Capitolo V Studi sulla critica e datazione della chiesetta
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E’ stato lo Schulz, nel 1860, a dare l’abbrivo agli studi sulla Cattolica, che ben presto entrò tra gli interessi scientifici di un professore dell’Università di Lione: E’mile Bertaux, il primo ad orientarsi tra le costruzioni chiesastiche della penisola greca al fine di ricercare i modelli più vicini al tempietto bizantino, che definì “la più sorprendente delle cappelle greche esiliate in Italia”. Fu Paolo Orsi, in seguito, ad assumersi il compito di attuare una ricerca seria ed organica sull’edificio, ponendo subito a se stesso un interrogativo: l’opera è da ritenere genuinamente bizantina, in quanto sorta in età bizantina, oppure bizantina soltanto nello spirito che tutta la pervade, ma eretta dopo la conquista normanna (che, a Stilo, coincide con l’anno 1071)? “Tale inchiesta – rileva lo studioso – si presenta in condizioni essenzialmente diverse da quella riguardante alcune chiese bizantine o bizantineggianti della Sicilia, per cui è facile cadere in equivoci o meglio in errori. In Sicilia, infatti, tra il dominio bizantino e quello normanno intercorre la voragine di due secoli circa; in Calabria, invece, il passaggio è avvenuto nel giro di pochissimi anni, per non dire di mesi”.
L’archeologo scorse nella Cattolica un “prodotto”, un’elaborazione architettonica originale, punto di arrivo tra il tipo basilicale e il tipo centrale (quello ad un’unica cupola) e coniò appositamente per la chiesetta basiliana la definizione di pentakoubouklon in miniatura, simile, escluse le dimensioni, a quello realizzato da Basilio I a Costantinopoli. Fece inoltre altri raffronti: con alcune chiese d’Oriente (come quella di Kilisse – Djami, che ha lo stesso schema della Cattolica, tolto l’atrio ed il nartece) e con altri edifici, come la chiesa di S. Nicodeme di Atene, di Ani in Armenia, di Scripu in Beozia (risalente all’ ‘878) e tre santuari del monte Athos (Lavra, Ivìron e Vatopedi): “In tutte queste chiese – scrive l’Orsi – oltre alla presenza di una o più cupole, colpisce il profilo movimentato dei tetti in rispondenza dell’andamento delle forme interne ed una tendenza alla policromia ed alla ornamentazione geometrica nelle strutture murarie esterne”. Considerò, infine, tre gruppi di chiese a cupole: quello apulo, dei tempi delle Crociate (inizio secolo XII), che risente dell’influenza dei trulli (le chiese che si avvicinano di più alla Cattolica sono la Cattedrale di Canosa, con cinque cupole impostate direttamente sugli archi; quella di S. Andrea di Trani e di S. Pietro d’Otranto, entrambe a croce greca, pur se con una cupola centrale); quello calabro di età basiliano – bizantina (secoli X-XI) e quello siculo- normanno dalla forte impronta araba (vedi, S. Giovanni degli Eremiti, con cinque cupole, e Trinità di Delia, a croce greca, con cupola centrale).
