I Ruffo presso la corte di Federico II

Giovanni Ruffo


    Il caso volle che nascesse a Iesi. Sua madre Costanza - ultima erede della dinastia Normanna - mentre ritornava dalla Germania fu, in quei pressi, colta dalle doglie del parto: era il 26 dicembre del 1194. 
    Dalla madre gli fu dato il nome di Costantino ma, in baptismo, quel nome fu mutato in Federico Ruggero: il nome dei suoi avi, il tedesco Barbarossa ed il normanno Ruggero II. Imperatore e Re si chiamò Federico II.
    I suoi contemporanei lo definirono "stupor mundi", meraviglia del mondo, e  "immutator mirabilis", meraviglioso trasformatore. Ma "stupor mundi", nel linguaggio di quei tempi, significava anche "sovvertimento dell'ordine costituito, che genera paura e confusione"!
    Giovanni Villani, cronista fiorentino (1280-1348), nella sua "Nuova cronica" fece questo ritratto di Federico II di Svevia: "Questo Federigo regnò trent'anni Imperadore, e fu uomo di grande affare e di gran valore. Savio di scrittura, e di senno naturale, universale in tutte le cose. Seppe la lingua latina, e la nostra volgare, tedesco e francesco, greco e saracinesco e di tutte virtudi copioso. Largo e cortese in donare, prode e savio in arme, e fu molto temuto. E fu dissoluto in lussuria in più guise e tenea molte concubine e mammalucchi a guisa de' saracini. In tutti i diletti corporali volle abbondare, quasi vita epicurea tenne, non facendo conto che mai fosse altra vita. E questa fu l'una principale cagione perché venne nemico de' chierici e di Santa Chiesa".

 E' un ritratto vagamente somigliante al personaggio reale, che risente chiaramente di varie influenze: clima politico degli anni che seguirono ai vespri siciliani; le fonti alle quali l'ex mercante fiorentino, diventato cronista, si ispirò.
    Più vera ed in maggiore accordo con quanto scrissero molti autori, alcuni contemporanei dell'Imperatore, è la descrizione che diede fra Simone da Parma (1221-1287), il quale conobbe di persona Federico II: "Era un uomo scaltro, avaro, lussurioso, collerico e malvagio. Di tanto in tanto tuttavia rivelava anche buone qualità, quando era intenzionato a fare mostra della sua benevolenza e liberalità: sapeva allora essere amabile, gentile, pieno di grazia ed esternava nobili sentimenti. Leggeva, scriveva, cantava e componeva melodie. Era bello e ben fatto, sebbene di non alta statura. Io una volta lo conobbi e per un certo tempo anche lo onorai ". 

    La lettura della cronaca di questo monaco, giunta sino a noi forse autografa, ed il ritratto che fa dell'Imperatore, mi fanno però venire in mente che egli, nel 1247, fuggì da Parma, assediata da Federico, per esulare in Francia in cerca di soccorso.
    Ancora più completa e storicamente più veritiera è la descrizione che di Federico II fece Michele Amari ne "La guerra del vespro siciliano": " [...] pro' nelle armi, sagace e grande nei consigli, promotor delle scienze e delle lettere italiane, costante nemico di Roma. Raffrenò Federigo i feudatari, che nella fanciullezza sua si eran prevalsi; chiamò nei parlamenti nostri i sindichi delle città; represse nondimeno gli umori di repubblica; riordinò vigorosamente i magistrati; vietò, primo in Europa, i giudizi ch'empiamente chiamavan di Dio; dettò un corpo di leggi, ristorando o correggendo quelle dei Normanni; le entrate dello stato ingrossò, e troppo. Macchiano la sua gloria, severità e avarizia nel governo; e mal ne lo scolpa la necessità di tender fortissimo i nerbi del principato, per aiutarsene alla guerra di fuori".

    A distanza di sette secoli una considerazione, può fare cornice a quanto scritto, in tutto questo tempo, su Federico II -e sugli Hoenstaufen in genere-; un Papa creò Federico Imperatore e Re: Innocenzo III grande Pontefice ed accorto uomo di stato. Un altro Papa, poco dopo la morte dell'Imperatore, la dinastia degli Hoenstaufen letteralmente distrusse: Urbano IV, al secolo il francese Jacques Pantaleon, scialba figura di nessun rilievo nella storia della Chiesa.  
   
