AEDO DELLA CIVILTA’
CONTADINA CALABRESE
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Il caso di un autentico contadino che faccia della
poesia non è in se stesso una novità.
Certo i poeti in vernacolo sono un gran numero e tutti trattano
il “mottetto” e la “canzuni” che nascono – grido dell’anima
– nei momenti di esaltazione della fanciulla amata, o di terribile ansia,
quando li sorprende la gelosia, oppure di dolore, quando l’unione è
contrastata, insultata o quando sopravviene l’abbandono e il tradimento.
Il gran numero si restringe a pochi se si espungono i verseggiatori appartenenti
ad altri ceti o categorie sociali, e che hanno il torto di trasferirsi solo con
l’immaginazione nel mondo contadino, che per non essere il proprio non riesce
a suscitare nei loro petti ascosi, validi impulsi e limpide fonti creative.
Non citerò
pertanto nomi di autori di poesia vernacola di estrazione non contadina.
Nelle nostre popolazioni c’è sovente la memoria di
uno o più recitatori di versi, mezzi rapsodi pronti ad esibirsi in ogni
festino, o a cantare sotto il verone della bella innamorata, né citerò nomi di
contadini nati e cresciuti nel loro stato.
Se per i precedenti si può pensare ad una produzione poetica priva di sincerità
o di impulsi originali per questi altri si può osservare che essi difficilmente
escono dal particolarismo, dal soggettivo, dalle proprie passioni o ambizioni
personali, dal “privato”.
Il caso Dattilo è quanto meno eccezionale. Il Privato c’è, ma è del tutto
marginale. Costituisce, si può dire, uno scantonamento, una distorsione per uno
stato emotivo eccezionale, una piccola fuga per il bisogno di respirare un po’
col capo fuori dagli stipiti della finestra = il “Pubblico”. Il Pubblico,
ossìa la socialità è al centro del suo discorso poetico, tutt’uno con la
sua ispirazione, col suo bisogno di poetare e di comunicare con gli altri.
Valore etico-sociale della poesia di Dattilo
Il valore etico-sociale della poesia di Dattilo emerge subito, fin dalla prima di esse. Si tratta anche di una poesia/documento storico, testimonianza asciutta, chiara quanto inoppugnabile della condizione umana del proletariato contadino in una società sottoposta alla egemonia scatenata dell’agraria sia nel prefascismo che durante il fascismo, in minor misura, nella repubblica. Agraria succhiona e feroce, priva di ogni sentimento di socialità e conservata nel tempo al principio del profitto quale diritto inalienabile. |
Sete
di dominio e furfanteria sono per i padroni e per i saccheggiatori del lavoro e
della vita dei contadini, non solo la legge e l’ordine imposto dalle leggi
degli uomini, ma pure la morale e l’etica comportamentale che devono informare
le azioni del cittadino. Il mondo deve camminare così; e non c’è regione che
tenga di fronte a questa volontà becera dei ceti dominanti: Il popolo
subalterno è costretto a sottostare, e sembra talvolta che perfino i meccanismi
della giustizia divina su questa terra stiano dalla parte degli usurpatori.
La legittimazione dell’arbitrio e dello sfruttamento è completa e assoluta;
nessuno può, se non vanamente, discuterla o negarla. Siamo nel regno dei tabù.
A questa certezza si deve forse se i temi di Dattilo insistono con grande vigore
e fervore sulla iniquità del padrone, su i suoi privilegi, sulle rapine e sulle
violenze e prepotenze che commette. La tirannia del padrone impegna mente e
cuore dello schiavo promosso servo nelle “terre del Sacramento”.
Il padrone sevizia continuamente, tenta ogni minuscolo pretesto per scacciare
dalla terra il contadino che ardisce rivendicare i propri diritti, per ridurgli
il salario, per vanificargli la quota del prodotto, per togliergli l’onore
della famiglia. Il “Fegu” (feudo) cancellato da tempi lontani, un secolo e
più, dai napoleonidi, è sempre presente e assassino: A cosa servono le
invocazioni?
Tutto il discorso poetico di Dattilo, ignaro di filosofia e di sociologia, è
permeato, a sua insaputa, di proudhonismo. La sua poesia affonda le radici nel
vivo della questione sociale. Umilmente ma
con implacabilità di giudizio.