Il richiamo di Orsi ai tre monasteri, quello di Lavra (fondato nel 963, anche se la costruzione del Katholikon risale al 1004), di Ivìron (fondato nel 979) e di Vatopedi (fondato nel 972) è rilevante, non solo per la data di fondazione, ma anche per alcuni elementi architettonici, costruttivi simbolici. La grande Lavra ha infatti una cupola emisferica, coperta di piombo, mentre l’etimologia del santuario di Vatopedi richiama la parola pedìon, che significa pianura dei lamponi, che sul monte Athos ancora crescono allo stato selvatico. Come non vedere in questi “segni” alcune connotazioni tipiche della Cattolica e dell’ambiente circostante? Il primo edificio athonita rimanda direttamente alla costruzione stilese che, scriveva nel 1836, l’erudito Vito Capialbi, aveva “cinque cupolini, che altra fiata eran coperti di piombo”, mentre il secondo (e cioè Vatopedi) ricorda le pendici del Consolino, ove il “rubus idaeus” ( il lampone), una volta cresceva allo stato selvatico. Pura casualità o traiettorie che, pur conducendo in luoghi e contesti diversi, portano alla fine ad un ambiente spirituale, culturale ed artistico che non aveva e non ha confini? Sarà tuttavia Horia Teodoru, nel 1930, a dare nuova linfa agli studi critici sulla Cattolica. Lo studioso rumeno – che affronterà anche il caso del S. Marco di Rossano – dirà, senza peli sulla lingua, assumendo in ciò una posizione abbastanza critica rispetto ad altri studiosi, che, avendo la chiesetta una pianta divisa in nove spazi tutti uguali e, quindi, gli elementi della propria costruzione tutti equivalenti, è la “negazione di fatto della logica costruttiva bizantina”. Pertanto, a parere di Teodoru, la chiesa di Stilo come quella di Rossano, “costituiscono casi particolari collocabili al termine di un lungo e lento processo di trasformazione subito dall’originario modello orientale”. Tale assunto critico è stato contestato da Karl Willemsen (i germogli selvatici danno fiori straordinari) e da Bozzoni e Taverniti, che così scrivono: “Gli ignoti artisti bizantini della Cattolica lungi dal ricercare quella perfezione stilistica cui accenna il Teodoru, sembrano aver trovato per le loro visioni spirituali una straordinaria soluzione formale, che ancora oggi, a distanza di un millennio, sorprende il nostro animo”.
La difesa ad oltranza dei costruttori della Cattolica da parte di questi ultimi tre studiosi è condivisibile. Appare opportuno, infatti, sottolineare che i costruttori delle chiesetta, accantonando un po’ i moduli e i comportamenti, le scelte degli artisti, degli artigiani e delle maestranze bizantini, che mettevano al servizio del sistema, della gerarchia politico – religiosa, una tecnica raffinata, guidata da antichi canoni, in certo senso perfetta, si siano discostati volutamente da quei “dogmi” per far propria una “tecnica progressiva” tesa anche a richiamare l’interesse e a vincere l’emulazione e la concorrenza. In merito al problema della datazione della Cattolica, esso costituisce senza dubbio uno degli aspetti più affascinanti e interessanti del tempietto, con cui si sono cimentati studiosi, archeologi e storici dell’arte calabresi, italiani e di fama internazionale. Si può affermare, senz’ombra di smentita, che la querelle sulla datazione è ancora aperta, susseguendosi, anno dopo anno, studi dopo studi, proposte di date e di collocazione storica e cronologica, che hanno come fondamento nuove letture degli affreschi – elaborate nell’ambito di interventi di conservazione e restauro – e diverse e più approfondite campagne di scavi archeologici, da cui, probabilmente, arriverà la parola definitiva. Il ventaglio di ipotesi avanzate dai vari studiosi è molto ampio e spazia dal IX al XIV secolo: un divario di circa cinquecento anni, troppi per l’analisi e l’indagine su un monumento, la cui origine e fondazione, come si vede, è ancora un enigma. Le argomentazioni che spostano in avanti la datazione della Cattolica sembrano comunque cozzare con un dato incontrovertibile: in quell’epoca, il monachesimo basiliano si avvia alla fine inesorabile e comincia a dare i frutti la politica filo – latina dei Normanni. Il Basilianesimo dimostra di non reggere più i colpi della Chiesa latina e dei privati: cosicchè i limiti di tanti latifondi feudali coincideranno e si identificheranno spesso con quelli dei monasteri basiliani. La data che più va a ritroso nel tempo è quella proposta da Luigi Cunsolo, che, nella sua Storia di Stilo, così si esprime: “quando tra il secolo IX e X la storia di Stilo è ancora un mistero, sulle pendici del monte Consolino la Cattolica alza già nell’azzurro le sue cinque cupole aeree su l’incrocio degli archi, che ricordano monumenti greco – romani”. Nel X secolo si collocano invece le ipotesi di Mario Squillace, di Guglielmo De Angelis d’Ossat e di p. Francesco Russo, che, affrontando il problema della chiesetta bizantina di Sotterra (in territorio di Paola), così scrisse nel 1949: “La chiesetta può essere considerata come coeva alla Cattolica di Stilo, cioè del X secolo”.