Questo fu essenzialmente Federico II e tanto uomo non poteva che avere attorno a sé una corte altrettanto grande e meravigliosa. Per alcuni suoi aspetti, la decantò anche Brunetto Latini, che ebbe modo di frequentarla. Una corte da sovrano orientale, scrissero molti contemporanei, colpiti dall'aspetto più appariscente ma che costituiva solo un "contorno", destinato essenzialmente ad impressionare le plebi. Ed i Papi, che avrebbero avuto ben altre accuse da muovere a Federico, quando vollero contro di lui far leva sul popolo lanciando i loro anatemi, a quell'aspetto della corte fecero riferimento. Altro dava lustro e rendeva unica al mondo la corte imperiale, che riconosceva nell'Imperatore, assiso sul trono della giustizia, l'unica fonte del diritto! Questo splendore sfuggiva alle masse, ma era ben percepito dagli uomini di "senno": a corte viveva ed operava il fior fiore degli uomini di cultura di quel tempo. Diversi per nazionalità, razza , religione; della più varia estrazione sociale, in gran parte giovani o addirittura giovanissimi, in comune avevano tutti la sete di apprendere o d'insegnare. A corte vigeva il concetto che "colla scienza si acquista fama, con la fama si arriva all'onore distinguendosi dagli altri, e con l'onore si consegue la ricchezza". Non per nulla Pier delle Vigne poteva scrivere ad un amico: "A corte hanno le mammelle della retorica dato latte a molti spiriti eletti".
    Mentre presso la cancelleria imperiale, vera scuola di "ars dictandi", la vita letteraria di corte aveva il suo cenacolo, attorno e direttamente a contatto con l'Imperatore, invece, unitamente a quelli letterari ai quali, in questo caso, era riconosciuto valore propedeutico, fiorivano particolarmente gli studi scientifici e quelli dell'arte militare. Taluni giovani, ritenuti specificatamente dotati, ai quali maestri della statura di Pier delle Vigne e di Michele Scoto avevano già aperto vasti orizzonti letterari, qui erano istruiti nelle discipline scientifiche seguendo metodi in parte empirici, affinché fossero stimolati all'osservazione diretta, perché l'uomo dotto - sosteneva l'Imperatore - per ben riuscire nello studio delle scienze deve "cominciare di nuovo a guardare coi propri occhi", ed acquisire la capacità di dare al "vedere" compiuta espressione.
    Presso questa corte, dove trionfava la cultura laica, che trovava per la prima volta forma ben definita, si andava forgiando un nuovo genere di cittadino capace, in ugual misura, di imprese guerresche o intellettuali; i funzionari non si identificavano, come un tempo, con il ceto feudale e tanto meno con quello dei chierici, ma erano scelti tra i più eletti delle diverse discipline, direttamente dall'Imperatore. Di conseguenza rivestire la dignità di funzionario non costituiva un "beneficium" bensì un "officium" e per tale motivo non soltanto erano inconcepibili le cariche ereditarie, ma lo sviluppo delle carriere avveniva solo ed esclusivamente per merito.
    A corte vissero tra gli altri alcuni membri del casato dei Ruffo che, per essersi distinti nelle lettere, nelle scienze e nell'arte militare, furono molto vicini e particolarmente cari all'Imperatore.
    Gli storici, antichi e moderni, che giustamente non dettero e non danno importanza al "particolare", che non abbia avuto influenza determinante sul corso degli avvenimenti, scrissero e scrivono che il primo Ruffo del quale si abbia notizia storica sia stato un certo Pietro, del quale il Prof. Michele Amari - ancora fervente fautore dell'autonomia regionale siciliana, quando nel 1843 pubblicò il suo libro "la guerra del vespro siciliano"-  fece questo ritratto: "Sedea viceré in Sicilia da molti anni, e governava sì le Calabrie, Pietro Rosso o Ruffo. L'Imperator Federigo, da vil familiare l'avea levato a' sommi gradi, com'avviene in corte ai più temerari e procaccianti [...] Sappiamo ch'ei ritornò nel regno dopo la vittoria di Carlo d'Angiò e che questi provvide di rendergli i beni".

