Premessa
Mi è stato sollecitato da amici e da vecchi compaesani di scrivere, nella ricorrenza del 150 anniversario della fucilazione dei martiri di Gerace, sulle conseguenze patite dai familiari dei cinque martiri, negli anni che seguirono quel luttuoso evento, sino all’unità d’Italia.
Ho iniziato a scrivere, ma ho subito desistito perché mi sono accorto di non scrivere serenamente.
Sono trascorsi 150 anno, lo spazio di sei generazioni, per la maggior parte degli umani, ma per me personalmente soltanto di tre – quattro per i miei figli – poiché le conseguenze di quel lutto familiare, che coinvolse e sconvolse la vita di mio nonno e dei suoi fratelli, riprodussero effetti negativi anche su mio padre ed i suoi fratelli. Mio nonno, del quale io porto il nome, rimase per lunghi anni in carcere, dove si ammalò di endocardite. Visse soltanto 57 anni. Era nato nel 1830, morì nel 1887, quando mio padre aveva appena 3 anni.
Durante gli anni del fascismo la mia famiglia, antifascista, ebbe varie difficoltà ed un congiunto, in più occasioni, soffrì persino il carcere.In quelle evenienze, bambino di pochi anni, accompagnavo mio padre, al carcere di Ardore, a trovare il padre recluso, che aveva richiesto di occupare- così mi è stato spiegato- la stessa cella dove era stato imprigionato, nel 1847, “lo zio Gaetano”, di cui egli portava lo stesso nome.
Quelle e tante altre occasioni, rendendo attuali antichi disagi, lasciarono in me un sogno, che mi è sgradevole, ed ancora oggi mi impedisce di essere, quando scrivo e parlo dei moti del 1847.
Tra le carte di famiglia ho trovato pagine di giornali, che ricordano fatti e celebrano la figura dei fratelli del martire. Credo più giusto che, ad appagare il desiderio dei miei amici, siano degli antichi cronisti, piuttosto che un fazioso nipote dei giorni nostri.
Giovanni Ruffo
Da: Giornale d’Italia 05 febbraio 1919, pag.2
- Nel Mezzogiorno d’Italia da un giorno all’altro
- Un prete patriota e cospiratore
Terra inesplorata, la Calabria! A quando a quando, uno sprazzo di luce ne discopre qualche bellezza ignorata; a quando a quando, qualche superba figura, da’ più sconosciuta, balza da memorie lontane.
E’ di un giovane prete, che seppe bene consegnare il suo nome a la storia, la nobile figura che è doveroso oggi rievocare, mentre il motto “ Religione e Patria” va diventando, in ogni cantuccio d’Italia, una divisa ricca di profonda significazione, e qua e là impronta forme superiori di coscienza e di pensiero. Risaliamo ai moti insurrezionali del ’47. A Reggio, a Messina, nel distretto di Gerace, i fremiti della libertà si comunicano con rapidità meravigliosa. Tutto è sorprendente: la segreta cospirazione dei più risoluti; l’aiuto coraggioso delle donne, la simpatia, spesso dissimulata, dei religiosi. Francesco Ruffo, fratello minore di Gaetano – uno dei cinque gloriosi martiri di Gerace - benché iniziato a la vita ecclesiastica, ha l’anima ardente di patriottismo e il fuoco della libertà gli divampa dentro, mentre egli attende agli studi, nel Seminario della Diocesi.
