IL CARDINALE RUFFO
TRA PROGETTO
POLITICO E CONDANNA DELLA MEMORIA
La condanna morale che da
duecento anni grava su Fabrizio Ruffo, condottiero sanfedista, alcuni storici
tentarono di cancellarla negli ultimi otto decenni di questo secolo, ma senza
risultati apprezzabili.
La condanna fu pronunciata dal contemporanei del
cardinale Ruffo ‑ che vissero in un'epoca dominata da forti passioni
‑ i quali espressero giudizi che spesso coinvolsero la morale dell'uomo,
del prelato, del politico a quel giudici perfettamente sconosciuto.1
Tra i più accaniti e meno
attendibili denigratori del Cardinale ‑tutti ancora oggi citatissimi, troviamo in posizione
preminente Pietro Colletta A quale scrisse testualmente:
“Fabrizio Ruffo, nato di nobile ma tristo
seme, scaltro per natura, Ignorante di scienze o lettere, scostumato in gioventù,
lascivo in vecchiezza, povero di casa, dissipatore, prese nei suoi verdi anni il
facile e ricco cammino delle prelature. Piacque al Pontefice Pio VI, dal quale
ebbe l’impegno supremo nella Camera pontificia; ma per troppi e subiti
guadagni perduto uffici e favore, tornò dovizioso in patria, lasciando in Roma
potenti amici acquistati, come in città corrotta con doni e blandimenti della
fortuna. Dimandò al re di Napoli ed ottenne la intendenza della casa reale di
Caserta; indi, tornato nelle grazie di Pio, il cardinale, andò a Roma e lì
restò sino al 1798, quando, per le rivoluzioni di Roma, prese in Napoli
ricovero, e, poco appresso m Palermo seguendo il re”.2
Ho riportato lo scritto di
Colletta soltanto per contrapporgli i giudizi di due autori insospettabili,
attraverso i quali è facile comprendere quanto furono partigiani gli storici
del tempo.
Guglielmo Pepe, generale
dell'esercito costituzionale e compagno di strada di Colletta, definì il libro
di questi "un elegante cumulo di menzogne".
Alessandro Dumas, nel suo
documentatissimo romanzo “I Borboni di Napoli”, scrisse: “…
Eppure noi intraprenderemo uno strano assunto, quello
cioè di provare che fin qui il cardinale Ruffo è stato calunniato dalla
Storia, o meglio dagli storici: noi speriamo riuscirvi; e ciò come si comprende,
per puro amore del vero. Diciamo cosa fosse in quell'epoca il cardinale Ruffo,
il quale tra noli molto diverrà uno degli eroi più coraggiosi di quel
disgraziati tempi, in cui tutti coloro che parteggiavano per la corte eran
ritenuti come completamente privi di senso morale, d'onor nazionale e di diritto
delle, genti. Non si creda che noi ci lasciamo trascinare dall'amore del
paradosso. Chi leggerà vedrà e sopra tutto giudicherà. ....La nostra
parzialità consiste a non volere che l'uomo di genio, di semplice audacia se
volete, che ha concepito il piano di restaurazione di Ferdinando 1, che ha
varcato lo stretto con tremila ducati, un luogotenente del re, un segretario, un
cappellano, un domestico, che ha messo il piede in Catona, in mezzo a trecento
insorti, che ha traversato tutta la Calabria, combattendo per una causa
ingiusta, ma infine combattendo tuttavia, che è arrivato a Napoli coli 60 mila
uomini, che fino all'ultimo momento ha difeso la capitolazione firmata da lui, e
che è caduto in disgrazia del re, che doveagli il proprio regno, per avere
propugnato contro Nelson, Acton e Carolina, i diritti dell'umanità, venisse
trattato come un Pronio, uno Sciarpa, un Mammone, un Fraddiavolo”.3
Fabrizio Ruffo fu
irrazionalmente giudicato da un singolo episodio della sua lunga vita, episodio
che ebbe la durata di appena sei mesi, mentre e a quel tempo aveva 55 anni ed un
importante e indicativo passato di politico e di uomo di governo.
Gli storici suoi
contemporanei, appartenenti alla fazione dei soccombenti ‑così come
faranno molti liberali del secolo seguente, ignorarono o preferirono far finta
di dimenticare che quando Ruffo fu ministro pontificio (1785‑1794) promulgò
leggi che furono piene di contenuto e conseguenze politiche, nonostante si
trattasse di leggi economiche.