    Sono notizie assolutamente e grossolanamente inesatte, che l'Amari ricavò dalla "cronaca" dell'Anonimo, cronista coevo di questo Pietro Ruffo, senza preoccuparsi di cercare alcuna conferma. Eppure all'Amari, uomo d’alto livello culturale, fu certamente nota la riconosciuta scarsa attendibilità dello Anonimo, storico solo per esigenze del momento e, a quanto sembra, notaio di professione. La figura del Ruffo, fu poi tutt'altro che marginale, negli eventi dei quali l'Amari si accingeva a scrivere. Questo avrebbe dovuto almeno stimolarlo a stabilire chi fosse stato realmente l'uomo portato così in alto da un Imperatore che, come si è sempre saputo, ai suoi funzionari assegnava gli incarichi esclusivamente per merito! Si sarebbe accorto che il casato al quale apparteneva il viceré del regno di Sicilia, si denominava già da secoli Ruffo e non Rosso (una famiglia di nome Rosso viveva, in effetti, a quei tempi a Messina) e che, da altrettanti secoli, questa famiglia usava aggiungere al cognome l'appellativo "di Calabria". Ma, cosa storicamente molto più importante, avrebbe scoperto che il Pietro Ruffo del periodo angioino non era, come egli credeva, la stessa persona del Pietro Ruffo Viceré dei tempi di Federico II - quest'ultimo Pietro morì a Terracina nel gennaio del 1257, per mano di un sicario di Manfredi - bensì un nipote ex avo di quello, dello stesso nome!
    I Ruffo erano presenti nella corte fredericiana già al tempo del ritorno di Federico dalla Germania. In un privilegio dell'ottobre 1223 tradotto dal greco (Paolucci,Documenti inediti del tempo svevo, Atti acc. Palermo, ser. III, vol.4, p.38, n. IX) è riportata la nomina a "Vallectus camere" di Ruggero de Gervasio, figlio del cavaliere Gervasio Ruffo di Sciacca. La provenienza da Sciacca, città della provincia agrigentina, fece pensare che questa famiglia fosse d’origine diversa da quella dei Ruffo di Calabria. Nulla di più errato: presso l'archivio privato dei Ruffo di Calabria principi di Scilla - quella parte affidata in custodia all'archivio di stato di Napoli- esiste, infatti, un privilegio di re Ruggero II (1095-1154), datato aprile 1146, con il quale si concedevano al Cavaliere calabrese (Nostro fedele alleato in guerra, aggiungeva il Re)lo Stratiota Gervasio Ruffo (evidentemente avo di quello vivente nel 1223) le terre di "Minzillicar e Chabucas" site nel tenimento di Sciacca.  
   
