è possibile che nella progettazione, sua o di altri, egli si sia ispirato alla Moschea d’Omar, della quale, al tempo della sua crociata, egli studiò la complessa struttura della cupola, prima di far ritorno in patria.

   Castel del Monte, che sarebbe stata sicuramente la residenza preferita dall’imperatore, se la vita di lui fosse stata più lunga, ha una particolarità dai più sconosciuta: dopo la tragica battaglia di   Tagliacozzo, che infranse il sogno del quindicenne Corradino - “fanciullo così bello, che non troveresti il migliore” - sceso in Italia in veste di vendicatore “Perché la superba schiatta cui apparteniamo non abbia a degenerare nella nostra persona”, fu per ventitre anni la prigione di Corradino di Caserta, congiunto e compagno in guerra dell’altro, legittimo erede dell’Impero e del Regno di Sicilia. Fu questa l’ultima certa e più lunga presenza di un Hoenstaufen tra le mura di Castel del Monte. Ma, forse, fu il solo di quella “superba schiatta” ad abitare quel castello.