A una datazione nella seconda metà del X secolo è diretta l’ipotesi di studio di Maria Pia Di Dario Guida, che ha assegnato il primo strato degli affreschi tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo. Tra il X e gli inizi dell’XI secolo vanno riportate le considerazioni di Paolo Orsi e di Charles Diehl (che in un primo momento, aveva attribuito la chiesa di Stilo al XII-XIII secolo), mentre le conclusioni di G. De Jerphanion – che ha fatto paragoni con le chiese rupestri di Cappadocia, sopravvalutando il riferimento alle cinque cupole – hanno convalidato la tesi di un edificio sorto nel corso dell’XI secolo. Al secolo XI o ai limiti dell’XI (primi anni del XII) è la collocazione proposta, rispettivamente, da Edwin Hanson Freshfield, da Richard Krautheimer e dagli studiosi Corrado Bozzoni e Franco Taverniti: questi ultimi ritengono che la Cattolica di Stilo possa essere stata costruita “quando questo territorio era sotto il dominio politico di Bisanzio”.
Al XII secolo e al XII – XIII si fermano, invece, le ricerche di Domenico Minuto, di A. K. Orlandos, H. Georgios Sotirios, Luigi Kalby, F. Basile e Giorgio Dimitrokallis, che ha paragonato la costruzione chiesastica, specialmente per quanto riguarda la prevalenza del colore, agli edifici a cinque cupole del Peloponneso. Al XIV secolo ha fatto riferimento infine E’mile Bertaux, pur avendo, per primo, inserito nel suggestivo mondo delle chiese della Grecia, la Cattolica di Stilo. L’errore di fondo del direttore della “Gazzette des Beaux – Arts” – che ha considerato la finestra trilobata tra gli elementi architettonici originari dell’edificio e non giustapposti, quindi, successivamente – è stato quello di vedere nel tempietto quasi un fac – simile della chiesa trecentesca di Mistra, presso Sparta, ascrivibile appunto al XIV secolo.
Un bel dilemma per quanti, da anni, si interessano alla “suggestiva rossa chiesetta”, che Augusto Placanica vede, familiarmente, come “un dolce paesano, con gli ornamenti di una torta” e per chi, con passione e utilizzando validi raffronti stilistici, pensa a questo o a quel modello architettonico. Gabriel Millet e Horia Teodoru, ad esempio, hanno rinvenuto lo schema iconografico della Cattolica nelle chiese di Creta e nelle costruzioni anatolitiche. Soluzione non condivisa da Bozzoni e Taverniti, i quali, pur prendendo in considerazione le similitudini con gli esempi del Peloponneso (la Koimesis di Tegea e la Pantanassa di Monemvasia), di Creta e della Cappadocia, invitano a tener conto soprattutto delle costruzioni macedoni (Panaghia Koumbelidiki di Kastoria, per il tipo e la decorazione del tamburo, e la chiesa di Nerezi).
Connesso al problema della datazione è quello relativo all’irrisolta quaestio circa una più antica costruzione cristiana di cui la Cattolica avrebbe preso il posto. Molti studiosi ne hanno parlato, ma senza un’indagine rigorosa e scientifica non è possibile pronunziarsi al riguardo. Restano comunque molti punti da chiarire. Ammesso (e non concesso) che effettivamente, come vuole l’Orsi e la Garzya Romano, le quattro colonne sorreggenti gli archi – su cui si impostano le cinque cupolette – provengano da edifici romani, dalle rovine di Stilida o dalle ville presenti nella vallata dello Stilaro, qual è il luogo di provenienza dell’altro materiale di spoglio? Da dove provengono i capitelli paleobizantini (delle stesse quattro colonne) con sagoma grossolana e arcaica, il rocchio di colonna tardoantica sistemata nella prothesis, la transenna bizantina (sparita nel nulla) raffigurata in un disegno dello Schulz, le due colonnine lisce, il frammento di colonnina tortile, il pezzo quadro reimpiegati nelle quattro bifore del tamburo centrale? Anche qui un mistero.