Ma i Ruffo, che più si distinsero a corte, furono Pietro I, suo figlio Giordano ed il nipote Fulcone (noto anche come Folco). A corte vivevano altri due figli di Pietro I: Ruggero e Serio; un altro nipote Pietro II, fratello di Fulcone ed un cugino Guglielmo, con il figlio Riccardo.
    Pietro I Ruffo di Calabria nacque verosimilmente a Tropea intorno al 1188 da Giordano ed Agnese, che apparteneva allo stesso casato del marito. Non è documentato in quale anno Pietro I entrò al servizio  dell'Imperatore, ma è verosimile supporre che egli fu il primo dei Ruffo ad arrivare a corte e dunque prima del 1223.
    Documenti noti lo fanno trovare combattente in Lombardia prima del 1235 e già in posizione d’elevato prestigio. Altri documenti lo portano viceré in Sicilia nel 1235 e di nuovo nel 1239, dopo suo genero Guglielmo di Borrello, marito di sua figlia Adriana. In tale carica rimase sino al 1242. Nel 1243 fu creato Imperialis Marescallae Magister. Nel 1249 Federico II gli affidò la tutela del suo giovanissimo  figlio  Enrico, che  da allora  visse  con Pietro I nel palazzo reale di Messina. Alla morte dell'Imperatore Pietro I Ruffo di Calabria era Marescallus totius regni siciliae,  balio d’Enrico e come tale vice balio di Sicilia e Calabria, essendone balio, per volontà testamentaria, Manfredi, figlio naturale dell'Imperatore (La madre fu Bianca Lancia).
    Molti autori scrissero che tra i testimoni che firmarono il testamento dell'Imperatore vi furono Pietro Ruffo e suo nipote Fulcone. Questa affermazione è solo in parte esatta. Fulcone fu certamente presente alla morte di Federico, il 13 dicembre 1250, e due giorni prima aveva firmato in effetti il testamento, ma non fu Pietro I l'altro testimone bensì Sigerio, suo figlio. Sigerio a quel tempo rivestiva la carica di Magister Marescallus ed infatti nel testamento di Federico, pubblicato da P. Ottavio Gaetano, si legge " Ego.....Ruffus de Calabria Maniscallae  magister rogatus etc." non essendo leggibile il nome. Il nome Pietro fu di propria iniziativa aggiunto dal Gaetano senza tener conto che la qualifica di "Magister Marescallus" chiamava in causa Sigerio ed escludeva Pietro I che, firmando il testamento, non avrebbe mancato di qualificarsi "Marescallus totius regni Siciliae", se non addirittura Comes Catansarii.
    Dopo la morte dell'Imperatore Corrado IV, erede dell'Impero e del regno di Sicilia, confermò Pietro I  viceré di Calabria e Sicilia confermandolo altresì nella titolarità della contea di Catanzaro. In tale veste di viceré, dopo l'improvvisa morte di Corrado IV, avvenuta nel maggio del 1254, Pietro I difese le volontà testamentarie di Federico II contro Manfredi e contro il Papa, sostenendo la legittima successione di Corradino, figlio di Corrado IV. Morì assassinato da un sicario di Manfredi nel gennaio del 1257. Su questo personaggio si scrissero, nel corso dei secoli, le cose più disparate. Talvolta furono frutto di fantasia altre volte  della cattiva volontà o impossibilita di reperire nuovi documenti. Soltanto intorno alla metà del nostro secolo gli studi del Prof. Ernesto Pontieri consentirono di far luce su Pietro I e su suo nipote Pietro II Ruffo di Calabria, che per tanti secoli erano stati confusi in una unico personaggio dai contorni incerti e contraddittori. Il Pontieri non fu certamente il solo a ricercare la verità, ma fu lo storico più autorevole.
    Prima del Pontieri più o meno alle stesse conclusioni era pervenuto il duca Vincenzo Ruffo della Floresta e le aveva pubblicate nel 1914. Ma Vincenzo fu solo uno studioso di storia, non uno storico e portava un cognome che poteva farlo credere di parte.Purtroppo il Pontieri non condusse personali ricerche genealogiche sui Ruffo vissuti nel XIII secolo. Fu un errore perché le notizie fornitegli da altri, furono confuse e talmente contraddittorie da non consentire la ricostruzione di una sequenza genealogica.
    Fulcone Ruffo di Calabria nacque a Tropea intorno al 1232, secondogenito di Ruggero e Belladama, della quale non si conosce il casato. Ruggero fu a sua volta il primogenito di Pietro I e Guida e premorì al padre, lasciando erede  suo figlio Pietro II (che darà vita alla linea primogenita dei Ruffo conti di Catanzaro). Fu questa la ragione di tanti errori poiché, essendo passati direttamente dall'avo al nipote dello stesso nome titoli, feudi ed onori, gli storici trovarono, protagonista di ogni evento, un Pietro Ruffo, conte di Catanzaro, ininterrottamente dal 1235 al 1310 e pensarono trattarsi della stessa persona!
    Come era uso presso quella corte, Fulcone iniziò la carriera come valletto imperiale a 14 anni, ossia tra il 1243 e il 1244. Dovette essere dotato di particolare ingegno e di non comuni capacità d’apprendimento se ancora giovanissimo lo troviamo, non ultimo, tra i rimatori di quella scuola. Furono certamente queste qualità che richiamarono su di lui l'attenzione e l'affetto di Federico II, che lo volle accanto a sé sino all'ultimo suo giorno di vita.  Addirittura, poche settimane prima della morte dell'Imperatore, ebbe da questi alcuni possedimenti in feudo, che erano appartenuti al filosofo di corte maestro Teodoro (1). A conti fatti quando morì l'imperatore Fulcone Ruffo non doveva avere ancora 20 anni.
    Francesco Torraca, nella sua opera "Studi su la lirica italiana del duecento" (Bologna Zanichelli 1902) a pag. 127 scrive: "Una sola lirica di messer Folco di Calabria è giunta sino a noi; ma egli occupa non ultimo posto nella storia. Somiglia, per l'una cosa e per l'altra, ad Arrigo Testa. Nipote di Pietro Ruffo conte di Catanzaro, cugino o fratello del cavaliere Giordano Ruffo autore del "liber mascalciae", assistette agli ultimi istanti del grande Imperatore, del quale firmò il testamento".

