Piero Leone
FRANCESCO LA CAVALA DIMENSIONE/UOMO DI UNO SCIENZIATO UMANISTA CALABRESE DEL PRIMO NOVECENTO °°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°° Informatizzazione del testo a cura di Dora la Lumia – dicembre 2000 “ Verso gli ultimi di luglio Gésu caricò Mariuzza sull’asina, perché essa non era più in grado di far la sua via, e si recò a Bovalino Marina dove era da poco arrivato da Roma, per i bagni, il Professor La Cava. Prese con se due galletti e un panierino di frutta, perché dal medico e dall’avvocato in Calabria non si va mai con le mani vuote. Il dottore, un uomo sui quarantacinque anni, affabilissimo, bruno, tutto sbarbato, con un naso fine e delle piccole mani quasi femminee, li introdusse in una specie di gabinetto, ai piedi di una scala di cemento con ringhiera Sono venuto da voi, disse Gésu, col viso pallido come quello di un colpevole, perché mia moglie sta per perdere la vista. Siedi, ordinò il medico a Mariuzza, senza badare a quel che diceva suo marito; e dopo averle arrovesciate le palpebre ed esaminati gli occhi, diede uno sguardo severo alla impetigine sotto l’orecchio e a uno dei foruncoli pallidi che la donna aveva sopra il collo, quasi entro i capelli. Lo palpò, poi le passò le dita sotto le mascelle e diede un’occhiata terribile a Gèsu, senza profferire una sillaba Che sia la gravidanza, signor dottore? Disse Mariuzza, con la voce fievole e quasi vergognosa Dio non voglia – rispose il medico, e continuò nel suo esame. Perché, signor dottore ? – Chiese smarrita la donna. Una grande speranza dileguava, la dolce speranza che quei dolori fossero dovuti alla preparazione di un essere nuovo, di un figlio delle sue viscere. Quella idea fino allora l’aveva fatto soffrire rassegnata e quasi contenta. Senza di essa il male sarebbe stato più atroce e insopportabile Il medico, la invitò a spogliarsi. La povera ragazza piangeva per la vergogna, perché non si era mai sognata di farsi vedere nuda da un uomo che non fosse suo marito Il medico, accigliato, la redarguì: Davanti a quello spettacolo miserando di una carne giovane invasa dal terribile male, aveva perduta anche lui la sua bella calma socratica. Il ventre e il petto erano in parte chiazzati di focolai di piccole ulceri e di macchie colore del vino. Il medico la contemplò un istante, poi ordinò di vestirsi. Tu sei stato in America? – domandò il dottore a Gésu. Si, signor dottore… Da quanto tempo ti sei sposato? Dal mese di aprile… Sei stato malato mai in America? Qualche tempo, un anno fa. Poi mi rimisi completamente. Non hai fatta nessuna cura? No, signor dottore; adesso sto bene. Già, fece il dottore, con un sorriso ironico, stai bene tu e tua moglie. Quando avrò finito le visite passa da me, nel mio studio, ti darò la ricetta per la malata. Questo il ritratto di Francesco La Cava, datoci da Francesco Perri in “ Emigranti”. Francesco La Cava era nato a Careri il 26 maggio 1877 da Giuseppina Colacresi e Giuseppe La Cava, un massaro a corto d’istruzione ma ricco di ingegno, che con l’arguzia caratteristica delle persone semplici, come del resto altri in quell’epoca, era riuscito a percepire, più istintivamente che razionalmente, i rapidi cambiamenti socio – politici del tempo e a prevederne gli sviluppi anche di tipo economico. Allo status conferito dalla proprietà della terra, si sovrapponeva o si affiancava quello acquistato dalla professionalità, con un evidente salto di qualità. Perciò il giovane Francesco, primo di sei figli, venne affidato alle cure dello zio Rocco La Cava arciprete di Careri, il quale dopo avere curato personalmente l’istruzione primaria del nipote, lo inviò per continuare gli studi al Seminario Vescovile di Gerace, dove già riuscirà a mettersi in evidenza per notevole capacità ed impegno. Frequentò quindi il Liceo Maurolico di Messina, una scuola prestigiosa alla quale confluivano gli elementi più promettenti dell’area dello Stretto, ed in tale città conseguì la maturità classica nell’anno 1895. Si iscrisse poi in medicina all’università di Napoli, certamente in quell’epoca ed in tale facoltà, una delle più importanti d’Italia, potendo annoverare tra i docenti, studiosi di chiara fama quali Antonelli e Schòn. A Napoli Francesco sa cogliere ciò che di positivo può offrire la grande città, senza rimanere invischiato nelle mille tentazioni di evasione o nelle novità di comportamento, conscio anche del fatto che il vecchio massaro ha ancora cinque figli ai quali preparare un avvenire. E’ agli inizi del secolo che maggiormente comincia a manifestarsi in Francesco, prossimo alla laurea, quella attitudine a considerare la professione medica come una missione e a maturare il concetto medico–uomo-società che caratterizzerà e dimensionerà la sua personalità e il suo impegno durante tutta la vita. Nei periodi di vacanza a Careri, infatti, Francesco presta assistenza ai malati gratuitamente, perfettamente a suo agio nei catoi e nelle povere abitazioni dei contadini del paese, nelle quali spesso mancava non solo una sedia, ma perfino una bacinella decente in cui potersi lavare le mani al termine della visita. Questo rapporto medico/uomo – operaio/uomo, lavoro intellettuale – lavoro manuale, ambedue preziosi e dignitosi, si inserirà come caratteristica peculiare nella personalità del La