Nel settembre fatidico di quell’anno, egli si trova in famiglia, a Bovalino, a passare le vacanze, quando la banda insurrezionale, percorsi vari paesi della riviera Jonica, per uno strano errore si scioglie a Roccella. I cinque compagni -predestinati al martirio- riparano in una grotta di Paulonia; ma, qualche giorno dopo, vengono sorpresi, e tre di essi arrestati; Bello, Verduci, e Salvatori .Gaetano Ruffo e Mazzoni riescono a fuggire, e raggiungono a piedi Stalettì, ove sono accolti con aperto animo in casa Fazzari da una “Donna Stella”, zia di Achille Fazzari. Di là, con l’aiuto di una guida, scalzi, vestiti da marinai, proseguono per Catanzaro; ma il loro piano quivi incontra difficoltà, e decidono di rifare la via verso la marina. Imbarcarsi, è il miglior partito; e l’occasione vi sarebbe propizia. Ma il comandante del bastimento rifiuta di prendere a bordo i due fuggiaschi; e alle preghiere del marchese De Riso, fratello della fidanzata del Mazzoni, s’arrende solo per quest’ultimo concedendo l’ospitalità nel suo legno. Mazzoni nobilmente rifiuta, volendo dividere la sorte del compagno Ruffo; e i fratelli di ventura e di fede si rimettono in cammino per Roccella, ove Mazzoni è arrestato. Gaetano Ruffo, che aveva proseguito per Siderno, è arrestato. Gaetano Ruffo, che aveva proseguito per Siderno, è arrestato. Gaetano Ruffo, che aveva proseguito per Siderno, è arrestato. Gaetano Ruffo, che aveva proseguito per Siderno, è anch’egli tratto in arresto colà, ad opera d’un suo compare,a cui poco tempo prima aveva difeso gratuitamente una causa. Francesco intanto lavorava per condurre in luogo sicuro il fratello. Egli riesce infatti a procurarsi, a suon di scudi, un salvacondotto, col quale spera di aprirgli la via verso Ardore e poterlo quivi nascondere nel castello, custodito da persona amica. Quando va incontro a lui con la preziosa carta, lo vede arrestato tra i gendarmi, e freme, ma non si avvilisce.
Era egli già iniziato alla “Giovane Italia”; e, col favore di un capitano appartenente alla setta, prima che la corte marziale abbia deciso la morte dei cinque, ottiene di visitare il fratello in carcere, a Gerace, trova lui e gli altri sereni. Mazzoni gli dice:
- Senti, Abatino: ti ricorderai di noi? Vendicherai il nostro sangue?
E Francesco prontamente risponde:
- Io credo che il tiranno vi risparmierà la vita. Ma, se sarete sacrificati, vi giuro che la mia vita darò a vendicarmi .
La speranza fu vana; e non andò molto che i cinque cospiratori, nella piazza di Gerace, ebbero morte dal tiranno. Dopo la fucilazione del fratello tornò Francesco in Seminario; ma nel giugno del ’48 chiese il passaporto per Napoli, a seguitare i suoi studi. Egli e tutti di casa erano nella lista degli attendibili. Per giunta, a Napoli, il fratello di lui Giuseppe era in carcere, dopo le barricate del 15 Maggio, e a Reggio era carcerato anche il fratello Giovanni, che aveva disarmato a Bovalino i guardacoste per raggiungere gli insorti ai Piani della Corona. Gli fu perciò risposto:
- Se volete il passaporto, vi manderemo a S. Francesco- ; che voleva dire al carcere.
La natura ribelle e tenace del giovane Ruffo non era facilmente domabile; né le intimidazioni
potevano distoglierlo dai suoi fermi propositi. Interdettagli la via per Napoli egli torna in Seminario, a maturar la vendetta giurata; e nel sangue del fratello vede rosseggiare la fiamma di libertà, onde è invasa l’anima anelante del popolo. Francesco Medici, che divenne poi illustre cittadino e più tardi Senatore del Regno, e Giuseppe Nanni, che fu poscia avvocato di grido e deputato al Parlamento – suoi compagni di Seminario – erano i suoi confidenti. Il martire Gaetano Ruffo, ricco di bello ingegno e buona cultura letteraria, aveva lasciato, fra l’altro, il famoso sonetto “ Alla Libertà “, che era come l’anelito sacro e puro della sua anima ardente. Il Nanni, sapendolo poeta, eccitò un giorno il compagno a rispondere al sonetto del fratello; e Francesco prontamente ne compose un altro, su le medesime rime:
Io mi vivo dolente sula terra, ma vivo di speranza, o fratel mio chiedendo sol vendetta al Sommo Dio di libertà, di bene e non di guerra. Ché, quando vuole, i cieli ne disserta e fa che alfine compiesi il desio di vedere risorta dall’oblio Colei che ancora per destin sotterra par che sen giaccia senza alcun splendore che da secoli tanti è decaduta e vive travagliata nel dolore,
attendendo con ansia la venuta d’uom che la scuota con gagliardo core e i lacci rompa che la fecer muta |
I versi destarono profonda commozione fra i compagni, e ognuno d’essi volle per se una copia del sonetto, che custodì nello scapolare per non patire persecuzioni.