    Penso valga la pena soffermarmi a descrivere l'ambiente di corte nel quale vivevano e maturavano esperienze di vita e di dottrina i valletti imperiali.
    Nella scelta dei valletti o dei funzionari Federico II non dava importanza alla loro nascita, alla provenienza sociale o al colore della pelle, ma molto contavano le doti e le qualità personali. Un esempio per tutti: Giovanni Moro, figlio di una schiava saracena, ebbe a corte una posizione di rilievo, fece parte della "familia" e ricevette una baronia. Per quanto concerneva i valletti, numerosissimi erano tra questi i rampolli della nobiltà cavalleresca, ma anche sulla loro carriera era ininfluente la potenza o la ricchezza della famiglia dalla quale provenivano. I valletti (tra questi vi erano anche i figli di Federico II ) vivevano a diretto contatto con l'Imperatore e ricevevano una educazione cortese-cavalleresca - a noi resa nota dalla poesia di quel tempo - unitamente a quegli insegnamenti che, da adulti, avrebbero fatto di questi adolescenti dei perfetti funzionari statali. La presenza di un gran numero di nobili tra i valletti trova spiegazione in una particolare circostanza: un nobile non poteva diventare cavaliere se prima non avesse servito come valletto. Dunque i rampolli della nobiltà regnicola passavano a corte gli anni della giovinezza e, come valletti, entrando a far parte della "familia", ricevevano un mensile di sei once d'oro ed il diritto di avere al servizio tre scudieri con relativi cavalli. I valletti rappresentavano il gradino più basso della gerarchia cavalleresca ed avevano a capo un siniscalco. Non avevano mansioni precise: erano destinati in particolare a servizi di "tipo cavalleresco".
     I valletti cessavano il servizio a corte quando si fossero guadagnato il cingolo cavalleresco. Andavano allora a ricoprire, ancor giovani, cariche amministrative importanti o servivano nell'esercito o ritornavano nei loro feudi. Altri erano avviati agli studi universitari. In ogni caso l'essere stati partecipi della vita di corte dava loro un grande prestigio ed apriva molte carriere. Al padre di un valletto scrisse una volta l'Imperatore: " Noi abbiamo accumulato su di lui i rudimenti delle virtù, affinché si sentisse degno di sé, agli altri utile e a noi fruttuoso".
        In tale ambiente fu educato Fulcone Ruffo. Non fa dunque meraviglia che, forse neppure diciottenne, fosse annoverato tra i più apprezzati rimatori e ricevesse ancora in giovanissima età direttamente dall'Imperatore l'investitura di cavaliere e la titolarità di feudi.
    Trovano legittimazione anche gli incarichi importantissimi che Fulcone ebbe negli anni 1251-52 quando in Istria firmò come testimone concessioni imperiali ed attese a ricevere il novello Imperatore Corrado IV. Nel 1254 fu, dal suo avo Pietro I, posto a capo degli ambasciatori inviati al Papa.
    Come soldato fu lodato persino dall'Anonimo - cronista denigratore del casato dei Ruffo - quando sotto le mura di Aidone fermò l'impeto di quell'esercito, che stava per travolgere le truppe al comando del suo avo. E lo stesso Anonimo non seppe trovare che espressioni di rispetto quando narrò di Fulcone che, arroccato nei suoi castelli di Bovalino e Santa Cristina, tenne testa per quasi due anni all'esercito di Manfredi.
    Nel 1253 Fulcone sposò Margherita di Pavia, figlia di Messer Carnelevario, dalla quale ebbe i figli Enrico e Fulco II. Non si conoscono la data e la causa della sua morte, ma nel 1266 certamente non era più in vita.
    A Corte viveva un terzo Ruffo: Giordano, figlio cadetto di Pietro I e Guida. Anch'egli era nato a Tropea intorno al 1213. Grande dovette essere la stima che l'Imperatore ebbe di questo cavaliere se lo destinò e lo sostenne proprio negli studi scientifici e segnatamente in quelli delle scienze naturali, discipline nelle quali lo stesso Federico eccelleva. Giordano non deluse il suo Signore poiché, mentre l'Imperatore attendeva alla stesura del suo trattato di falconeria, "Ars venandi cum avibus", egli scriveva un trattato di medicina veterinaria "De medicina equorum", che a quei tempi creò grande scalpore negli ambienti scientifici ed in ogni altro luogo dove si allevassero cavalli. L'interesse per quest’opera in verità non fu di breve durata perché per secoli il libro fu tradotto in molte lingue e sei secoli dopo la sua pubblicazione addirittura fu adottato dall’Università di Padova! L'edizione patavina del 1818 fu curata da Hieronymo Molin, professore di medicina veterinaria presso l'Ateneo di Padova. Egli pubblicò il codice di Giordano, al quale diede il titolo di      " Hippiatria ", in lingua latina, nella quale dovette essere stato originariamente scritto. La traduzione in volgare fu realizzata subito dopo la divulgazione del codice in latino perché, come ho avuto occasione di far notare in un mio recente scritto, il libro di Giordano era destinato non soltanto agli studiosi di medicina veterinaria, ma soprattutto a coloro che vivevano quotidianamente a contatto con il cavallo: gli stallieri. La versione in lingua volgare era, dunque, destinata ad ambienti meno eruditi. 
    Con poca fatica in verità, grazie al determinante e generoso aiuto fornitomi dal Prof. Italo Calma docente alla facoltà di medicina dell'Università di Liverpool, ebbi la possibilità di procurarmi i films di cinque copie di questo codice, conservate nella "British Library" di Londra.
    Questi volumi hanno due diverse provenienze. La prima deriva da una traduzione dal latino operata da Fra Gabriele Bruno ed ebbe tre edizioni: Venezia 1492, Venezia 1554, Brescia 1611. La seconda ebbe soltanto due edizioni: Venezia 1561, stampata da Rutilio Borgominiero; Bologna 1561, stampata da Giovanni de’Rossi. Presso questa stessa biblioteca si trova un sesto esemplare del libro di Giordano: è quello curato dal Molin. Di questa edizione parlerò brevemente poiché essa rappresenta la "ricostruzione" più completa e scientificamente più corretta dell'opera di Giordano Ruffo di Calabria, che nel corso dei secoli subì numerose manomissioni a volte perfino prive di valore scientifico. Il Molin ebbe il grande merito di ridare al libro di Giordano dignità scientifica, emendandolo da aggiunte ed anche da errori, se riferibili ad altri. Egli studiò tutto quanto riuscì a trovare sull'opera di Giordano e, con metodo ineccepibile e grande rigore scientifico, corresse soltanto quei capitoli dei quali accertò sicura manomissione.
    Il Molin dovette avere la ventura di trovare molti documenti su Giordano Ruffo, se potè con queste parole descriverlo, nella prefazione alla sua edizione:   "Nato in Calabria da famiglia Equestre, ebbe sin da fanciullo un'indole piacevole e bellissima.Sembrava fatto dalla natura principalmente per l'attività equestre, nella quale, con il passare del tempo, fece tanti progressi che, nel domare e nel governare i cavalli, e nel curare mirabilmente le loro malattie, non ebbe uguale alcuno."