L’uomo contadino, nell’immobile mondo del Sud, è
disumanizzato socialmente e fisicamente. Dattilo ci descive una tale condizione
con una robustezza di concetti ineguagliabile. Il compimento ha il titolo: “Mi
dicidìa mu cangiu strata”: Povira vita mia sempri zzappandu / zzappandu
sempri e non guadagnu nenti…
Il poeta sa di
non potersi liberare. Avverte che ancora mancano le condizioni per cambiare il
sistema, e gl’infami rapporti di produzione, e le strutture che generano lo
spaventoso privilegio e il potere che la classe dominante ha di conservarlo.
Nondimeno egli, individualmente, ha ancora una libertà:
“Ora mi dicidìu mu cangiu strata / e ti dassu la pichetta e lu zzappuni, / e
si non trovi omani a iornata pigghj la zzappa e ti li zzappi tuni!”
Ma il padrone
non andrà a zappare la terra.
Troverà sempre, tra tanti disperati senza lavoro, colui che andrà a sostituire
il poveretto che ha osato abbandonare l’azienda per occuparsi diversamente.
Solo una
trasformazione radicale può distruggere il privilegio dei proprietari del
feudo, perché il cercare semplicemente di cambiare strada appare un vano
disegno. E lui ci ha provato: “Diverzi voti cercai u cangiu misteri / e ndebbi
u tornu poi mata a zzappari”.
A mezzo millennio di distanza dalla fine del
Medioevo, la donna contadina del Sud continua, con le attenuazioni nei modi
dovute al progresso sociale, ad essere serva in casa e “iornatara” in
campagna, poscia serva ancora, oggetto di lussuria per il padrone.
Dattilo, che
compone agli inizi della repubblica democratica, non avverte che vi siano
mutamenti degni di nota tra ciò che osserva e ciò che si racconta di quella
remota epoca di padroni baroni. La donna contadina è più ricattata
dell’uomo, più umiliata ed offesa, la sua “persona” è del tutto
annullata. Mentre altrove, nelle regioni del Centro - Nord del paese dove è
riuscita ad organizzarsi con le altre, può difendersi e contrattaccare nel Sud
essa non gode neppure la protezione prevista dalle poche leggi concesse alla
classe operaia: Il padrone la sfrutta come vuole e spesso la piega ai suoi
desideri di maschio con la violenza, senza che alcuno intervenga. Il quadro
sociale che Dattilo ci offre è estremamente drammatico.
La poesia “La me vita”, che inizia la raccolta, oltre che una narrazione
autobiografica nella quale il Nostro ad un certo punto si mette da parte per far
parlare in prima persona appunto la sua vita, per felice metafora si configura
anche come un coraggioso discorso sui più vari aspetti della tragedia della
donna del profondo Sud e che riassume millenni di insulto alla sua vita, con la
voce del dolore contenuto e con una disperata rassegnazione. La sua “Vita”
ci parla appunto come potrebbe parlarci, per traslazione, un’entità
femminile; e Dattilo diviene strumento del comunicare della Vita/Donna, veicolo
per il quale narrazione autobiografica e descrizione esemplificativa dei modi di
violenza si manifestano nell’essere tradizionalmente più indifeso e più
sfruttato, meno valorizzato: La donna appunto, in questo caso la donna/vita. La
donna, e il ragazzino che in una società violenta è indifeso al pari della
donna, è sottoposta a fatiche bestiali, al servizio ora di una ora di
un’altra famiglia benestante, inimmaginabili agli altri (ieu sula sacciu
quantu fatigava), ha il cuore esulcerato (nta stu cori meu c’era na fiamma),
soffre le pene dell’inferno e nessuna mostra pietà.
La fanciullezza, dispensatrice di servizi nulla o poco retribuiti ed oggetto di
malversazione, viene continuamente circuita come una procace giovinetta soggetta
ai tentativi di seduzione dei padroni (…a li gnuri gula si facìa),
sballottata tra la fortissima necessità di non farsi scacciare dal posto e
dall'altra di mantenersi illibata, incontaminata (…patìa mu campu e pommu
sugnu onesta).
Dei servizi della giovinezza contadina, infine si abusarono in tanti, come
appunto della lussuria che riesce ad abusare d’una fanciulla: “Mi fìciaru
mu soffru e si scialaru,/ si divertiru tantu la mia vita, / mi vittiru
orfaneglia e s’abusaru, / la pegli
mi cacciaru e non pagata”.