Nel concepire quelle leggi
egli aveva avuto come riferimento il pensiero di Grimaldi, di Galanti, di
Filangeri e soprattutto di Pietro Verri, che il ministro pontificio cita nelle
sue leggi, senza farne il nome, indicandolo come “il celebre autore delle meditazioni sull'economia politica”.
Furono, infatti, leggi che
tendevano ad inserire quello pontificio nel movimento riformatore degli Stati
europei e dei più avanzati Stati italiani, come la Lombardia e la Toscana.
Furono leggi totalmente rifiutate dal conservatori,
potentissimi nello Stato pontificio e da loro tanto accanitamente combattute da
costringere il Pontefice a rimuovere dall'incarico il ministro, favorendo
addirittura il suo allontanamento da Roma nel 1794.
L'impresa sanfedista fu
vista (ed in molti ambienti tale concetto sopravvive ancora) come guerra rivolta
all'eliminazione fisica dei giacobini ed alla cancellazione dei loro ideali.
Di essa si ricordano con
enfasi la conquista e gli eccidi di Cotrone (come allora si chiamava l'odierna
Crotone), concepita e portata a termine essenzialmente da bande di briganti del
luogo. Il cardinale era assente e lontano bloccato a difesa della sua
artiglieria (due vecchi obici, in quel tempo) da un torrente in piena. 4
Si ricorda il sacco di
Altamura e le turpitudini che l'accompagnarono.
Il cardinale era presente ad
Altamura, conquistata con le armi e fece di tutto per porre un limite alle
nefandezze consumate, per la verità, non tanto dai calabresi quanto dagli
abitanti dei paesi vicini e dalle bande di pugliesi, arrivate il giorno prima
con De Cesare.
Occorre rammentare che i
pugliesi non erano nuovi agli orrori della guerra ed avevano gli animi
esacerbati e desiderosi di vendetta.
Quelli all'assedio d'Altamura
erano i superstiti delle sanguinose battaglie combattute contro i soldati del
francese generale Duhesme e contro Ettore Carafa, Conte di Ruvo.
Erano i combattenti e gli
scampati alle stragi di Andria, città nella quale perirono quattromila
sanfedisti, come risulta dal rapporto che Carafa fece al governo provvisorio.
Un'altra precisazione sento
il dovere di fare, per non incorrere nel peccato di omissione, che spesso
rimprovero agli storici di parte: Ettore Carafa, che aveva avuto in Ruvo i
natali, al contrario di quanto fu affermato da "storici" di fazione
avversa alla sua, si adoperò con ogni sua energia perché i soldati francesi
limitassero la ferocia sanguinarla con la quale trucidavano i suoi compaesani,
saccheggiavano e distruggevano la sua città.
Erano ancora, i pugliesi che
espugnarono Altamura, i superstiti degli eccidi, degli incendi, dei saccheggi
con i quali i Francesi avevano distrutto Trani e desolato Molfetta, Bisceglie,
Carbonara, Ceglie e tante altre contrade.
I calabresi che troviamo
all'assedio di Altamura, non avevano ancora combattuto contro alcun nemico.
Potevano avere, ed avevano in effetti, sete di saccheggio, ma solo di danaro o
di preziosi, in occasione di una vittoria così lontana dalle loro case.
Dopo Altamura il Cardinale
riuscì sempre meno a contenere e governare il suo esercito, che già prima
controllava con fatica, poiché con l'arrivo dei pugliesi e dei molti altri che
lungo la marcia verso Napoli si aggiungeranno, la massa dei combattenti assunse
sempre più la consistenza che hanno le bande di armati in una guerra civile. 5
Il sacco d'Altamura non potette essere evitato (ne
scrive lo stesso cardinale ad Acton) ma fu concesso secondo le leggi di guerra.
Petromasi scrive a tale
proposito: “[...]Altamura fu presa
interamente con le armi; per cui il saccheggio fu dovuto al
nemico secondo le leggi di guerra ed in certo determinato tempo”.