    Il trattato di mascalcia di Giordano è oggi una valida e pratica conferma a quanto, come ho scritto più sopra, affermava Federico: "occorre dare una buona istruzione teorica all'allievo e contemporaneamente abituarlo ad osservare i fenomeni naturali onde, prendendone coscienza, possa interpretarli alla luce delle cognizioni teoriche acquisite". Infatti uno dei  capitoli  più  affascinanti  di questo codice - anche perché a quel tempo costituiva qualcosa di assolutamente nuovo - è il quinto nel quale vengono trattati i vizi di atteggiamento e di deambulazione del cavallo, i quali comportano come conseguenza  un maggior lavoro e dunque  un maggior affaticamento di un arto nei confronti degli altri. E’ altresì ricordato che di ciò si dovrà tener conto in varie occasioni, per esempio nella ferratura degli zoccoli e nell'impiego dell'animale. Chiaramente a simili conclusioni si poteva pervenire soltanto attraverso una buona conoscenza dell'anatomia. In altri capitoli è descritta per la prima volta la preparazione dello zoccolo del puledro alla ferratura, che si farà in età adulta ed ancora per la prima volta si sente parlare di etiologia e di patogenesi delle malattie. Eppure erano tempi quelli nei quali, per spiegare la genesi e l'evoluzione di molte malattie, si faceva riferimento alle fasi lunari, alla negromanzia etc.! In un codice pergamenaceo, in perfetto stato di conservazione, che risale al XIII secolo - oggi fa parte di una collezione privata - ho letto: "Questo compose con immensi studi un nobile calabrese, che di tutti i cavalli ben conosceva le medicine: ciascuno leggendo impari".    

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Albero genealogico dei Ruffo di Calabria vissuti nel XIII secolo

Giordano RuffoAgnese Ruffo

                        

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    n.1188 Pietro (I)Guida

    +1257                1209

n1213 Giordano1 n1239 Sighelgaida       n1209 RuggeroBelladama+1291 Adriana n1212 n1214 Sigerio2
+1253

1230


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               |

                             |

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n1234 Giordano3

               |

Guglielmo

Giovanni

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+1255

               |

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               |

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 ___                 n1231 Pietro (II)  Giovanna d'Aquino_____________________________________________ |
.                        +1310                  1254 . . |
    |            |       |               |         |               |                          | |
Carlo Belladama Giordano  Jacopa  Tommaso   Clarice       n1255 Giovanni F.ca di Licinardo