Cava, personalità alimentata e surrogata da una profonda fede cristiana che ne qualificherà l’opera e l’esistenza, la prassi e l’impegno di vita intesa come presenza sociale e testimonianza etico–professionale. "Era incredibile, racconta ancora F. Perri, suo amico e parente, la fiducia che tutti fin da allora avevano per lui, tanto ch’egli doveva faticare non poco a persuadere la gente che non era ancora medico”. Francesco consegue la laurea nel 1902 col massimo dei voti e viene chiamato a collaborare nella ricerca medica dal prof. Cardarelli, ma deve rifiutare suo malgrado, vuoi perché le condizioni economiche non lo permettono, trovandosi impegnati negli studi anche i fratelli Rocco e Pasquale, vuoi perché abbastanza incomprensibile sarà apparsa agli occhi del vecchio massaro la volontà del medico che invece di svolgere la professione si fosse dato a continuare gli studi. Nel frattempo viene chiamato ad espletare il servizio di leva e si reca a Firenze dove trascorre tutto il periodo di ferma quale ufficiale medico del corpo dei bersaglieri. Tornato in Calabria, nel 1904 ottiene la condotta medica di Bovalino Marina. Si trasferisce pertanto in questa che sarà la sua città di adozione insieme al fratello Rocco, il quale si era già diplomato presso l’Istituto Magistrale di Messina e che sposerà nel 1907 Marianna Procopio A proposito di questo periodo iniziale, scrive Mario La Cava: “ Francesco La Cava si dedicò all’esercizio della professione in una regione depressa, resa ancora più misera dai problemi insorti con l’unificazione politica, dove mancava ogni ausilio ospedaliero, e dove il medico per necessità doveva essere sempre infermiere e chirurgo “. La condotta di Bovalino M. dà anche al giovane medico la possibilità di sviluppare nuove amicizie e di riprendere quelle della prima giovinezza allacciate all’epoca della sua permanenza a Gerace e Messina. Entra così in intimità con le famiglie Spagnolo, Lentini, Morisciano, col notaio Barletta, col dott. Santoro, anch’egli condotto a Bovalino e medico delle ferrovie, e varie altre persone, operai ed artigiani tra i quali vanno ricordati il padre di mastro Francesco Italiano e Francesco Panuzzo. Non frequentò mai il Circolo dei Civili, nemmeno dopo che si sarà sposato ed il circolo avrà sede al piano terra della sua casa. I giorni ed i mesi trascorrono assorbiti nel lavoro e nelle visite che settimanalmente fa a Careri presso il padre e gli altri familiari. Le lunghe passeggiate in compagnia dell’avvocato Spagnolo, lo portano sovente fino al ponte di S. Elena, che come scrive Marianna Procopio, era la meta finale, a principio di secolo, delle passeggiate pomeridiane delle signorine bovalinesi. E’ in tali occasioni di svago che conosce una bellissima ragazza bovalinese, Concettina Morisciano, appartenente ad una delle famiglie più note della zona, e sboccia un amore che per dolcezza e fedeltà sarà destinato a incidere profondamente nella vita del La Cava ed a plasmarne ulteriormente la personalità. Concetta è una ragazza virtuosa e colta, animata da una profonda fede religiosa, e, per come ci viene tramandata la sua figura, caratterizzata da una forte personalità; la sua umiltà contrasta non poco con la naturale alterigia delle sue compagne appartenenti alla “ nobiltà “ dell’epoca, e la sua eleganza è raffinata ma sobria. La successiva richiesta di fidanzamento viene ben accolta dalla famiglia Morisciano che nutre per il giovane medico una stima sincera sia dal punto di vista professionale che personale. Il matrimonio viene celebrato il 30 giugno 1907. Sulla vita coniugale, scrive ancora F. Perri che “ Fu l’unione di due vite che si concludono come una splendida giornata di sole con un sereno e luminoso tramonto”. La loro casa divenne un salotto intellettuale ed un ritrovo per quanti si interessavano di arte, musica, letteratura e medicina. Gli amici, oltre che da Bovalino, giungevano da Locri, Ardore, Bruzzano, Ferruzzano e perfino da Melito; di questi anni infatti le relazioni che intratterrà duraturamente con l’avv. Scaglione di Locri, con il farmacista socialista Giuseppe Sculli di Ferruzzano, col console Spanò di Ardore, con Francesco D’Aguì di Bruzzano, e con il dott. Tiberio Evoli di Melito, che successivamente, quando gli verrà intitolato l’ospedale del proprio paese, rifiuterà qualsiasi relatore che non fosse stato Francesco La Cava. La personalità del La Cava appare da un punto di vista etico di formazione cristiana, e dal punto di vista scientifico rigorosamente positivista. Questa distinzione è importante per comprendere meglio quelli che saranno i suoi campi di applicazione come studioso e cultore d’esegetica, come scienziato ricercatore, come “ archeologo” della pittura. Nonostante la posizione preminente in paese e la formazione culturale testé accennata, rifiutò sempre di occuparsi di politica attiva, anche per non essere coinvolto nelle beghe politiche locali, e intrattenne rapporti culturali con uomini della più varia formazione politica, stimato per la sua lealtà e l'acume intellettuale. La condotta di Bovalino, la vita coniugale sufficientemente serena e agiata, le frequenti e numerose occasioni di relazione, non riuscirono però a distogliere il La Cava dai giovanili “ appetiti “ di ricerca, cioè dalla attitudine ad indagare