LA MARCIA SANFEDISTA
PROPOSTA DI REVISIONE STORICA DELL'IDEALE CHE LA FECE NASCERE E LA SOSTENNE
La rivoluzione giacobina e
la controrivoluzione sanfedista, che insanguinarono il Regno di Napoli nel 1799,
furono l'oggetto di numerose pubblicazioni nel corso degli ultimi due secoli e
storici, cronisti e narratori, favorevoli all'una o all'altra parte, diedero
opposte versioni tutte, però, almeno per quanto attiene alla parte sanfedista,
articolate su un giudizio etico piuttosto che storico.
In un Paese dilaniato da
sanguinosa guerra civile, in tempi nel quali l'odio e la vendetta si
sostituiscono alla legge e alla morale, solo il sereno giudizio storico (dunque
lontano da ogni passione), che per essere tale trascende la contingenza, può
far luce sulle origini d'avvenimenti tanto deprecabili.
Rimanendo nell'ambito del
Regno di Napoli: il giudizio sulla rivoluzione giacobina è nato da un lungo
dibattito e potrebbe essere considerato definitivo se, dal confronto con la
controrivoluzione sanfedista, quel giudizio non fosse uscito contaminato da
considerazioni morali che hanno, talvolta, soverchiato quelle storiche.
La controrivoluzione
sanfedista e segnatamente le sue origini ed i suoi ideali, non furono mai, che
lo sappia, tema di confronto tra storici, di conseguenza, il giudizio espresso
sul sanfedismo napoletano fu un giudizio esclusivamente morale e per questo mai
disgiunto da quello pronunciato sul Re, sulla Regina e sul Governo borbonico, i
quali, assieme a Nelson, furono considerati, per unanime consenso, i grandi
responsabili morali della sanguinosa reazione che seguì alla riconquista del
Regno.
La condanna morale di tali
personaggi, non solo in tempi di grandi passioni, prevalse su quella storica, fu
terribile quanto inumane ed incivili furono la loro vendetta, lo spergiuro,
l'ignobile inganno e coinvolse, ingiustamente, il sanfedismo ed il condottiero
sanfedista, il quale fu ignorato dalla storia e per questo mantenuto nel limbo
degli ignobili, privo, com'era, d'ideali conosciuti.
La riabilitazione, che la
storia fece, fu limitata all'immagine che di lui si aveva (l'uomo politico è
ancora oggi sconosciuto agli storici) e fu conseguente all'essenza del primo
giudizio: ossia morale. Al sanfedìsmo rimase il cartello di masnada di briganti
calabresi. Pochi, persino, si accorsero che il sanfedismo non fu un fenomeno
soltanto calabrese. Fu movimento politico che si manifestò in ogni contrada
della Penisola invasa dal francesi. La stessa definizione "sarifedismo"
forse andrebbe anche rivista, perché in realtà gli l'antigiacobini" non
furono mossi soltanto da ideali di fede, bensì da un sommarsi d'impulsi
materiali, ideali emotivi esplodenti in un popolo che agiva per istinto naturale
e per immediata utilità, non disgiunti da sentimenti di vendetta e di rivalsa.
Sulle vicende napoletane del
1799 esistono documenti, nuovi o in passato trascurati, al quali fare
riferimento al fine di una valutazione a se stante della controrivoluzione
sanfedista, degli ideali che determinarono un insolito condottiero ad
intraprenderla e di quelli che mossero un popolo, quello calabrese, a seguirlo.
Tra i nuovi documenti dovrebbero essere presenti quelli reperibili in Francia,
che illuminerebbero sette anni della vita politica del Cardinale condottiero,
non conosciuti e ci darebbero ragione dei motivi che ebbe Napoleone, nel 1813,
ad insignire il Cardinale Ruffo della Legion d'Onore.
Quello attuale, se è
momento veramente libero da ingerenze politiche e da influenze sentimentali che
possano turbare i criteri di giudizio, come in passato talvolta è avvenuto, la
ricorrenza dei secondo centenario degli eventi del 799 diventa occasione
preziosa per fare una simile revisione, tanto più che le celebrazioni avranno
sede a Napoli, patria d'Istituzioni storiche e di studiosi che danno pieno
affidamento. Almeno così lo credo.
Tra gli storici, che nel
passato scrissero sulla marcia sanfedista, ci furono alcuni che, non
accontentandosi di rifare la cronaca di quell'impresa ormai più che nota,
motivarono la partecipazione popolare senza approfondire l'argomento, che
avrebbe richiesto la conoscenza delle particolari condizioni economiche, sociali
e politico‑amministrative presenti in Calabria da tempo immemorabile.