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                                                                                               (linea dei Ruffo Conti di Catanzaro) |
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__________________n1233 Folco(I)4 Margherita di Pavia_____________|
                                    +1256-66?              1253
                               |        (linea dei Ruffo di Sinopoli)                     |
                  n1254 Enrico                                          n1255 Folco(II)5
                                                                              +1276

    

1)  Autore del trattato d’Ippiatria "De medicina equorum" (1250)    
2)  
Fu Maestro Maresciallo di Federico II. Firmò come testimone il testamento dell'Imperatore (assieme al nipote Folco)
3)  Fatto prigioniero da Manfredi fu fatto morire durante la prigionia 
4) Fu il rimatore della scuola poetica siciliana. Fu il capostipite dei Ruffo di Calabria conti di Sinopoli (poi principi di Scilla). Tutti i Ruffo oggi viventi, divisi in vari rami, discendono da questo Folco (si trova anche come Fulco e Fulcone). Firmò come testimone il testamento di Federico II.
5) Sostenne, nel 1276, un duello con Simone di Monfort, fratello di Giovanni conte di Squillace. Nello scontro morirono entrambi i duellanti.  

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    Di Fulcone Ruffo di Calabria è arrivata sino a noi una sola canzone, conservata nel Codice Vaticano 3793. Di questa canzone ci furono numerose e varie "ricostruzioni", operate su frammenti talvolta di difficile interpretazione e d’insicura collocazione. Anche l'interpunzione fu oggetto di perplessità. E' certo, comunque, che molti versi appaiono evidentemente corrotti e non fu mai possibile, a nessuno dei molti editori che ci provarono, ricostruire quei versi - rispettando metrica ed  intelligenza - senza troppo allontanarsi da quanto riportato nel Codice. La canzone di Fulcone, comunque ricostruita, non ebbe una critica sempre favorevole. Il grande De Sanctis nella sua "Storia Letteraria" la definì "rozzissima", senza aggiungere commento. Forse volle fare riferimento al tema convenzionale, manieroso nello svolgimento e scarso di contenuto poetico. Critica più benevola ebbe dal non meno grande Francesco Torraca, le cui espressioni ho riportato nel testo e da molti altri autorevoli studiosi.
    Trascriverò i versi della lirica di Fulcone. Per evitare il commento, che risulterebbe lungo e forse anche fuori posto, aggiungerò una libera "interpretazione" dei versi; ma prima di farlo desidero formulare una mia riflessione: la non corretta conoscenza della genealogia dei Ruffo vissuti nel XIII secolo, ha avuto influenza, spesso determinante, sui giudizi e le notizie che in ogni epoca furono dati sui personaggi di questo casato e sugli avvenimenti che li videro protagonisti.
    Il genealogista cui si fa maggiore riferimento è Francesco Scandone (che genealogista non fu). Ai suoi studi s’ispirarono Autori del calibro di Pontieri e Torraca. Lo Scandone diede di Fulcone queste due notizie inesatte, che hanno avuto tra le altre  conseguenze  anche  quella  di rendere impossibile, per esempio, una credibile definizione dell'età del personaggio: l'essere stato egli nipote ex frate di Pietro I, mentre in effetti fu nipote ex avo; l'essere morto nel duello che ebbe con Simone di Monfort nel 1276, mentre da documentazione certa sua moglie Margherita di Pavia risultava vedova già nel 1266!
    Oggi si sa con certezza che il Folco (II), che si batté in duello con il  Monfort, fu  il figlio  secondogenito  di  Fulcone (I) il rimatore e che a quel tempo Folco II aveva soltanto 20 o 21 anni (era stato armato cavaliere da Carlo I d'Angiò nel 1272 "assieme ad altri 50 giovani della migliore aristocrazia del Regno"). Ne deriva di conseguenza che quando Fulcone scrisse la poesia, che mi appresto a trascrivere, aveva un'età che andava dai 14 ai 17 anni (ne avrebbe avuto 38 o 40, se fosse stato figlio di un fratello di Pietro I) e quando morì aveva età tra i 26 i 36 anni (ne avrebbe avuto 52 o 54, nell'altro caso. Senza contare che non avrebbe potuto essere, per ragioni d’età, valletto imperiale nel corso del decennio 1240-1250).