sulla ragione delle cose, dalla tendenza alla riflessione critica, all’esame per metodi comparativi, in poche parole dalla volontà di intendere e di gestire la professione secondo dinamiche metodologiche di indirizzo positivista. Nei pochi scritti biografici sul La Cava, esistono chiare descrizioni sui metodi scientifici d’indagine in campo medico; in campo artistico la scoperta del volto di Michelangelo viene trattata quale “ rivelazione”, dando a questa parola che si trova nello scritto autobiografico del Nostro il significato di “ incidens”, in altre parole quale scoperta fortuita da parte di un cultore d’arte. Non si indaga inoltre sulle possibili correlazioni tra i due campi di applicazione del La Cava, quello scientifico e quello artistico. E riteniamo che ciò sia avvenuto perché l’indagine è stata condotta settorialmente e l’anamnesi personale ha cercato di volta in volta di evidenziare l’uomo scienziato, l’uomo critico d’arte, l’uomo cultore di patristica ed esegesi cristiana, mai l’uomo La Cava nella totalità della sua personalità, della sua formazione psicologica, scientifica ed umanistica, nella correlazione dei più diversi fattori che hanno concorso a formarla, con un metodo di indagine di tipo strutturalista che perviene alla visione di un insieme dinamico attraverso l’analisi correlativa di tutti quei fattori o rapporti che determinano la struttura stessa. Sono state scritte delle ottime pagine da parte di eminenti personalità sul “come” Francesco La Cava abbia portato a termine certe scoperte, ma poco o niente si è indagato sui perché di quelle scoperte, cioè sui fattori che hanno concorso a determinarle. E se è vero che uno dei fattori principali è dato dalla acquisizione di una metodologia scientifica, è altrettanto vero che egli si porta appresso, riteniamo consapevolmente, un suo bagaglio culturale di “ tradizione” , attraverso il quale riesce naturalmente ad osservare la realtà con l’occhio del contadino o del pastore, con quella capacità, peculiare dell’uomo dei grandi spazi, i cui sensi non sono ancora stati atrofizzati dalla vita urbana, attraverso la quale viene facile ed oserei dire naturale cogliere rapidamente il particolare nella totalità, osservare ed analizzare le caratteristiche di detto particolare e risalire quindi all ‘ insieme attraverso la ricomposizione razionale e sistematica di tutti i rapporti alla struttura. E’ proprio in conseguenza di quanto ora affermato, che il La Cava, avendo avuto in cura un giovane bovalinese di 19 anni, di professione scalpellino, e che da circa quattro mesi presentava un’intumescenza a forma di bottone all’altezza dell’articolazione del pugno destro, e che diagnostica con certezza quale “ bottone d’Aleppo “, viene assalito dal dubbio che alcune affermazioni morbose caratteristiche del Nord Africa siano presenti in Calabria e in Sicilia in maniera autonoma. Egli individuò così e catalogò nel comprensorio bovalinese circa duecento casi di malattie tropicali. Fu questo un periodo molto importante perché non solo egli riuscì a curare tali manifestazioni morbose, mai registrate in Europa, ma per la peculiarità della sua personalità testé delineata, si pose ed affrontò il problema pure a livello teorico, divulgando le sue esperienze su riviste mediche e in congressi di una certa importanza. Dei circa duecento casi catalogati nella zona, molti erano stati curati dai medici di allora come casi di malaria con la conseguente somministrazione di chinino. Egli riuscì a dimostrare che molti di quei casi erano dovuti in realtà alla diffusione di quella stessa Leishmania, e cioè il Kala-azar. Ottenne così mediante una terapia specifica la riduzione sensibile della mortalità dei suoi malati, ed il “ coccio calloso” non più causticato ma adeguatamente curato, non deturpò più la fisionomia dei suoi paesani. Gli anni tra il 1910 e l’inizio della prima guerra mondiale registrano un impegno non comune in queste ricerche, peraltro coronate non solo da successi ma anche da riconoscimenti unanimi anche a livello internazionale. Nel 1910 La Cava descrive un caso di febbre Dengue, ed in collaborazione col prof. Gabbi, docente di malattie tropicali all’università di Roma , alcuni casi clinici di “ Bottone d’Oriente “ o Leishmaniosi cutanea, scoperti a Bovalino, accompagnati da un accurato studio istologico. Nel dicembre dello stesso anno, presenta al Congresso di Medicina Interna di Messina un lavoro intitolato:" LE MALATTIE TROPICALI A BOVALINO “ che riassume tutti gli studi teorici e pratici compiuti fino a quel momento. Nel 1911, G. B. Grassi, direttore dell’istituto di Anatomia Comparata dell’università di Roma, presenta all’Accademia dei Lincei uno studio di Francesco La Cava, pubblicato nel maggio dello stesso anno col titolo:” SULLA PRESENZA DI LEISHMANIE NEL LIQUIDO CEFALO – RACHIDIANO DI UN BAMBINO AFFETTO DA KALA- AZAR”. Anche questa scoperta, che gli varrà poi la massima onorificenza, e cioè la docenza in patologia tropicale concessagli ad honorem, scaturisce dalla immediatezza con la quale riusciva a cogliere particolari, a prima vista giudicabili insignificanti da altri, in maniera tale da non venire recepiti, a definirli e classificarli, fino ad arrivare, per i vari livelli, alla loro comprensione organica. Scrive infatti Francesco