Capitolo IV I restauri
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La Cattolica ha subito nel corso della sua storia vari restauri e trasformazioni, pur rimanendo inalterato il suo ruolo di custode “della rupestre cittadina, su cui sembra sovrastare umile e benefica, tutelare e benedicente”. I primi rifacimenti e restauri risalgono probabilmente alla fine del XVII secolo, allorquando sul vano di accesso della costruzione venne creata un’apertura trilobata con un arco tondo. A quell’epoca (o agli inizi del XVIII sec.) risale pure la sistemazione dei coppi sulla copertura.
Non è dato sapere (almeno con certezza) se la chiesetta abbia subito successivamente altri lavori di restauro o se le descrizioni dello Schulz – che, in un disegno, evidenzia una transenna bizantina e, in uno scritto, insiste sull’esistenza nella Cattolica di quattro colonne tutte di marmo – corrispondano al vero. Altro mistero è l’allungamento fino alla base (piano terra) delle due absidette laterali: in quale periodo sono state modificate la prothesis e il diakonikon, che in precedenza, erano state rialzate? Sarà comunque l’archeologo Paolo Orsi a far ritornare al suo antico splendore il tempietto bizantino, anche se precedentemente al suo intervento il Governo italiano, sulla scia della notorietà acquisita all’improvviso dalla Cattolica (resa celebre da articoli, monografie, enciclopedie e volumi sulla storia dell’arte), era stato costretto a “concedere generosamente un sussidio di lire trecento per i primi e più immediati restauri” (G. Incorpora, Effemeridi sulla Cattolica, op. cit., p. 16).
L’archeologo fu facilitato nel suo lavoro dal sostegno morale e finanziario di Umberto Zanotti Bianco (fondatore dell’Associazione nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno, della Società Magna Grecia, dell’Archivio Storico della Calabria e della Lucania, uno degli artefici, nel 1955, dell’istituzione dell’Associazione nazionale “Italia Nostra”, che presiedette fino alla sua morte, avvenuta il 28 agosto del 1963) e della Regina Margherita, che mise a disposizione di Orsi “mille lire”. L’illustre filantropo, tutore delle bellezze paesaggistiche ed artistiche d’Italia nonché convinto sostenitore dello sviluppo del Mezzogiorno – che il poliedrico archeologo, nato nell’isola di Creta il 22 gennaio del 1889, ha scritto Oscar Luigi Scalfaro, vedeva come “coessenziale all’ascesa morale ed economica dell’intero Paese” – coinvolse nella “battaglia per Stilo” persino il gruppo che aveva finanziato la Società per le ricerche dei papiri in Egitto.
“Fu Paolo Orsi, il grande, perseverante archeologo roveretano – affermò all’epoca l’ex presidente di Italia Nostra – che con la descrizione dello stato miserando dei monumenti superstiti della Calabria, mi fece sentire il dovere della pietà per le creazioni d’arte del passato, silenziose educatrici degli spiriti nel futuro” (cfr. Italia Nostra, Umberto Zanotti Bianco 1889 – 1963, Roma, 1996, nota n. 9, pp. 77 – 78).
Ottenuta l’autorizzazione del Ministero, Paolo Orsi (che nel 1908 era stato nominato Soprintendente alle Antichità della Calabria) raggiunse Stilo per mettere mano all’opera che lo avrebbe reso famoso, pur tra mille difficoltà e contrasti. I primi restauri furono attuati, anche se in parte, nel 1914 e, per quanto attiene alla decorazione pittorica, nel 1927. L’archeologo trovò la Cattolica in completo stato di abbandono, minacciata da lesioni nelle strutture e quasi invasa da vegetazione, soprattutto nella copertura, dove, scisse Orsi, chi aveva avuto, in precedenza, il compito di restaurarla “non curò anzitutto di sradicare la selvetta che cresceva prosperosa sulle cupole”. Lo studioso roveretano rivolse la sua attenzione e le sue cure alle pareti perimetrali, in cui mise in evidenza un accesso secondario alla porta d’ingresso, nel cui contesto fu abolito l’oculo trilobato con immediata collocazione al posto dell’archetto, di un architrave in legno. Ripristinò altresì le monofore e le bifore delle cupole, eliminò le ali dei timpani e sostituì i coppi che adornavano le cupole con calotte in cemento, sacrificando così il “principio pittorico a quello conservativo”.
Questa nuova foggia della chiesetta costituì l’argomento principale delle critiche dei numerosi studiosi e visitatori, a cui le cinque cupolette apparirono “come gli elmi piatti dei soldati britannici, come cinque crani rasati a zero” (G. Incorpora, Effemeridi…,op. cit.). “Fu un errore di restauro – commentano Corrado Bozzoni e Franco Taverniti – sostanzialmente attribuibile ai residui pregiudizi accademici di una cultura ancora incapace di assegnare al cromatismo dell’edificio il suo completo riconoscimento estetico e storico e all’errato riferimento al modello delle cupole delle chiesette bizantine trichore della regione siracusana (e alla Trinità di Delia presso Castelvetrano), anziché alle costruzioni della penisola balcanica dove le coperture a grosse tegole sono un elemento significativo del panorama architettonico” (La Cattolica di Stilo, op. cit., p. 43).
Stefano Bottari addirittura ritenne che “il restauro dell’Orsi sia stato per molti punti arbitrario e che con quel restauro siano andati distrutti elementi notevoli”. Alfonso Frangipane criticherà invece la nuova collocazione della porta “troppo grande nel complesso delle due aperture rettangolare e semicircolare, mentre le proporzioni minuscole della facciata ed il carattere di tutto l’edificio e delle modeste finestrature laterali si sarebbero meglio accordati con un vano più piccolo… (Cosicchè) la chiesuola dei basiliani di Stilo sarebbe stata più suggestiva, perfettamente ricollocata nella sua luce, nel suo aspetto umile, nella semioscurità dell’antico santuarietto eremitico”.
Spetterà ai Soprintendenti Gisberto Martelli (1947 – 51) e Alessandro Degani correre ai ripari: il primo – ricorda Francesca Martorano – “intervenne sulla copertura, dove ripristinò i coppi laterizi sulle cupole e coprì a doppio spiovente le volte a botte, rendendo più evidente l’impianto cruciforme della chiesa, mentre al Degani si deve la chiusura in mattoni della lunetta soprastante l’architrave ligneo del portale” (Luoghi e monumenti della Calabria, op. cit., p. 22).
Le cupole – un tempo smozzicate, poi livellate dal getto cementizio – ritornavano, con il loro antico “abito” a splendere nel cielo, quale simbolo duraturo ed eterno della comunicazione con il trascendente, decorate con le caratteristiche tegole, che la cultura e le abitudini del luogo avevano ormai acquisito come elemento insostituibile dei cicli manuali – lavorativi. “In moltissimi paesi – scrive Francesco Faeta – è possibile rinvenire, oltre che nel patrimonio colto anche in quello popolare, segni architettonici – urbanistici importanti provenienti dalle passate esperienze di conquista, dominio, colonizzazione…Ciascuna esperienza ha sedimentato forme e modelli. Il motivo, ad esempio, dei coppi e delle tegole disposte secondo un modello alternato trinario che si prolunga, come elemento funzionale e, insieme, decorativo, poco oltre il perimetro dell’edificio, presente in molte zone della regione, rinvia con molta probabilità all’edilizia (e all’arte) bizantina (cfr. AA. VV., L’architettura popolare in Italia, Calabria, a cura di Francesco Faeta, Laterza, Roma – Bari, 1984, p. 11).