6
Autori non favorevoli al
Ruffo, come fu, per esempio, il senatore pugliese Ottavio Serena (la notizia è
ricavata da un articolo di Oscar Sanguinetti apparso su «Cristianità» del
novembre '99), non riportano notizie di atrocità commesse dai sanfedisti in
conventi di suore. Nel saggio di Serena, "Altamura 1799", è riportata
la relazione del parroco della cattedrale di Altamura dalla quale oltre ai nomi
delle vittime del saccheggio, in totale trentasette, si apprende che "Dalla
clausura delle monache sacrate tutte erano uscite, e lasciarono i monasteri in
abbandono”.
Si descrisse in tali termini
la marcia sanfedista avviata alla riconquista di Napoli, trascurando di far parola, tra i tanti, per
esempio dei provvedimenti che il cardinale adottò per andare incontro ai più
urgenti bisogni delle popolazioni
del territorio che andava “realizzando”7, gli atti di clemenza e di
recupero dei patrioti che mostravano ravvedimento8, l'impegno del
condottiero che appena
sbarcato in Calabria. dimenticando dubbi, timori e i mille pericoli del momento, si affanna a dare
aspetto di soldati e consistenza d'esercito al primi accorsi. 9
Ciò non doveva, ovviamente,
servire a dar gloria o giustificazione al condottiero ‑che soltanto per
l'appassionato cronista del tempo poteva ben rimanere, sino a quel momento, il
capo di bande in marcia per soffocare nel sangue il grido di libertà che si era
levato a Napoli, ma era già sufficiente per ingenerare nello studioso del
nostro tempo il dubbio sulla scarsa attendibilità di coloro che avevano scritto
in tempi tanto tumultuosi per passioni e lutti e fargli sentire la necessità di
un adeguato e scrupoloso controllo documentale.
Neppure i successivi
"avvenimenti" di Napoli e la condotta del vincitore che ci fu e ci
viene ancora presentato come il "cardinale mostro"‑ nel
confronti dei soccombenti e, nientemeno, di ferma opposizione agli ordini del
suo re, valsero a smuovere l'indifferenza o la semplice curiosità di sapere di
più.
Molti ‑non gli
storici, in verità‑ hanno ripetuto l'eresia: la storia si è già
pronunciata.
L'ideale che mosse il
condottiero, allora come ora, fu individuato nella volontà di riportare sul
trono Ferdinando IV mantenendo lo stesso istituto monarchico: ossia la miope e
gretta restaurazione del vecchio regime, ignorando che in Europa c'era stata una
rivoluzione al cui ideali appunto si ispiravano i giacobini napoletani.
In altre parole il
condottiero sanfedista, a dar credito a quanto ci viene ancora insegnato,
riconquistando al Borboni il perduto regno continentale, rinnegava
inspiegabilmente quanto aveva fatto e sostenuto come ministro pontificio prima,
durante e dopo la rivoluzione di Francia.
Se fosse stato veramente
mosso da ideale di semplice restaurazione, Ruffo lo aveva già coronato con la
vittoria e si sarebbe dovuto sentire appagato e pronto a ricevere la meritata
ricompensa invece che ribellarsi pericolosamente ai desiderata del suo re.
A quale e quanto pericolo
quella ribellione esponesse il cardinale Ruffo si ricava dalla lettera che il
primo ministro Acton il 27 giugno scriveva a Lord Hamilton, che era a Napoli a
bordo della nave di Nelson: "[ ... ]
E se mai egli (il Cardinale n.d.r.) opponesse qualche difficoltà, S.M. prega
Lord Nelson, che chiamandolo o invitandolo a bordo, lo arresti e mandi a
Palermo. Se poi si tratta di vero e proprio tradimento ci manda tre dispacci,
uno al Generale Gambs, perché assuma il comando delle truppe, e arresti il
Cardinale, inviandolo a Palermo; un altro al Duca della Salandra con lo stesso
scopo, un terzo sempre al medesimo fine al barone Tschoudy. Lord Nelson ne farà
l'uso che crederà, ove lì Ruffo, il quale dice di avere a sua disposizione 13
mila uomini, abbia coi suoi Calabresi formato un proprio partito e
tradisca" (queste lettere fanno parte delle carte Egerton del Museo
Britannico cod. 2640. Copia si trova nell'archivio Ruffo principi della
Floresta, tra le carte appartenute al Duca D. Vincenzo).