La Cava:” Il caso di cui riferisco riguarda un bambino di quattro anni, Rocca Vincenzo da Benestare, presso Bovalino; questo bimbo era figlio di contadini, i quali da molti anni abitano una casa spaziosa, salubre, posta in Benestare, sopra un colle, ove è circondata da verdi piantagioni; nelle vicinanze è frequentissimo il Bottone d’Oriente e non sono rari i casi di Kala-azar. In questa casa notammo la presenza di una cagna adulta, e di due giovani cani , tutti e tre molto magri. Sulla presenza di questi cani noi richiamiamo subito l’attenzione, perché appunto alla cagna è legato un momento importante dell’inizio della malattia del bambino. Questa cagna trovavasi nella famiglia da oltre sei anni, quindi circa due anni prima che nascesse il bambino. I genitori di questo dichiararono che circa sei mesi prima che il loro figliolo si ammalasse, la cagna della quale, fino allora, non avevano notato alcun che di insolito, cominciò a dimagrire e rifiutò sovente il cibo. Essi genitori aggiunsero anche, che, altri cani tenuti in casa in quel periodo di tempo, son morti con sintomi di cachessia. La cagna fu da noi sacrificata: L’esame dei preparati per strisciamento del fegato, della milza e del midollo ha messo in evidenza i parassiti di Leishman. Con questa nostra ricerca viene accertata la esistenza della Leishmaniosi nel cane, sulla costa Ionica della Calabria, e perciò viene dimostrato sempre più come la Leishmaniosi canina si accompagna alla Leishmaniosi umana: anzi, da quanto sopra esposto, parrebbe risultare che in questo caso la infezione nel cane abbia rappresentato un momento importante nella genesi della malattia del bambino. Quest’ultimo fatto è da mettere in rapporto altre osservazioni da noi stessi fatte a Bordonaro e alle Isole Eolie, dove fu consigliato di distruggere tutti i cani dimagrati, e dove all’agosto del 1910 non si è più verificato alcun nuovo caso di Leishmaniosi umana. Ma oltre che ai cani, anche agli insetti che avevano potuto o potevano pungere l’infermo di cui trattiamo, noi abbiamo rivolto la nostra attenzione, e date le condizioni di ambiente, date le notizie forniteci dai genitori, abbiamo creduto necessario scegliere per la nostra ricerca le pulci che si potevano raccattare nelle coltri e nel materasso deve giaceva l’infermo agonizzante. Queste pulci erano tutte del tipo “ irritans “; ogni pulce venne osservata al microscopio per riconoscerne la specie. La faticosa ricerca, fatta il 31 maggio su 100 pulci, non mise in evidenza, all’esame microscopico a fresco, la presenza di parassiti flagellati e mobili. L’indomani estendemmo la ricerca ad altre 100 pulci ancora, dall’intestino di ognuna delle quali fu allestito un preparato per strisciamento che fu quindi fissato e colorato al Giemsa; in due di esse abbiamo rinvenuto delle tipiche leishmanie piriformi ed allungate. La ricerca venne estesa anche a 200 pulci prelevate da cani ed anche in queste furono rinvenute delle Leishmanie”. Il La Cava curò dapprima il bambino a Bovalino, dove egli, notando la scomparsa di Leishmanie nella milza del piccolo paziente e la comparsa di sintomi neurologici , praticava una puntura lombare repertando nel liquido cefalo – rachidiano moltissime Leishmanie; riteneva perciò utile richiamare l’attenzione su questo importante reperto in quanto poteva costituire un metodo diagnostico di grande valore. Il bambino venne quindi ricoverato presso la Clinica Medica di Roma nella sezione di malattie tropicali, diretta dal prof. Gabbi, e dalla quale venne dimesso dopo circa 20 giorni, e tornato nella casa paterna presentò un continuo aggravarsi di tutti i sintomi morbosi, fino a giungere alla morte il 5 giugno Millenovecentoundici . Nel riscontro autoptico del povero piccolo si scoperse che al quadro clinico ed anatomico – patologico del Kala–azar si doveva in questo caso anche l’alterazione delle meningi molli: era cioè presente una leptomeningite. Che si trattasse di un caso di Leishmaniosi era stato documentato durante la malattia dal reperto delle Leishmanie nel materiale raccolto con la puntura della milza fatta prima del ricovero a Roma dal Prof. La Cava. Durante il ricovero l’esperimento era stato ripetuto dal Prof. Visentini : Il succo splenico fu innestato su un terreno di coltura e si ottenne lo sviluppo del parassita, come venne poi comunicato alla Accademia dei Lincei. Possiamo adesso affermare che a questo punto una delle scoperte mediche più importanti del primo Novecento era venuta alla luce. Gli ultimi risultati, ottenuti con la collaborazione dei Proff. Basile e Visentini vennero pubblicati coi titoli : “sopra un caso di Leptomeningite da Leisihmania “ e “Sull’identità della Leshmaniosi”. Il prof. Gabbi, il quale oltre che come collaboratore prezioso fu anche legato al La Cava da una profonda amicizia, s’interessò quindi presso il dott. Laveran, dell’Institut Pasteur di Parigi, direttore del “ Bulletin de la Sociètè de Pathologie Exotique “per la pubblicazione degli studi dello scienziato bovalinese , che vennero pubblicati col titolo :” De Laleishmaniose des muqueuses et de la premiere decouverte de la leishmania tropica flagellee dans le corps humain “ . Quindi lo stesso Gabbi propose Francesco La Cava per la libera docenza in Patologia Tropicale alla Università di