Se i critici avessero conosciuto la giovanissima età del poeta, avrebbero avuto certamente un importante elemento di giudizio in più.  
La canzone lasciataci da Fulcone è costituta da 4 stanze di 11 versi:  (Versione libera)      

D'amor distretto, vivo doloroso   D'amore avvinto vivo doloroso     

com'om, che sta lontano 

 come uomo che sta lontano      
e vedesi alungare e ancor più vedendosi allontanare
da cosa ch'ama, vedes'inoioso; da colei che ama, si sente in angoscia;
languiscie stando sano, si sente morire pur essendo sano,
perche' nom pote usare        perché non può godere
la cosa che li piacie;  dell'oggetto del suo amore:
perzò vado morendo!       per questo io vado morendo.
Dunqua non mi discpiacie    ma non mi dispiace 
tal mortte soferendo,   di soffrire tale morte,
ma vivere mi pare.     anzi mi sembra di vivere.
Chui ben se 'ntanza,    Per chi ama è consueto ed amico il  
Li è conto ‘l morire,       morire  
anguir desiderando,     come il languire desiderando
atendendo [a] speranza   a chi attende con speranza
[..] sua volglia ['n] dolze gioia compire;  di realizzare in dolce gioia il  suo sogno;       
e nom sa merzé quando   e non sa quando avrà il dono
li compia disianza,         di appagare il suo desiderio,
ma vive comfortato   ma vive ugualmente confortato,
ch'à ssenno e volontate        poiché ama e desidera
di quella chui son dato   colei a cui è legato
per fedele amistate,     da fedele amore,  
e blasmando tardanza.      biasima soltanto l'attesa.
Or son mortto, ché vivo in carestia  Mi par d'essere morto, poiché mi manca
di ciò che più disio,     colei che più desidero,
e va pur acresciendo.     ed il desiderio più si accresce.
Di mia mortte e danno mi teria;   Dovrei dolermi della mia morte,
non me 'nde fora crio       ma non mi lamento
ch'io l'avesse, savendo       che io la patisca, sapendo
plagiere achui unuri       che sarà d'ornamento a colei nella quale
e genziore e misura,   e gentilezza e sembiante
preg[i]o, beltà e valuri,       e virtù e beltà e portamento,
che fanno lor dimura   sono virtù che in lei dimorano 
da ella nom partendo.     e mai l'abbandonano.  
No avendo io volglia ma d'altrui talento,  Non di mia volontà, ma per volontà
che 'm podere mi tene    di altri che ne hanno il potere di farmi vivere,  
ch'io viva sì morente,        io vivo in questa agonia,
nom perde fine lo male ch'io sento;  non ha fine il dolore che io provo  
vivo [sì] mi tiene,     anzi, mi mantiene in vita  
ch'io moro più sovente.     perché possa morire tante volte.
Perzò melglio varia     Perciò meglio sarebbe
morire in tuto in tutto,      morire una volta per tutte
ch'usar la vita mia     piuttosto che vivere 
im pena ed in corutto     in pena ed in pianto  
com[o] omo languente.  come uomo che langue.

       

Appendice:

PRIVILEGIO IMPERIALE DI FEDERICO II COL QUALE INVESTE DELLA TERRA DI SANTA CRISTINA E DEL CASALE DI PLACANICA  FULCONE RUFFO, NIPOTE DEL MAESTRO MARESCIALLO PIETRO DI CALABIA

    Noi Federico per grazia di Dio Imperatore dei romani sempre Augusto Re di Gerusalemme e di Sicilia etc. etc. etc. concediamo in perpetuum, tanto in considerazione della sua diligenza, fedeltà e devozione nel servizio quanto per i sui onorevoli costumi di vita, a te Fulcone Ruffo nipote di Pietro di Calabria Nostro fedelissimo e devotissimo Maestro Maresciallo e Nostro Gran Cancelliere etc. etc. la terra di Santa Cristina e del suo casale Pracanica, che appartennero al defunto Maestro Theodoro, filosofo,  concedendoti il libero dominio senza servitù di pesi e con tutte le pertinenze ed ogni suo razionale che a detta terra competono così come li godeva il Maestro Theodoro etc. etc. etc.

Confermiamo il presente privilegio comandando di munirlo del  sigillo della Nostra Maestà per mano del Notaio Nicola Delitundi. Dato nell’anno di incarnazione di Nostro Signore Millesimo ducentesimo quatrigesimo septimo mense novembris die vero nono, nona inditione

D.ni N.ri Federico Dei Grazia invict.mo Romanorum Imperatore semper Augusto Jerusalem et Siciliae Rege anno del Suo Impero trigesimo secundo, del Regno di Gerusalemme vigesimo octavo, del Regno di Sicilia quadragesimo primo feliciter Amen


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