L'uso che Nelson pensava di
fare del cardinale lo apprendiamo dalla lettera che lo stesso Ammiraglio scrisse
il 20 agosto a Lord Minto:" [..]Fate
che possiamo lavorare insieme e che la più grande azione della nostra vita sia
di fare impiccare Thugut, il Cardinale Ruffo e Manfredini [ ... i
loro consigli sono dannosi tanto al Re quanto all'Europa. ma lasciate
impiccare questi tre birbanti e tutto andrà benissimo".
Quale significato dare
allora alla determinata opposizione di Fabrizio Ruffo alla volontà di vendetta
del re e di Nelson?
Attribuirla a bontà d'animo o a vaghi disegni
politici (che nessuno, peraltro, ha mai precisato) non poteva godere di alcun
credito ieri e tanto meno lo può oggi.
L'uomo,il politico, il
condottiero ‑si badi, di quel livello e di quella condizione‑ che
accetti d'intraprendere una sanguinosa guerra civile e per giunta alla testa di
un esercito che egli stesso riconosce difficilmente governabile, si è già
posto oltre quel limiti.
L'ideale doveva essere
diverso, di contenuto assolutamente più elevato e tale da giustificare lo
scatenamento della guerra civile ed i rischi capitali che, opponendosi alla
volontà del re e al disegni della politica inglese, sostenuti a Napoli dalle
navi di Nelson, il vincitore con consapevolezza e disprezzo del pericolo
affrontava.
Il pensiero politico di
Fabrizio Ruffo poteva essere colpevolmente ignorato o realmente sconosciuto agli
storici del suo tempo, accecati com'erano dalle passioni ‑come ho già
affermato‑ ma agli studiosi nostri contemporanei non può rimanere tale.
Dove ricercare il pensiero
politico del cardinale, considerato che non esistono sue biografie e tanto meno
un'autobiografia?
Lo indico non agli storici,
che sanno bene dove trovarlo, ma alla moltitudine di giovani appassionati di
storia, frastornati da tante contraddittorie notizie fornite, in occasione delle
celebrazioni di questo secondo centenario, da romanzieri e frettolosi cronisti.
Si trova nel trattato sui
diritti dell'uomo, pubblicato nel 1791 da Nicola Spedalieri e dedicato
all'allora ministro pontificio Fabrizio Ruffo, del quale l'autore chiedeva ed
otteneva la protezione, affermando di essersi a lui ispirato mentre scriveva.
Il teologo Spedalieri
affermava in quel suo libro molti dei concetti sui diritti dell'uomo sostenuti dal rivoluzionari
francesi, condannando e rifiutando, però, il contenuto deistico ed ateo delle
tesi rivoluzionarle.
Non posso chiudere il
riferimento che faccio all'opera dello Spedalieri (opera da molti dimenticata ed
in verità di difficile consultazione) trascurando di mettere in buona evidenza
che in quel trattato A teologo Spedalieri riconosceva nella sovranità popolare
A fondamento del potere di un governo.
Infatti, Spedalieri
testualmente scriveva nel XVI° CAPO
"Elezione del Principe: a chi spetterà ora la elezione del Principe? Non
mi pare, che questo possa essere soggetto di disputa. Se il diritto di
determinare la forma di governo è del popolo, molto più lo è quello di
scegliere la persona o il collegio in cui dee risiedere il Principato".
Ignorava, il cardinale
Ruffo,
tale e tanto tema quando concesse allo Spedalieri la sua protezione, avallando
con tale atto il pensiero dell'autore ed il contenuto del trattato?
L'argomento è di tale importanza ed interesse che
accettarlo significherebbe riconoscere la inderogabile necessità di una
radicale revisione storica della controrivoluzione sanfedista del 1799
‑nel regno di Napoli e rifiutarlo acriticamente avrebbe valore e
significato di un degradante atto passionale.
In una simile occasione lo
storico e comunque lo studioso, che volessero affrontare l'argomento in maniera
degna, non potrebbero farlo senza acquisire la più estesa conoscenza
(finalmente) del "primo attore di quella tragedia", appunto il
cardinale Fabrizio Ruffo, Vicario Generale del re di Napoli.