Roma. Per mezzo di questa scoperta infatti, comunicata attraverso la stampa medica mondiale, crollò la tesi dell’endemicità di alcune malattie tropicali e molti casi poterono essere individuati non solo nelle regioni italiane, ma anche in zone più lontane del continente europeo. L’acquistata notorietà in campo internazionale non turba però il nostro La Cava, non ne frena lo slancio all’indagine scientifica né lo porta a rilassamenti gratificanti verso se stesso. Per il medico della piccola condotta di Bovalino la cosa più importante continua ad essere la salute dei concittadini, ed ogni sforzo tende non alla auto soddisfazione personalistica ma al soddisfacimento della richiesta di salute sociale. In altri campi della patologia Francesco La Cava applicò nuovissime conoscenze, e precisamente nella cura della Amebiasi intestinale e dell' ascesso epatico intestinale. La sindrome dissenterica, scrive La Cava, è dovuta a “ cause etiologiche diverse, in base alle quali più di dieci forme vengono distinte….. tra queste la più importante per la sua gravità, e per le svariatissime complicazioni spesso mortali, è la dissenteria dovuta alla entamoeba histolitica”. La dissenteria da amebe è diffusissima in tutti i climi tropicali; ma ora con una certa frequenza si riscontra anche in Europa tra i rimpatriati dalle colonie, ed anche tra quelli che hanno sempre vissuto nel luogo natio. Il primo caso realmente grave, di cui gli capita di occuparsi , è infatti proprio quello di un colono rimpatriato, e precisamente di Ettore Badolato, di 26 anni, insegnante elementare, di Bovalino. Egli recatosi a Souse, in Tunisia nell’ottobre 1909 per insegnare nelle scuole italiane, viene colto dopo circa tre mesi dai sintomi della malattia. I medici del luogo gli somministrano varie medicine senza alcun esito. Nel 1910 è costretto a tornare in patria, già ridotto in uno stato impressionante. Giunto a Bovalino, e affidatosi alle cure del dott. La Cava, questi pensa alla possibilità che la dissenteria possa dipendere dalla amebe, e pratica l’esame microscopico delle feci, esame che conferma trattarsi di dissenteria amebica. Il dott. La Cava prescrive all’ammalato tutti i migliori farmaci conosciuti, ma con scarsi risultati . Si congiunge così fino al 1913, anno in cui il La Cava sempre attento alle innovazioni in campo terapeutico, viene a sapere attraverso la rivista “ Semaine Médicale” che il dott. Rogers, studioso inglese di patologia tropicale aveva individuato la terapia delle amebiasi mediante il cloridrato di emetina. Il La Cava pensa subito di applicare tale metodo al suo infermo, il quale volentieri accetta di sperimentarlo su se stesso. Poiché in Italia non esisteva ancora il cloridrato di emetina, egli si rivolge allo stesso Rogers che si trova a Calcutta, e questi gentilmente gliene invia mezzo grammo. Il nostro dottore inizia la cura in modo tale da potere studiare se il farmaco produce effetti secondari e procede con cautela compiendo accurati accertamenti di laboratorio ogni 24 ore, e dandone una minuziosa descrizione. Il 27 marzo dello stesso anno l’insegnante Ettore Badolato era guarito. I risultati della esperienza furono pubblicati nella rivista scientifica “ Pathologica”, il 15 luglio 1913, col titolo: “ La chemioterapia della dissenteria amebica”. In esso veniva fatta una storia della malattia, illustrandone il decorso e i diversi metodi terapeutici; poi passava a descrivere la nuova scoperta. Infine, illustrati due casi di dissenteria da egli stesso curati, passava alle conclusioni affermando che nei sali di emetina si ritrovano le qualità essenziali dei preparati chemioterapici. Per due anni, dal 1913 al 1914, Francesco La Cava fu invitato dalla Società Medico – Chirurgica di Pavia a tenere delle conferenze sugli studi che aveva condotto, spesso elogiato da insigni studiosi, come il Prof. Golgi. In questi anni egli descrive casi di ulcera tropicale, di myasi oculare, di beri beri autoctono nell’Italia Meridionale, ed un pregevole studio col titolo: “ LA LEBBRA A BOVALINO” pubblicato nel giugno 1914. Rileggendo una lettera che il La Cava scrisse alla moglie il 30 aprile 1913, ci troviamo di fronte, al di là della ufficialità delle conferenze, alla semplice gioia di un uomo per i progressi scientifici raggiunti. Egli infatti così si esprime: “ Io povero me! Avevo una grande paura. Ma invece figurati che quando ho finito di leggere la conferenza e di fare le proiezioni cinematografiche dei preparati e dei malati, scoppiò un grande applauso. Batteva le mani anche il senatore Golgi, il quale poi prese la parola e mi rivolse tali e tante lodi e in modo così sentito, che io ne sono rimasto vivamente commosso. Tra le altre cose mi espresse i sensi della sua ammirazione. Figurati un po’ il senatore Golgi che ammira tuo marito…Io ho subito pensato a te che sei la mia buona stella..”