Un bel giorno Giuseppe Nanni apparve in mezzo a tutti con una fascia verde gridando: “ Viva l’Italia”; e corse ad abbracciare Francesco, che gridò anch’egli “ Viva L’Italia “.
Quella esplosione di patriottico entusiasmo li indicò come rei agli occhi dei superiori, ed entrambi scacciati dal Seminario. Francesco se ne andò a casa. Poco dopo, per denunzie sbirresche ( in verità egli annodava le fila della “Giovine Italia “ con gli altri affiliati dei paesi circonvicini ) venne arrestato e tradotto nelle carceri di Ardore, dove stette parecchi mesi, finché l’Arciprete di Ardore, che era suo zio, riuscì a farlo liberare. Fu consacrato sacerdote alcuni anni dopo, e continuò a cospirare.
Ebbe una volta dalla “ Giovine Italia “ il mandato di partecipare notizie importanti ad un monaco del Convento Monteleone. Vi andò, e, appena giunto, stava per essere arrestato; ma lo salvò, prendendolo suo ospite, il marchese Gagliardi, di cui era cappellano nella chiesa di Pommadonna, a Bovalino. Da Monteleone passò a Maida, ove sarebbe incappato, se non avesse ben unto le mani di uno sgherro.
Il grido di libertà, che parve in quel tempo soffocato nel sangue, riempiva di sé più tardi la generosa terra dei martiri e dei cospiratori; ed era già il 60! Col fratello Nicola – il minore dei fratelli – coi nipoti, coi cugini e coi compaesani da lui guidati, il giovane prete muove a raggiungere Garibaldi. A Squillace, avanti la sede vescovile, dà un discorso patriottico. Il vescovo, che era bovalinese, assisteva dal balcone, finché l’oratore non toccò il potere temporale del Papa.
A Catanzaro, sui gradini della Chiesa dell’Immacolata, dopo la messa parla al popolo che lo ascolta delirante, eccitandolo a seguirlo. A Cosenza, trova Benedetto Mugolino che esercita le schiere.
Mugolino era stato compagno di collegio, a Napoli, del fratello Gaetano, e lo accolse a braccia aperte, nominandolo comandante di una compagnia. Francesco stette alcun tempo nella provincia di Cosenza con missioni delicate ed avendo pieni poteri, già che bisognava soffocare il brigantaggio politico che infestava Rotondella. Colà una notte ghermì un prete che tentava la fuga, asportando seco gravi documenti. Avrebbe potuto dargli la fucilazione; trattenne invece i documenti e lo lasciò libero. Partì quindi e raggiunse Garibaldi a Caserta. Nelle battaglie di Capua e del Volturno comandava la 6° compagnia 17° Divisione Medici, Brigata Mugolino. E il generale Medici dichiarò quella Compagnia modello.
A Capua il suo ardimento congiunto al disprezzo della vita ebbe magnifica prova. Acceso d’irrefrenabile entusiasmo in un istante di ebbrezza egli avanzava coi suoi fin sotto il cannone nemico. Garibaldi, che vigila su di un monte, discende rapidamente e, avvicinandosi a lui che è fuori di sé, gli dice calmo e sorridente:
- Bravo il mio canonico! Ma retrocedete; altrimenti il cannone vi spazzerà.