La fonte dove attingere esiste ed è degna di ogni
considerazione, trattandosi di una diagnosi medico‑specialistica, che
indico, questa volta con consapevolezza professionale, agli storici ed agli
studiosi: la diagnosi è formulata dallo psichiatra Prof. Domenico De Maio e
costituisce il primo capitolo del saggio "Il CARDINALE FABRIZIO RUFFO TRA
PSICOLOGIA E STORIA" edito da Rubbettino.
Riprendiamo il filo del discorso.
Nell'intento di stimolare l'interesse degli studiosi riporto quanto scrisse
Giuseppe Cimbali nel 188410 a proposito di quella dedica e di quel libro,
mettendo in evidenza l'interesse del cardinale per quelle tesi, che il Cimbali
ricavava da corrispondenza epistolare del Cardinale sino a quel momento inedita:
"Nel 1791 il Ruffo si trovava a Roma ed era nelle
buone grazie di Pio VI, che l'aveva fatto Tesoriere Generale della Reverenda
Camera Apostolica e Commissario del mare. In quell'anno stesso Nicola
Spedalieri dedicava a Lui i Diritti dell'uomo, e con che parole! anzi, debbo
dirlo, da questa dedica di Spedalieri sono stato spinto a studiare un po' questo
di lui mecenate, e sono stato fortunato davvero, avendo trovato molte di Lui
lettere inedite, delle quali più sotto pubblicherò alcuna. Nicola Spedalieri
non può essere sospetto di adulazione: un uomo che aveva incontrato il
dispiacere dei Principi, perché < non aveva adulato alcun Principe > e
quello dei Popoli < perché non aveva adulato alcun Popolo > dicendo verità
anche al Principi, e al Popoli, tanto meno poteva risolversi ad adulare un
Monsignore. Per questo il ritratto del Cardinale Ruffo, che scatta fuori dalla
dedica dello Spedalieri, come una testa bella e vigorosa e piena di vita dalla
tavolozza del Velasquez è un vero documento storico: è il ritratto di un
grande carattere fatto con mano maestra da un grande intelletto ".
Il pensiero politico del
Cardinale Ruffo, come ho prima accennato, si ricava dalle sue leggi di ministro
pontificio, che però vanno lette dalla prima all'ultima stesura, se si vogliono
conoscere le difficoltà create dalla reazione e la determinazione politica del
legislatore.
Sono le leggi sulla riforma
agraria;
sullo spostamento delle
dogane ai confini dello stato pontificio, che creava l'embrione di Nazione (come
la concepiva Rousseau);
sull'adeguamento salariale
del lavoratore agricolo (ora divenuto enfiteuta), che il legislatore trasformava
in partecipazione al frutto della rendita e del lucro, minando alla base, anche
con questa legge, l'Istituto feudale.
Ancora è individuabile
nella legge che riportava il Banco del Monte nel suoi limiti istituzionali
d'Istituto di credito a basso tasso d'interesse diretto a sostenere le attività
artigianali, il piccolo imprenditore, l'esercizio del commercio minuto etc..
Il
Banco era, infatti, diventato nel corso degli anni il sostenitore di comodo del
grande capitale nazionale e straniero.
Il pensiero politico é, per
certi aspetti, contenuto nella ristrutturazione delle opere di difesa e
dell'esercito, che concepì come organismo per il mantenimento dell'ordine
interno piuttosto che come difesa del territorio nazionale;
Dopo il 1799 il pensiero
politico di Fabrizio Ruffo si legge nel trattato di Fontainebleau del 25 gennaio
1813 stipulato tra il Pontefice Pio VII (ancora in prigionia) e Napoleone; e
prima ancora nel suo rifiuto di rimanere nel regno di Napoli dopo il 1799,
facendo ritorno a Roma ed al governo della Chiesa.
Si trova, infine, nella
motivazione che spinse Napoleone Imperatore, proprio all'indomani della
conclusione del trattato di Fontainebleau, ad insignirlo dell'onorificenza
dell'aquila d'oro della Legion d'Onore, il 26 gennaio 1813.
L'ideale del condottiero è
invece individuabile nella sua determinazione di formare un esercito nazionale,
con tutti i crismi richiesti dalle regole internazionali del tempo, poiché
l'azione offensiva doveva essere diretta principalmente contro l'esercito
invasore (guerra di nazione contro nazione, come l'aveva concepita Rousseau nel
contratto sociale del 1762, e non di uomo contro uomo) il e soltanto
secondariamente contro quel cittadini, pochi egli giudicava, che avessero
opposto resistenza armata oltre ogni ragionevole limite.