. Ma il ciclo ininterrotto delle grandi scoperte mediche, la serena vita coniugale allietata già da due figli, subiranno una brusca interruzione a causa di eventi storici che per quattro lunghi anni sconvolgeranno la vita italiana. A dicembre del 1914 infatti il dott. La Cava viene richiamato alle armi. Per alcuni mesi presta servizio a Gerace, poi a maggio del 1915 parte per il fronte. La partenza lascia nella costernazione la moglie, i familiari e quanti gli erano vicini, sia amici che pazienti; egli infatti si era reso insostituibile come medico, e questa affermazione non è retorica ma testimoniata dal fatto che successivamente nel 1917 i cittadini sottoscriveranno una petizione al governo perché faccia rientrare in paese il medico della costa ionica, richiesta che però non avrà esito. Dunque la signora Concetta rimane sola con i due figli nella splendida dimora ormai vuota di Bovalino, che il dottore aveva fatto ricostruire sui resti di palazzo Morisciano danneggiato dal terremoto del 1908, e del quale, a testimonianza dell’antico splendore, rimane ancora oggi la facciata lato mare del primo piano. Concetta era una di quelle creature nate solo per donare amore e riversare affetto sui propri cari; l’assenza del marito le portava via gran parte del suo mondo, solamente confortata dalla fede e dal mutato ruolo, per dover essere adesso contemporaneamente padre e madre per i propri figli. Il grande pianoforte del salone dei ricevimenti rimaneva adesso muto, e così anche l’androne prima affollato ogni mattina dagli infermi provenienti da tutta la fascia ionica. Nei momenti più tristi Concetta affida i suoi pensieri a un diario: “ 26 maggio 1915 : Suo compleanno. Tutti gli anni era festa solenne per noi. E quest’anno ? Che solitudine! Che malinconia! Non ricevo sue notizie. Non gli posso telegrafare gli auguri e non poso sapere dove si trova. Mentre ero addolorata mi arriva un telegramma del giorno prima. Un momento di gioia fino alla sera, quando mi si disse che non si può sapere dove si trovava. Il mio cuore palpita forte..” Ancora un altro foglio di diario: “ 12 agosto 1915 : Ricevo una cartolina illustrata scritta con belle e affettuose parole. Quello che più ho accettato è stato un petalo di rosa rossa, che terrò custodito gelosamente. L’ho assai gradito. Signore mandate la pace. Dateci la vera pace, altrimenti siamo perduti”. I suoi pensieri appaiono di una semplicità meravigliosa e difficilmente ci si accorge che riguardano una casalinga senza alcuna presunzione letteraria; la prosa presenta la musicalità e la brevità di una certa lirica greca, e rappresenta una testimonianza di semplicità e nello stesso tempo di delicatezza e profondità d’amore. Ma Francesco si è portato in guerra qualcosa che non lo lascia in pace in nessun modo, nemmeno tra le fucilate e gli ospedali da campo: L’antico, irrefrenabile amore per la ricerca scientifica. E lì egli trova il tempo per dedicarsi allo studio della “ Filaria Brancrofti “, di cui aveva rilevato un caso visitando un contadino del trevisano. Anche in tale occasione riesce a pubblicare uno studio dal titolo: “IL PRIMO CASO AUTOCTONO IN EUROPA DA ELEFANTIASI DA FILARIA BANCROFTI CON ADONOLINFOCELE E LINFOSCROTO, UN CASO DI FILARIOSI IN PROVINCIA DI TREVISO”. Alla fine del 1917, Francesco La Cava, promosso maggiore, viene trasferito a Roma come direttore dell’ospedale di riserva “ Aurelio Saffi “. Stabilitosi nella capitale, il primo pensiero è quello di far venire su la famiglia, e si stabilisce in una piccola casa d’affitto. I primi tempi risultano abbastanza difficili, perché da un piccolo e tranquillo ambiente meridionale veniva a trovarsi immerso nella vita intensa e caotica della grande città. Come capita tutt’oggi ai nostri immigrati al Nord, le prime amicizie le fa tra i numerosi conterranei residenti a Roma, tra i quali va ricordato innanzi tutto il giudice Dr. Occhiuto, di Reggio Calabria, che all’epoca del delitto Matteotti vorrà incriminare Mussolini e che per tale motivo verrà cacciato dal posto. Tra il 1917 ed il 1918, durante la terribile epidemia di “spagnola", egli si prodiga giorno e notte nella cura dei malati, spesso senza alcun compenso. Nonostante le scoperte scientifiche, le amicizie con medici illustri e la libera docenza all’Università, egli rimane di una indicibile modestia. E dedica anche molto tempo ai figli, curandone l’istruzione e l'educazione, e insieme ad essi fa ginnastica ogni mattina. Pur essendo in quel tempo ancora di idee liberali e moderatamente anticlericale, riconosceva e rispettava la fede religiosa della moglie. Terminato il periodo di servizio all’Aurelio Saffi, fu chiamato a far parte più tardi della Commissione delle pensioni di guerra. Ogni anno i La cava, durante l’estate, tornavano al Sud per rivedere parenti e amici e per trascorrervi le vacanze estive. Tali viaggi si svolgevano in un clima di avventura, su vecchi treni permeati di fuliggine che quasi rendevano irriconoscibili i volti dei viaggiatori alla fine di così lunghi viaggi; tuttavia i disagi valevano bene il periodo di vacanza che il luogo offriva loro. La dimora di Bovalino era L’orgoglio del Dott. La Cava: Era un tipico palazzo meridionale nella piazza del paese, alla fine della strada nazionale che, attraverso l’Aspromonte, parte da Bovalino per raggiungere Bagnara; il palazzo aveva un cortile che continuava verso monte con un giardino di agrumi e piante ornamentali. Nei periodi di vacanza, Francesco La Cava continuava a svolgere la professione medica, e nel tempo libero si dedicava alla lettura, rifugiandosi sulla parte più alta del palazzo, su una specie di belvedere che egli aveva fatto costruire appositamente per potere ammirare , come soleva dire, il