Terminata l’ultima battaglia, Medici voleva ad ogni costo che Francesco seguitasse a stare sotto le armi. Ma egli resisteva, e allora lo presentò a Vittorio Emanuele, il quale, quando se lo vide davanti con i capelli ricciuti, col viso roseo e aperto, alto come un corazziere e con un petto largo e forte, lo riguardo dicendogli:
- Lei segue la carriera delle armi? Sarebbe un bel militare! E Francesco:
Maestà, io ero prete, e tornerò a fare il prete, perché l’apostasia è una viltà. Ma, se da ufficiale potrei comandare una compagnia, da prete, vero ministro di Cristo, comanderò le moltitudini e le educherò all’amore per l’Italia.
Re Vittorio di rimando:
Bravo, bene: viva il Calabrese! I Calabresi sono di carattere. Dia il suo nome.
Dopo qualche giorno, gli veniva assegnata dal Re una pensione di dodici ducati al mese. Ma tornato egli a casa, trovò un prete che aveva patito sotto i Borboni e si dibatteva in angustie. Divise quindi con lui la pensione.
Quando Pio IX concesse ai preti e ai monaci, che avevano seguito Garibaldi, di dir messa,tornò anche lui ad indossare l’abito. Si dedicò all’insegnamento, e dal pergamo glorificava, coi santi, Garibaldi e l’Italia.
Soleva celebrarsi ogni anno in Bagnara una festa ecclesiastica; ed egli, nel ’64, chiamatovi dal Priore – figlio di un noto patriota – vi si recò a fare il panegirico del “ Cappello della Madonna .” Alle ultime sue parole, la chiesa con grave scandalo degli altri preti, fu tutta in subbuglio. Rivolgendosi alla Madonna, egli aveva esclamato: “ Maria, alla tua corona mancano ancora due gemme: Venezia e Roma.”
Venezia, prima, e poi Roma – essendo vissuto fino al 1890- egli vide brillare, gemme di purissima luce, dinanzi ai suoi occhi, sotto il cielo della Patria. E, se vivesse oggi, nella sacra costellazione delle italiche città vedendo ancora risplendere Trieste e Trento, leverebbe a più alta esultanza il cuore.
Si delinea così, su uno sfondo di schietta e religiosa umanità la singolare figura di questo ardente patriota, cospiratore e combattente, che seppe bene vendicare il martirio del fratello e dei compagni di fede.
Francesco Ruffo era un oratore caldo e fecondo, sincero credente, ma soprattutto, amico della libertà e dell’Italia.
A Bovalino, in ogni ricorrenza di feste patriottiche, egli era in prima fila, e traeva i dimostranti in chiesa, ove intonava il “Te Deum”, e predicava dall’altare, inneggiando all’Italia ed auspicandone la grandezza e la gloria. Presso a morire chiamò a sé il fratello Nicola e segretamente gli disse:
Sotto la zimarra ponetemi la camicia rossa;
E Nicola, piangendo, rispose:
La vostra è ragnata. Ma c’è la mia, che ho ben custodita.
Si, riprese il moribondo: così va bene. Soldato di Garibaldi e di Cristo, mi son dovuti la camicia rossa e il mio abito talare. Francesco Ruffo, come gli altri di sua famiglia, non ebbe nemici, non odiò mai nessuno. Il giorno dei suoi funerali tutto il paese si accaldò riverente dietro il suo feretro. La sua morte ridestò un’eco profonda di cordoglio anche fuori della Calabria; e Crispi, Nicotera, Mordini, fra gli altri, inviarono lettere nobilissime di compianto al fratello Nicola.
Antonio Giuffrè
Dal quotidiano “Luce” di Reggio Calabria
- Necrologio di Nicola Ruffo.
A Bovalino, dove viveva tranquillamente, godendo di quella pace a cui gli dava diritto la vita Sua intera, trascorsa avventurosamente fra le lotte per la libertà, si è spenta giorni fa la cara esistenza di Nicola Ruffo. Apparteneva Egli alla storica stirpe dei Ruffo, la quale, o per il numero dei suoi figli, che si sacrificarono per la libertà, e per la nobiltà e grandezza delle opere da essi compiuti, occupa uno dei primi posti nella storia del risorgimento, nella lotta per l’indipendenza contro la tirannide.