Si trova ancora nella sua
corrispondenza tenuta durante la guerra con Acton e con i reali.
Il 30 aprile da Policoro il
cardinale scriveva: "Ora se noi mostriamo di voler processare e punire......ci precluderemo la
strada alla riconciliazione‑ e più avanti nella stessa lettera "Arte
ci vuole....perché è ridotta per
nostra disgrazia a guerra civile; arte perché distruggendo si distrugge la
nostra patria, ed è molto
difficile il ristorarla".
Già ormai vincitore, il 21
giugno scriveva ad Acton dal Ponte della Maddalena: “E’certo,
che il caso di far guerra, e temere
la rovina del Nemico è la più crudele situazione ed è la nostra".
Ma è nel trattato di resa
concesso ai vinti ribelli che l'ideale, davvero superiore, va ricercato. 13
Con il trattato di resa, ai
ribelli era riconosciuta la condizione di legittimi combattenti di un esercito regolare,
salvandoli con tale riconoscimento dalla pena capitale che le convenzioni internazionali prevedevano
per i ribelli.
Si dava addirittura
riconoscimento internazionale alla Repubblica.
Chi mai aveva dato tanto ai
patrioti napoletani, quanto Fabrizio Ruffo dava loro con l'articolo 3° del trattato di resa?
Non certo i Francesi che
rifiutarono di ricevere la delegazione del governo repubblicano di Napoli, quando andò a
Parigi, in ossequio a convenzioni internazionali che avevano ignorato in ogni altra occasione.
La salvezza degli uomini del
governo repubblicano avrebbe consentito, attraverso un possibile loro recupero politico
‑che il vincitore dimostrò coi fatti di perseguire - di colmare la
frattura istituzionale e la
contrapposizione sociale determinatasi con la fuga del re.
Sul piano internazionale
avrebbe liberato la nazione napoletana dall'alleanza con gli Inglesi, che la poneva contro la
Francia la quale, mentre il Cardinale entrava vittorioso a Napoli, lasciava 'intravedere segni
della volontà di avviarsi verso una sua radicale trasformazione politica ed istituzionale già
riconoscibile nelle mire di Napoleone Bonaparte, l'astro nascente della politica
francese.
Se tutto ciò è vero ‑ e se non lo è occorre dimostrarlo e non
continuare ad ignorarlo - a quale forma istituzionale poteva guardare un uomo
della statura politica e dai trascorsi del cardinale Fabrizio Ruffo se non ad
una monarchia costituzionale con a capo il principe ereditario? E' una proposta
di studio che attende conferma . .. o smentita.
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1 Ruffo, G. (1998), Il
cardinale rosso, Soveria Mannelli (CZ), Calabria Letteraria (Rubbettino)
2 Colletta, P. (1975),
Storia del Reame di Napoli, libro IV pag. 324, Torino, UTET.
3 Dumas, A. (1862), I
Borboni di Napoli, Miliano, Napoli (ristampa 1970)
4 Cingari, G. (1978), La Calabria alla vigilia del 1799,
Reggio C, La casa del libro.
5 Gin, E. (1999), Santa Fede e congiura antirepubblicana,
Napoli, A. Gallina
6 Petromasi, D. (1901), Storia della spedizione del
Cardinale F. Ruffo, Napoli, Manfredi
7 Rodolico, N. (1926), Il popolo agli inizi del
Risorgimento nell'Italia meridionale, Firenze, Le Monnier
8 Cingari, G. (1978), cit.
9 Petromasi, D. (1994), Alla conquista del regno, Cosenza,
li Giglio
10 Cimbali, G. (1884) «Domenica letteraria>> del 29
giugno e 27 luglio.
11 Cassese, A. (1973), Diritto internazionale bellico
moderno. Testi e documenti, vol. P, Pisa 12 Ruffo, G. De Maio, D. (1999), Il
cardinale Fabrizio Ruffo tra psicologia e storia, Soveria Mannelli (CZ),
Rubbettino. 13 Ibid.
torna a Saggi e ricerche storiche