A proposito poi di un altro elemento, pure svanito nel nulla, e cioè del “tronco di colonna scannellato a spirali lungo palmi tre” adibito a gradino dinnanzi alla porta della chiesetta (di cui parla lo storico Giuseppe Crea), oltre al rimando ad un preesistente costruzione chiesastica, non appare fuori luogo la considerazione che vede in tale pezzo di spoglio una valenza simbolica. E’ di aiuto in questo caso “l’uso rituale” di alcuni pezzi erratici nelle chiese bizantine (vedi quella di S. Adriano a S. Demetrio Corone, ove un capitello appartenente al periodo paleobizantino è stato “trasformato” in conca per l’acqua lustrale) e le abitudini, gli usi e le convenzioni di alcune culture paleorientali. In queste culture, scrive Luigi M. Lombardi Satriani, trattando l’argomento del processo di domesticazione dello spazio e della fondazione della “casa dell’uomo” (cfr. L’architettura popolare in Italia, Calabria, op. cit., p. 188) “la soglia che separa i due spazi indica contemporaneamente la distanza tra due modi di essere, profano e religioso. La soglia è il limite, la frontiera che contrappone due mondi, e il punto paradossale dove questi mondi comunicano, dove il passaggio dal mondo profano al mondo sacro può verificarsi…La soglia è il luogo del giudizio. La soglia e la porta rivelano immediatamente e concretamente la soluzione di continuità dello spazio: di qui la loro importanza religiosa, essendo i simboli e insieme i mezzi di transito…”.
Ad una preesistente costruzione rinvia inoltre la leggenda assai diffusa a Stilo e in altre cittadine bizantine della Calabria che narra delle abitudini e dell’usanza di tumulare i resti mortali dei monaci nelle primitive chiese. Non è leggenda invece il risultato di uno scavo archeologico diretto da Maria Teresa Iannelli, e portato a termine da Francesco Cuteri, Maddalena Simonetti e Barbara Rotundo, che nell’estate del 1996 hanno ritrovato nell’area immediatamente antistante la chiesetta alcuni reperti osteologici e due sepolture disposte negli interspazi tra i contrafforti.
“Gli scheletri – scrive Cuteri – prive di corredo, collocati in semplici fosse terragne e i reperti osteologici presenti su tutta l’area, testimoniano, unitamente alle sepolture individuate da P. Orsi immediatamente a ridosso del lato esterno del muro occidentale, l’uso sepolcrale degli spazi adiacenti l’edificio…” (cfr. “Vivarium Scyllacense”, VIII/2, 1997). Di una funzione funeraria – relativa, quindi, al primo edificio – parla il Cunsolo, che ricorda come nella parete dirimpetto alla porta di entrata (dove ancora si notano i segni di una larga apertura non ben murata) sia ancora visibile l’incavo di un’antica tomba. Un’altra tomba, probabilmente, doveva essere il “taglio a forza”, a sinistra della porta d’ingresso, messo in evidenza dal restauro di Paolo Orsi, che non seppe però darsene ragione (Cuteri, a proposito, citando Garzya Romano, esclude che si tratti di un passaggio). Nella prima tomba – che doveva essere una sepoltura privilegiata di età tarda – ricordano Cunsolo e Incorpora, richiamando l’orazione funebre tenuta a Squillace per Tommaso Campanella e il cardinale Guglielmo Sirleto da padre Aurelio Lattanzio, fu rinvenuto un anello di raro valore.
“In un antichissimo sepolcro di marmo – che probabilmente aveva preso il posto di antichi loculi, perpetuando usanze secolari – intorno alla cui pietra vi era scolpito un leone che sopra un monte sedendo guardava il Polo” (la tomba apparteneva ad una delle cinquantasette famiglie nobili di Stilo: i Politi).