Sulla condizione della donna, Dattilo torna con insistenza. Nella poesia “U
lavuru da notricata”, lavoro che interessava la maggior parte delle contadine
della Calabria e del Sud agricolo, il poeta scolpisce in pochi versi quanto
fosse faticoso e quanto poco rendesse dal lato economico lìallevamento del baco
da seta. Innumerevoli piccoli speculatori e pochi grassi monopolizzatori del
bozzolo che in tutti i centri si produceva, si
arricchivano sulla pelle di centinaia, migliaia di contadine, ognuna
delle quali poteva ripetere il lamento della protagonista del componimento
poetico di Dattilo: “Doppu tantu lavuru e rischiu i vita / no mmi potti fari
mai na vesta i sita!”.
La Calabria è una terra padana
La vita dei contadini è metodicamente tormentata dal ripetersi dei fenomeni sismici e dalla violenza alluvionale. Quest’ultima accomuna le sorti della Calabria a quelle delle regioni padane. Se vi sono differenze esse consistono nel fatto che i cintadini delle valli del Po hanno una casa e dei villaggi, mentre quelli di Calabria no; non nelle campagne né nei centri abitati, dove, si può dire per tutti, i contadini sono costretti a vivere in cantinati, stamberghe ovvero catoi col solo ingresso e uno o due buttalumi. Non pochi convivono con gli animali su paglioni imbottiti di foglie secche di granturco o di paglia. |
Quando arriva l’alluvione o il terremoto questi
abituri vengono spazzati via e spesso la gente vi muore dentro sorpresa nel
sonno o imprigionata.
Le varie provvidenze
governative si sono storicamente dimostrate aleatorie, insufficienti o sono
restate del tutto inapplicate. Alle popolazioni è rimasta solo la tragedia. La
rassegnazione senza speranza o l’imprecazione.
Il Nostro esprime il dramma dei contadini che, oltre
l’abituro hanno perduto le terre coltivate, le piante e l’atteso prodotto
dell’anno. E’ un quadro allucinante: “Ora vinni l’acqua furiusa / pecchì
mancava u muru i parapettu / l’ortu si levau e puru a casa, / ora nugliu cchiù
cogghj lu fruttu…”; i ponti delle strade e della ferrovia sono crollati “
e bestii e cristiani s’annegaru! / Ora ciàngiunu li petri di la via…”.
Il mondo ingiusto in cui ha vissuto e vive tuttora il
poeta davvero non si può sopportare. L’ambiente è irrespirabile anche perché
spesso sciocco, sempre invidioso, superbo e malvagio. La gente ti passa accanto
e non ti onora neppure di un cenno di saluto: ti guarda dall’alto in basso ed
è troppo se non ti fa capire, toscaneggiando, che sei un cafone. Il contadino
non ha diritti di civiltà da far valere: è quasi sempre analfabeta, non ha
contatti con i “civili”, non conosce le regole del vivere o del galateo,
spesso dorme con le bestie, addirittura parla con esse, non ha esperienza di
vita cittadina; taluno trascorre la vita nella remota campagna e non ha mai
visto il mare.
Il borghese se ne disgusta o se la ride, e umilia così il poveretto che ignora
la buona creanza.
Dattilo, ammonisce più specialmente i “don” del centro urbano:
“Si u contadinu a terra no zzappava / dicìtindi vui : A genti chi mangiava? /
Aundi menti manu u contadinu / crisci la vigna e fa lu vinu, / crisci la spica
di lu ranu, / si fa lu pani e tutti ndi nutrìmu”.
La nobiltà del
lavoro contadino va perciò rinfacciata ai padroni attenti solo agli svaghi ed
alla esazione delle entrate. Al contadino spesso però non rimame che la
prospettiva della fuga dalla terra.
Il grande corregionale Padula scrisse che le
strutture sociali ponevano ai contadini della Calabria ridotti alla fame la
scelta fra l’emigrazione e il brigantaggio. O la fuga o il fucile. Dattilo
imparò a sue spese questa verità, dopo essere stato scacciato dalla terra che
aveva coltivato per un gran numero di anni. Le sue riflessioni scuotono
profondamente chi legge la poesia dal titolo: “Quandu mi cacciaru di la
terra”: Lavurai tanti anni cu sti mani / pommu la scugnu e mu cacciu li spini:
/ zzappava notti e gghiornu senza pani / la vita cunzumai e milli zzappuni!”.