Alla
Libertà
Sola
speranza che mi reggi in terra Solo
conforto dello spirito mi, solo
pensiero che mi elevi a Dio, pace
e ristoro alla mia lunga guerra. Quando
a Te penso, il cuore si dissera a
pure gioie, ad ogni altro desio e
quando dormirò l’eterno oblio, di
Te ricorderommi anche sotterra,
Cometa
errante, che col Tuo splendore abbelli
la natura decaduta, dimmi:
Tu brillerai sul mio dolore?
Io
non dispero della Tua venuta e
non rinnego al Tuo tardar, ma il cuore s’attrista
e piange ché Tua luce è muta. |
Egli era, infatti, fratello dell’eroico Gaetano Ruffo, che , per ordine del Borbone, veniva fucilato a Gerace il 2 ottobre 1847, per aver preso parte all’insurrezione del settembre, e per essere stato fra i capi. E, con Gaetano, erano fratelli suoi, Giuseppe Ruffo, carcerato a Napoli dopo gli episodi rivoluzionari del 15 maggio ’48 e perseguitato, e Giovanni Ruffo, il quale, per aver disarmato insieme a Francesco Calfapetra, il Guardacoste di Bovalino, delle cui armi si voleva servire, andando a combattere sui piani della corona, fu condannato a 19 anni di ferri: e fratello suo era anche qual Francesco Ruffo, prete, il quale fu, più volte carcerato; spesso latitante, insieme con Girolamo Spagnolo, teneva desto nel mandamento di Ardore il fuoco della Giovine Italia, al cui triplice, fatidico motto: libertà unità, indipendenza, Nicola pure aveva risposto, ascrivendosi alla setta nel 1856.
Dal 47 al 60, fanciullo ancora, Nicola Ruffo vide la casa dei suoi devastata dagli sgherri, il padre Suo, dottor Ferdinando destituito da medico condotto, e costretto a vestire abito bianco per la fucilazione del figlio Gaetano. Tutto ciò contribuì a maggiormente inasprire l’animo già naturalmente ribelle di Nicola Ruffo, sì da farlo, a suo tempo, esonerare dal servizio militare come “ rivoltoso “a da impedirgli di potersi allontanare dal suo paese onde proseguire gli studi, perché compreso nella lista degli “ attendibili “.
Nel 1860 combatté come garibaldino a Capua e al Volturno nella 6° compagnia al comando del Generale Medici, a fianco del fratello Francesco, che gettata la zimarra, occupava il grado di luogotenente nell’esercito garibaldino; ed in questa campagna Nicola Ruffo si guadagnò il grado di Tenente della Guardia Nazionale.
Nella deficienza di forti caratteri, la severa figura di Nicola Ruffo spiccava, mirabile esempio di probità, di virtù, di bontà. Cittadino intemerato nella vita pubblica e privata, Nicola Ruffo occupò tutte le cariche pubbliche nel suo paese: più e più volte assessore, due volte Sindaco, Presidente della Congregazione di Carità, Egli lascia dovunque tracce indelebili di onestà e retta amministrazione, nelle opere sue, rivolta sempre in pro del suo paese.
Era, come i suoi, uomini di entusiasmo e di fede, ed ancor pochi giorni fa, agli ultimi momenti di sua vita, non sembrava, a chi lo sentisse discorrere, vecchio ed ammalato, tanto era Egli sorretto ed animato di fresco e giovanile entusiasmo.
Con la morte di Nicola Ruffo sparisce una nobile figura di patriota e di liberale. Ed unanime, spontaneo, veramente commovente fu il compianto dei suoi concittadini, che, tributandogli solenne onoranze, vollero rendere l’ultimo segno d’affetto all’ estinto.
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