Gaetano Cingari, illustre
storico calabrese nostro contemporaneo, forse fu il solo che approfondì gli
studi sulla partecipazione del popolo calabrese alla marcia sanfedista, che egli
descrisse, seguendola sino al confini della Regione, nel noto volume: Giacobini
e Sanfedisti in Calabria. L'immatura scomparsa non gli consentì di completare
gli studi sul sanfedismo e sul condottiero sanfedista, come, egli stesso mi
disse, aveva il proposito di fare.
Aveva
creato un'ottima scuola: è auspicabile che qualcuno dei suoi allievi
riparta dal punto in cui il maestro si è fermato.
Per gli storici del nostro
tempo il Cardinale Ruffo non può continuare ad essere uno sconosciuto. Non
possono pretendere di conoscere un uomo politico, attraverso un singolo episodio
della sua vita e giudicarlo un brigante per un 1 impresa della quale aveva avuto l'autorità e la legittima missione dal
potere costituito: il Re di Napoli. Non possono trascurare di conoscere quanto
su Fabrizio Ruffo, non ancora Cardinale, scrisse il teologo Nicola Spedalieri
nel suo libro "Sul Diritti dell'Uomo", pubblicato ad Assisi nel 1791.
E', in verità,
profondamente ingiusto e turpe che si siano espressi, e si esprimano ancora (dal
romanzieri, però), giudizi che coinvolgano ed offendano la morale, l'onorabilità,
la dignità dell'uomo, del politico, del prelato, pur non conoscendo il
personaggio sul quale si sta scrivendo.
Chi ha conoscenza
dell'attività politica del Cardinale Ruffo, che fu ministro dello Stato
pontificio dal 1785 al 1794, e principalmente del contenuto delle riforme che in
quello Stato promosse, in anni tanto difficili, non può fare a meno di
chiedersi quale ideale lo mosse alla riconquista del Regno. L'ideale, che ispirò
un simile uomo, non può essere stato quello di riportare sul trono di Napoli
una monarchia, sorda al tempi e priva di meriti, la cui politica aveva diviso la
Nazione in maniera inconciliabile. L'interrogativo diventa più pressante quando
si consideri che il Cardinale sapeva per certo che l'impresa sanfedista,
dall'inizio alla fine, non sarebbe stata, per lui, priva di capitali pericoli: i
fratelli Polimeni, infatti, ebbero l'incarico di ucciderlo a Scilla, i giacobini
catanzaresi misero una taglia sulla sua testa ed il Re, sconvolto dai patti di
resa concessi dal Cardinale al vinti repubblicani, il 27 giugno ordinerà
d'arrestarlo e di consegnarlo a Nelson, il quale, in una lettera a Lord Minto,
dell'agosto di quell'anno, proponeva addirittura d'impiccarlo, accusandolo
d'essere amico dei francesi. L'arresto del Cardinale non fu poi eseguito, per la
paura che le bande calabresi, al Cardinale fedelissime, incutevano.
Amico dei francesi o amante
della sua Patria che bramava allontanare dagli orrori della guerra civile,
tragico epilogo della dissennata politica suggerita dagli interessi inglesi?
Benedetto Croce, dopo aver
curato la pubblicazione dell'epistolario del Cardinale con i reali ed Acton,
modificò sostanzialmente il giudizio sul "condottiere" sanfedista
espresso cinquant'anni prima.
Nel 1897 aveva scritto:
(Studi storici sulla rivoluzione napoletana del 1799, Roma, Loescher 1897)
"[ ... ] Qualche oscurità rimane ancora sul punto: se il Ruffo fosse
realmente ingannato dal Nelson, o se non piuttosto si lasciasse ingannare,
trascurando le cautele necessarie ad assicurarsi della vera intenzione e della
buona fede dell'ammiraglio inglese e contentandosi di dichiarazioni alquanto
equivoche, che salvavano le apparenze. [ Ma, forse, al
carattere morale del Ruffo non bisognava chiedere troppo: opposizioni e
proteste, si, ma non la fiera ribellione contro i sovrani o il trarsi in
disparte [ ... ].
