Rosario Dattilo

AEDO DELLA CIVILTA’

CONTADINA CALABRESE

 

LA POESIA DI ROSARIO DATTILO

C’è la poesia  eloquente che si può declamare nelle piazze e quella riservata che parla ai cuori che vogliano ascoltarla nel silenzio. La poesia di Rosario Dattilo è della seconda specie.
Appunto perché esente da intromissioni discorsive o da ricercatezze linguistiche, la sua poesia ha trovato i mezzi della sua espressione più naturale nel dialetto nativo di Bovalino, sulla costa ionica della Locride, Rosario Dattilo è un poeta popolare in dialetto.
Di se stesso egli dice: “Ca su poeta ieu non pozzu diri/ ma sentu u desideriu i scriviri,/ e bonu bonu mancu sacciu u scrivu/ e ndavi amici chi mi dinnu bravu”.
Non poeta vanaglorioso dunque, bensì contadino serio che conosce il pregio del suo lavoro costante: “Comu a li scrittori e i scenziati/ chi dassanu ricordi assai pregiati,/ puru se menu carculatu, / u contadinu dassa l’arburu chiantatu,/ l’arburu  chi crisci e faci frutti,/ nobili ricordu ai contadini doppu morti”.
La fatica del contadino però è disumana nelle condizioni nelle quali Dattilo l’ha esperimentata e l’esperimenta giorno per giorno. Avrebbe potuto essere la più bella del mondo e non lo è certamente per il grado subalterno in cui l’economia moderna l’ha relegata in un paese come l’Italia, per le avversità climatiche che la colpiscono in quella Calabria antica, dove Dattilo vive e lavora. Per i contadini senza terra curvi sui campi altrui c’è ancora il padrone avaro che fa conti sempre a suo vantaggio.
Commoventi le immagini in cui si concreta la fatica non remuneratrice del contadino. Dattilo le compone non per sentito dire, ma per esperienza diretta: “Povera vita mia sempri zzappandu, / zzappandu sempri e non guadagnau nenti; / mi manca u sali e l’ogghiu pommu cundu, / e sugnu a scarza e senza vestimenti”.
A quel padrone avaro come rispondere? “Ora mi dicidìu mu cangiu strata / e ti dassu la pichetta e lu zzappuni, / e si non trovi omani a iornata / pigghi la zzappa e ti la zzappi tuni!”, conclude Dattilo con piglio epigrammatico che s’inserisce bene nella sua vena elegiaca.
Sempre accade che “cui lavura mai poti arricchiri, / guadagna quantu u campa e nommu mori…” Dattilo rievoca la sua vita di zappatore: “E ndi conzumai zappuni e zzappunehli / pommu chiantu vigna ed arburegli, / ndi siminai orgiu cu sti mani, e ranu / e quasi disiava sempri lu pani”. Dopo tante fatiche però: “I gaglini, vinni u morbu e ndi mariru, u maiali, appena grassu ndu rrobbaru, / e amaru nui restammu senza nenti / cu na manu darretu e l’attra avanti”.
La disdetta è la divinità che impera sui miseri, per i quali le frasi proverbiali riprese dalla tradizione non risultano né ripetitive né insulse. Esse conservano nella poesia di Dattilo la freschezza delle cose mai dette, delle immagini nuove. Ritorna il pescatore stanco di una nottata passata inutilmente sul mare, e Dattilo ritrova immagini di sempre per comunicarci il suo sconforto: “La genti si dimanda: - Chi pigghiau? - / Igliu rispundi: - Ca mancu na cuda!- ”. Qualche volta la scena diventa comica, come quando ritornano i pescatori dilettanti dal fiume,
posano sul tavolo l’unico pesce catturato, a dimostrazione della loro bravura, salta il gatto e se lo mangia.

Rosario Dattilo non si distrae con le piacevolezze dei racconti episodici. Se deve narrare fatti, narra quelli tragici della contadina insidiata dal padrone, sedotta e sfruttata, e quindi abbandonata: “La fini fici i n’ossu ch’è spruppatu / chi su zzigliaru fora di li cani!”.
Ritorna al tema delle fatiche spossanti del contadino, per le quali unico ristoro è il sonno, nemmeno il nutrimento, ed esclama: “Mbiatu a stu lettu!”. Il risveglio è triste: “Quandu mi risbigghiu e mata iornu / penzu ad aieri e aundi ndaiu i tornu!”.

Se poi considera i disastri delle alluvioni, il suo rimpianto diventa epico. Quella terra così amorosamente coltivata, per cui Dattilo dice: “Sutta a chigliu suli assai cocenti, / cu pani e senza pani lavurammu”, “tutt’a na vota ndi volau di l’occhi.” Anche le pietre della via piangono i morti di sottoterra e “aspettanu li vivi a brazza aperti”. Il mare si sollevò: “Volìa u si mangia tutta a ferrovia / e ca facci di la terra combattìa”. Ma forze soprannaturali possono salvarci, e Dattilo da quel figlio dell’antica Grecia ch’è rimasto invoca: “Speriamu cocchj diavulu ndi penza!”.
L’uomo è bersagliato dalle avversità; ma non per questo l’animo suo deve rendersi incapace di apprezzare gli aspetti positivi della vita. Alla nipote ammalata, Dattilo raccomanda: “Coraggiu Rita, chi voi u facìmu, /quandu soffrìmu e quandu peniàmu!”. La gioia dell’amore, il piacere dell’amicizia, la bellezza dei campi fioriti, la santità della famiglia, l’ideale della pace gli strappano accenti di lirica commozione che sono tra i più toccanti della presente raccolta. Sogna un campicello tutto per sé, dove costruire a poco a poco una casetta, ed accanto piantare un albero che vorrebbe chiamare lo albero della pace, di cui amerebbe diffondere la semenza nel mondo intero. In quel campicello i cui prodotti gli basterebbero per vivere, studierebbe la natura “comu è fatta” e scriverebbe pure “tutti i peni di stu mundu.”
Invece il padrone lo caccia ingiustamente dalla terra ch’era “nu voscu abbandunatu” e con tante fatiche era diventata un giardino. Ora ritorna sterpaglia, e lui ne piange la rovina. Gli sembra che gli alberi abbandonati gli dicano: “Se tu non torni prestu nui morimu”.
Poiché la vita è per se stessa sorgente di gioia ciò che dà senso al mondo. Dattilo ne conosce il mistero meraviglioso, e quando parla della “pirara hiuruta” è come se parlasse di una vita umana nella pienezza del suo splendore. La paragona alla fidanzata vestita di bianco, quando è fiorita, ed alla madre che si compiace dei figli, quando fa i frutti. Perfino la gatta si diverte a salire e a scendere dai suoi rami. Finchè l’ora della fine giunse e la “pirara” seccò: “Ora a gatta non cala e non chiana, / pari ca si perdìu na vita umana!”.

Mario LaCava

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