mare da una parte e il monte dall’altra. Tra il 1922 e il 1925 con la “ marcia su Roma “ e l’avvento del fascismo, venne delineandosi sempre più il vero volto del regime, e per La Cava che aveva sempre provato orrore per ogni forma di odio e di violenza, come per ogni forma di enfasi e di retorica cominciò quell’atteggiamento antifascista, di cui non fece professione attiva, ma che per tutta la vita non abbandonò mai. In quell’epoca, insieme a comuni amici intellettuali ed al giudice Occhiuto già citato, diede testimonianza di coerenza e di coraggio, andando a rendere omaggio a Matteotti sul luogo del vile agguato fascista. L’attività di quegli anni fu molto intensa, e tra la sua clientela, aumentata di molto, si annoverarono anche nomi illustri come Pietro Mascagni, Francesco Cilea, l’artista Vincenzo Gemito, definito dai giornali dell'epoca come il più grande violinista del mondo, ed Ernesto Bonaiuti, il grande storico perseguitato. La profonda cultura umanistica, la buona conoscenza delle lingue antiche, unite all’amore per l’arte, spingevano spesso il Professore a visitare musei e gallerie, per approfondire con minuziosità i problemi più svariati. Durante una sua visita alla Cappella Sistina, nel maggio del 1923, mentre si accingeva a studiare con tranquillità il “ Giudizio Finale”, di colpo gli si presentò il volto di Michelangelo, piccolissimo particolare nello immenso dipinto, raffigurato tra le pieghe della pelle di S.Bartolomeo. La Cava così descrive l’inattesa apparizione: “ Imprendendo ora lo studio della composizione partitamente nei suoi vari personaggi, vidi a un tratto la figura di Michelangelo che mi guardava… Un brivido mi corse per la schiena. Era proprio lui!…Da quel giorno si iniziò per me un vero tormento spirituale. Il volto dolorante mi accompagnò nelle giornate laboriose, nelle notti insonni. Dubbi angosciosi, ricerche febbrili sulla vita e sulle opere di lui, mi occuparono per quasi due anni, durante i quali, sperando di trovare qualche traccia che chiarisse il mistero, custodii gelosamente nel mio cuore il segreto di quel volto amato, sintesi ed emblema della tragedia dell’anima di Michelangelo”. A proposito di questo studio di psicologia dell’arte, appare molto significativo quanto dice lo scrittore Mario La Cava: "“Michelangelo è stato l'artista sommo che più lo abbia affascinato. Verosimilmente s'interessò più del suo messaggio, come fu per Freud, che della sua arte. Nel 1913 Freud aveva meditato sulla figura di Mosè, saldo nella sua potenza, vittoriosa del suo stesso furore contro l’umanità colpevole. Dieci anni dopo Francesco La Cava scopre nella pelle di S. Bartolomeo, scorticato vivo, il volto corrucciato e dolorante di Michelangelo, che lo guarda dal fondo del “Giudizio Universale”. L’autoritratto michelangiolesco era sfuggito per quattro secoli all’osservazione attenta di schiere di studiosi ed artisti di tutto il mondo, ed era la dimostrazione figurata del dramma psicologico del genio. Il biennio 1923-1925 fu completamente assorbito dagli studi sul grande artista. Studiò e analizzò con meticolosità e pazienza certosina tutto ciò che era stato prodotto da e su Michelangelo, ne tracciò il profilo psicologico, frugò nei versi dei sonetti del genio, e nei carteggi esistenti, per trovare una spiegazione all’autoritratto. Frequentò assiduamente la Biblioteca Hertziana diretta allora dal professor Ernst Steinmann, il massimo studioso di Michelangelo. “Lo studioso tedesco, scrive Francesco La Cava non volle, per quanto io lo pregassi, conoscere il mio segreto, se non dopo la pubblicazione, avvertendomi però con tutta gravità sul pericolo di prendere abbaglio”. Nel marzo del 1925, in occasione del 450° anniversario della nascita di Michelangelo, La Cava pubblica i risultati dei suoi studi in un libretto, oggi rarissimo, e gentilmente concessoci dal nipote dott. Giuseppe De Sandro, edito da Zanichelli, col titolo: “ IL VOLTO DI MICHELANGELO SCOPERTO NEL GIUDIZIO FINALE” Il libro ha un duplice pregio: Quello di rivelare Francesco La Cava scrittore oltre che “ archeologo” dell’arte. Al di là infatti di ogni positivo giudizio sul contenuto dell’opera, ci colpisce la splendida prosa in uno stile limpido e conciso; la lettura riesce molto piacevole, non trovando ostacoli in parafrasi, argomentazioni oscure, ripetizioni e noiosi paragoni. Il 19 maggio 1925, il La Cava depone la prima copia del libro sulla scrivania dello Steinmann temporaneamente assente, consapevole che la sorte critica dello studio dipendeva quasi interamente dal giudizio autorevole dello studioso tedesco. La risposta giunge con una lettera che fa onore ad entrambi. Lo Steinmann aderiva non solo alla tesi ma anche alla forma stilistica in cui il Nostro l’aveva espressa. Cito testualmente un brano della lettera: “ Non si vede che lo scrivere non è l’arte sua. Forse il libro si legge così bene perché tutto è sentito. E mi pare anche che l’anima sua è stata molto vicina all’anima del suo Grande Amico”. E più avanti così si esprime: “ Lei ha dato con questa scoperta un contributo impareggiabile alla storia dell’animo di Michelangelo. Capisco bene le sue trepidazioni, ma anche la immensa gioia che deve aver provato, avendo veduto per primo, quello che nessuno aveva veduto in quattro secoli “. In occasione