Nel marzo dei 1943, sulla
reazione del Cardinale al propositi di sanguinosa vendetta dei sovrani, invece
scriveva (La conquista del Regno di Napoli nel 1799, La Terza 1943):
"A siffatti propositi
il Ruffo, pur nel mezzo delle sue cure e dei suoi affanni, oppose chiaramente e
fermamente, sin dal primo delinearsi del felice andamento della sua impresa, il
diverso sentimento suo e il diverso suo pensiero e la diversa sua pratica: cioè
che invece di punizioni o restringendo solo a pochi casi le punizioni, fosse da
operare larga clemenza e indulgenza, giacché i presunti colpevoli erano
moltitudine, e alle risoluzioni e agli atti loro, che si giudicavano riprovevoli
erano stati indotti dalla necessità della situazione nella quale la guerra e la
fuga del re li avevano messi, dalla forza che li aveva premuti e costretti[…]
Egli, il condottiere delle masse dei cui elementi briganteschi aveva piena
consapevolezza, pur non potendo contenere del tutto la ferocia e la rapina delle
genti delle quali si doveva servire al fine della riconquista del regno,
soffriva di ciò che vedeva accadere intorno a sé e del peggio che antivedeva,
e volgeva l'animo a cessare quel mali, congiungendo all'idea della vittoria
aspettata l'altra del perdono, della conciliazione e della pacificazione. E'
stato detto che lui, uomo di guerra e di masnade, che non rifuggiva dal versar
sangue né da astuzie e metodi poco scrupolosi per procurarsi fautori e per
nuocere al nemici, non è da credere che fosse tanta pietà e tanta dolcezza di
cuore, quanta si vede in quel suoi propositi, e che alle intenzioni dei sovrani
egli si opponeva non già per motivi di bontà ma per motivi dì abilità, non
per sentimento umano e morale, ma per un concetto affatto politico. E certamente
questo concetto politico egli lo aveva, perché, in fondo, pensava che quelle
stesse umane debolezze, quelle speranze, promesse e timori che avevano sedotto e
traviato i più, potevano essere mezzi per legarli al governo restaurato, quando
questo avesse a loro provato che non intendeva perseguitarli né tenerli in
sospetti di ansie, né trattarli in modo diverso di tutti gli altri
sudditi". Croce appena più avanti concludeva: “[.. ] Pure, la politica da lui (il Cardinale, ndr) consigliata era
l'unica che i Borboni di Napoli potessero tentare con buona speranza di salvare
la loro dinastia [ ... ]. Certamente egli (sempre il Cardinale, ndr),
assolutista di temperamento e di convincimenti, non vedeva più in là, non
intendeva che quelli che considerava traviamenti da meritare indulgenza, erano
bisogni profondi della società moderna [ ... ]. Ma in quella stessa sua
indulgenza operava un oscuro avvertimento della realtà di quei bisogni e del loro vigore; e in quel
suo mirare a una monarchia che avesse il consenso dei sudditi, era un
inconsapevole avviamento alla graduale trasformazione di questi sudditi in
cittadini di libero
stato”
Alla conclusione del grande
filosofo e storico, non azzardo aggiungere altro che un'osservazione, attraverso
la quale, però, quel giudizio assume un significato sostanzialmente diverso.
Tanto ardire mi viene dalla conoscenza, che presumo d'avere, del pensiero
politico del personaggio al quale Croce si riferisce:
Un protagonista del livello
di Fabrizio Ruffo ‑ Cardinale di Santa Romana Chiesa, con un passato di
vent'anni d'esperienza politica e diplomatica e di dieci anni di attività come
eminente ministro e rifondatore dello Stato della Chiesa ‑ è credibile
che si opponesse alla volontà dei sovrani di ignorare i patti di resa dai lui
stipulati con i vinti repubblicani dei castelli (definiti dalle Regina traditori
della patria di fronte al nemico invasore) "inconsapevole" del
significato e del contenuto politico, che a quel trattato egli dava quando con
la firma sua, che deteneva i potere di alter ego dei Re e con quella dei
rappresentanti delle Nazioni cobelligeranti, trasformava quel "ríbelli"
in esercito combattente?
Quel trattato, che prevedeva
all'Art.3: "Le guarnigioni usciranno cogli onori militari; armi,
bagagli, tamburo battente, bandiere spiegate, micce accese e ciascuna con due
pezzi d'artiglieria”- non aveva il valore di un implicito riconoscimento
della Repubblica?
Anche questo era stato fatto
in maniera "Inconsapevole‑, dall'incosciente condottiero?
Lasciando da parte le
considerazioni sul "motivi di bontà d'animo... il sentimento umano e
morale del condottiere ", che in un clima di fratricida guerra civile
appaiono per lo meno anacronistici, faccio mia l'affermazione del grande
filosofo: " Pure, la politica da lui consigliata era l'unica che i
Borboni di Napoli potessero tentare con buona speranza salvare la loro dinastia ",
per affermare che l'Ideale che spinse Fabrizio Ruffo e lo sostenne nella
riconquista del Regno con forze nazionali, fu quello di una
monarchia costituzionale, magari con a capo il principe ereditario.
E' una proposta di studio
che potrebbe essere inserita nel dibattito sul 1799, che sta per iniziare a
Napoli e nel Paese.
Milano, dicembre 1998
Giovanni Ruffo
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