Di quella terra arida, incolta ne avevo fatto un giardino, ma “mò vinni lu
patruni cu na scusa, / la terra mi pigghiàu e puru a vigna /fora mi cacciau di
la so casa / e quandu è ura poi vai e vindìgna”.
Così si apre la prospettiva della fuga:
“Ieu pe lavuru ndeppi u mi straregnu…” Ma lontano dal suo paese sente il
terribile morso della solitudine e della nostalgìa, dell’amore della sposa e
della terra natìa che gli sembra quasi di avere tradito.
Dattilo ha vissuto in pieno la tragedia dei contadini
sotto la dittatura del fascismo che coincide con la dittatura dei padroni.
Oppressione senza respiro, lavoro trattenuto, nessun beneficio per i contadini,
mentre la demogogia propagandava bonifiche agrarie fantasma e il duce ritratto
intento a trebbiare il grano. La divisione dei prodotti imposta dai sindacati
corporativi favoriva in ogni caso il padronato. I contadini “duri” che si
ribellavano venivano cacciati in carcere col marchio della “mala”.
La caduta del
regime segnò davvero una “liberazione” per le masse soggiogate ed il
Nostro ci dice la gioia di tutti nella poesia: “Quandu tornau u primu maiu”:
“Doppu tant’anni i fasciu chi mancava / quandu tornau gliù jornu, u primu i
maiu / cu jìa dicendo ngiru: mò su preju! / Ncera cu jìa dicendu: Finarmenti!
/ Mò chi catti nterra lu fascismu, / cercàmu u nd’unimu tutti quanti / cussì
abbattìmu prestu lu schavismu!”.
Mi è caro chiudere queste brevi note con un mio
ricordo del poeta.
Rosario Dattilo, Rosciu per gli amici, è nato a Bovalino Marina poco più di
cinquant’anni orsono. Io lo conobbi che aveva circa vent’anni. Il regime di
Mussolini era da poco crollato, ed io, che avevo già diretto il movimento di
concentrazione antifascista, giungevo a Bovalino piuttosto spesso per tenere dei
comizi o delle riunioni. La sezione del PCI aveva per sede un misero e angusto
locale posto sotto il livello stradale. Al mio arrivo i compagni mi facevano
sedere dietro un tavolo e mi invitavano a parlare; ogni volta si accendevano
grandi dispute sul modo come organizzare il movimento operaio, sulla lotta per
ottenere migliori patti agrari, un salario sufficiente, opere di risanamento,
etc., e, problema in quel momento più scottante, la liberazione della vita
pubblica delle residue incrostazioni fasciste.
La speranza di una redenzione, che in quel momento appariva davvero prossima,
riempiva il seminterrato.
Tra i compagni che più formulavano domande serie con l’aria più innocente,
tutte le volte scorgevo un uomo minuscolo, vestito alla meno peggio, con occhi
ora aguzzi ora un po’ svagati e con le labbra sempre atteggiate al sorriso.
Era il neofita Rosciu Dattilo, il nostro contadino poeta autore di questa
raccolta.
Non ricordo altri incontri fino al 1979. In questo anno, Piero Leone, mentre
conversavamo nella sua casa, mi promise: Tra poco ti presenterò un contadino
poeta; sta a lavorare la terra qui vicino.
Poco dopo, a dieci anni di distanza, potei riconoscere il minuscolo uomo della
sezione e riacquistarne la memoria del volto chiaro per il sorriso e gli occhi
intelligenti. Ci abbracciammo sorpresi. Piero ci guardava commosso: Non aveva
pensato che potessimo essere dei vecchi amici e dei vecchi compagni.
Parlammo di tanti episodi che affioravano al nostro ricordo e anche delle sue
poesie che sarebbero state raccolte e ordinate da Piero e forse pubblicate. Gli
feci tanti auguri. Egli mi rispose: Non ho che delle lattughe da regalarti. Era
l’espressione della sua contentezza per avermi rivisto dopo tanti anni. Gli
risposi: Grazie caro, per il dono che mi fai, ma ancor di più per il dono che
mi farai dei tuoi versi. Ce
ne andammo. Rosciu
si rimise a zappare…
ENZO MISEFARI
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