delle celebrazioni romane dello scorso anno, affermerà a questo proposito, Deodecio De Campos, direttore dei Musei Vaticani: “ Tutti hanno guardato, egli ha veduto “. La notizia della scoperta riecheggiò sulla stampa di tutto il mondo e fu generalmente convalidata dai maggiori studiosi. Anche il biografo di Michelangelo, il francese Romain Rolland, scrisse una lettera al nostro La Cava nel maggio del 1927, nella quale esprimeva tutta la sua meraviglia per una simile scoperta, alla quale egli non era pervenuto. Attorno agli anni trenta, nonostante la numerosa clientela e gli impegni universitari, il Prof. La Cava trova sempre il tempo da dedicare allo studio e alla lettura. In questi anni avviene in lui un graduale riavvicinamento alla pratica religiosa; può meglio dedicarsi alla meditazione e questa rinnovata spiritualità lo porta ad affrontare una serie di studi scientifico-religiosi sul meccanismo della morte per crocefissione. Il ricercatore infaticabile offre questo studio alla meditazione del mondo cattolico, dimostrando scientificamente in una serie di pubblicazioni, che verranno poi raccolte in volume nel 1953, che non si trattava di un miracolo divino, ma di una conferma della perfetta natura umana del Cristo che sulla croce morì come un qualsiasi uomo sano e normale. In questi anni il Professore comincia anche a tenere corsi regolari sulle malattie tropicali presso la Scuola Missionaria dell’Ordine di Malta, e diviene anche perito della Sacra Rota. La sua casa sempre aperta agli amici, fu animata dalla figura del gesuita Padre Gaetani, originario di Catanzaro e cugino della moglie dell’ ing. Raffaele . Profonda fu anche la sua amicizia con Ernesto Bonaiuti del quale apprezzava le idee e ammirava la personalità, ed anche dopo che questi era stato scomunicato, lo invitò a Bovalino a trascorrervi un periodo di studio e di vacanza. Tenendo presente la profonda sensibilità del La Cava, il suo amore per la verità, si comprende perché egli nel 1934 diede alle stampe un’ opera dal titolo “ UT VIDENTES NON VIDEANT “ in cui affronta lo spinoso problema della funzione delle parabole, prendendo l’avvio da un’analisi filologica del testo evangelico; opera seguita nel 1937 da altri due studi di filologia esegetica:” L’ INA CAUSALE NEL NUOVO TESTAMENTO” e “LETTERA DI S. ISIDORO PELUSIOTA “. Altri studi si susseguono fino a 1944. Tra il 1946 e il 1952 il Prof. La Cava combatte con coraggio contro il male incurabile che aveva colpito la moglie, che fatalmente gli viene a mancare il 23 aprile 1952. Con fermezza e rassegnazione si abituò al vuoto incolmabile che la sua compagna aveva lasciato e accettò con tranquillità il naturale declino della vita. L’esistenza del medico condotto di Bovalino volge serenamente al tramonto. Alla vigilia del suo ottantunesimo anno egli muore improvvisamente di fronte al presidente del seggio elettorale di via campo Marzio a Roma, mentre è intento a compiere il suo dovere di elettore, la notizia della sua scomparsa viene riportata su tutti i giornali, che tornano a parlare delle sue opere e della sua figura. Si chiude con la sua morte una delle pagine più interessanti della storia della storia scientifica calabrese del primo Novecento, e cala il silenzio anche su Bovalino, cioè su quel piccolo comune della Locride che tramite il grande medico aveva acquistato notorietà e risonanza, spesso portato agli onori della cronaca scientifica nazionale ed internazionale per essere stato luogo e sede degli esperimenti e delle ricerche più importanti del La Cava. Il Sud, il luogo dove aveva lasciato un ricordo indelebile per la sua attività, si preparò ad accogliere degnamente le sue spoglie, che giunsero insieme a quelle della moglie, nel novembre 1958. Careri, il piccolo paese deve Francesco La Cava nacque e trascorse la prima giovinezza, gli rese omaggio intitolando al suo nome la piazza principale e la Scuola media. La città di Roma ne celebrò lo scorso anno il centenario della nascita con solenni manifestazioni. Il 24 aprile 1978, Bovalino Marina, la cittadina che egli amò smisuratamente ed alla quale sono legate le più importanti scoperte dello scienziato calabrese, gli tributa gli onori dovuti, commemorandone il Centenario della nascita ed intitolandogli uno dei più bei viali della sua zona residenziale. ------------------------------------------ |
BIBLIOGRAFIA | |
AA. VV. Un medico alla ricerca della verità. Ed. Minerva Medica, 1977 | |
De Campos D.R. Scoprì il volto di Michelangelo. | |
Girolami, M. Scienza, cultura, personalità di un medico d’eccezione. Orizzonte Medico, n.5/6, 1977 | |
La Cava,Francesco Il volto di Michelangelo scoperto nel Giudizio finale. Ed. Zanichelli, 1925 | |
Le malattie tropicali a Bovalino. Atti congr. Soc. med. Int. Dic. 1910 | |
La lebbra a Bovalino. Atti soc. It. Cult. Mal. Esot. Giu. 1914 | |
La Cava, Mario Un medico d’altri tempi. Inedito Caratteri. Ed. Einaudi, 1953 | |
Perri, Francesco Emigranti. Ed. Lerici, 1976 Epistolario. Inedito | |
Procopio, Marianna Diario e altri scritti Ed. Rebellato, 1962 | |
. | |
FONTI ORALI | |
De Sandro, Giuseppe Farmacista Bovalino | |
La Cava, Mario Scrittore Bovalino | |
Panuzzo, Francesco Imprenditore Bovalino | |
Perri, Vincenzo Sindaco Careri | |
Procopio, Rosario Preside Scuola Media Careri |