La leggenda di Suor Maria Cecilia
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Capitolo 1
I l convento, dove dicemmo, non esiste più. Quel luogo, per molti anni fu la passeggiata preferita quasi di tutti, specie nei pomeriggi domenicali e festivi . Per molto tempo rimase quasi intatto il grande cortile dove i monaci andavano a trascorrere le ore di riposo, a leggere e meditare. Questo cortile era circondato di archi e colonne di pietra con intorno comodi sedili. Aveva nel centro un pozzo pieno di acqua freschissima. Il cortile guardato a distanza sembrava il Colosseo come lo vediamo fotografato sui libri e sulle cartoline illustrate. Spesso anch’io sostai in quel luogo solo e in compagnia di amici. Quando si andava li non c’era voglia di divertimento, ne di far chiasso; non so perché ma anche distrutto invitava alla preghiera e al raccoglimento. Quello però che attirava di più, quello che spingeva a pregare era la chiesa, distrutta dove ancora si vedevano gli altari e tanti sepolcri. A sinistra di chi entrava c’era l’altare di S. Francesco e, di fronte ad esso , sul pavimento una grande lapide di marmo con uno stemma gentilizio: due aquile ad ali spiegate che reggevano una corona. Sulla lapide c’era scritto una lunga epigrafe latina impossibile a leggersi perché su di essa c’era molto materiale caduto dal tetto. Presso l’altare, del lato del Vangelo, a circa venti centimetri del pavimento, c’era una piccola lapide di colore marrone, di forma rettangolare, con su scritta una epigrafe latina, a caratteri bianchi, che tradotta in italiano suona così: “QUI GIACE LA SERVA DI DIO SUOR MARIA CECILIA. RIPOSI NELLA PACE DEL SIGNORE. A.D. 1672 “ Questa lapide attirò la mia attenzione. Mi domandavo perché una suora sepolta in un convento di frati ? di dove fu portata se per quanto sappiamo – a Bovalino conventi di suore non c’erano ? questi due interrogativi restano senza risposta per molto tempo perché avendo interrogato gli uomini più vecchi, nessuno seppe dirmi nulla in proposito. Un pomeriggio domenicale di agosto – non ricordo più l’anno- facendo la mia solita passeggiata, con la posta al convento, mi recai nella chiesa e trovai seduto in una pietra, di fronte alla lapide che mi interessava, mastro Giuseppe Marrapodi che pregava con la corona in mano. Lo lasciai pregare e poi mi avvicinai rispettosamente per chiedergli se sapeva qualche cosa intorno alla suora che riposava sotto quella lapide. Mi rispose così: Non si tratta propriamente di una suora, ma di una santa donna, nobildonna, che si fece chiamare così. Io conosco la storia, e se vi piace ve la racconterò. A me la narrò un santo sacerdote (non mi disse il nome) morto quasi centenario nel 1875. Mi assicurò di averla letta nel ( libro delle Cronache). Questo era un libro manoscritto dove due padri, addetti proprio al quel lavoro, segnavano tutti gli avvenimenti degni di nota che si avveravano nel convento ed anche quelli del paese quando si voleva tramandare ai posteri. A questa rivelazione non stetti in me dalla gioia e gli dissi che sarei andato a trovarlo a casa l’indomani pomeriggio perché me la raccontasse. Quando il giorno dopo andai a trovarlo mi accolse con quella gentilezza e bontà che gli erano abituali. Prima di cominciare mi disse, quasi sorridendo che lui ricordava gli ultimi monaci che abitavano nel convento perché quando questo fu soppresso, aveva ventidue anni, essendo nato nel 1840. Per la cronaca aggiungo che è morto, santamente, nel 1930. Dopo avermi invitato a sedere si raccolse un momento e poi posò la corona che teneva in mano e incominciò a parlare. |
N el 1590 il marchese Sigismondo Loffredo era signore di Bovalino. Narra di lui la leggenda che rimase orfano di entrambi i genitori in tenera età. Fu nominato suo tutore un zio materno, il quale ebbe anche il compito di reggere il feudo finché il nipote non sarebbe entrato nella maggiore età.Lo zio ebbe per il piccolo Sigismondo cure veramente materne, gli mise in casa – come solevano i principi di quel tempo dei maestri che gli insegnavano: alcune lettere italiane oltre la matematica e le lettere latine, altri ancora l’arte della scherma, di maneggiare le armi, di andare a cavallo ecc…tanto vero che quando Sigismondo entrò nella maggiore età poteva considerarsi un perfetto cavaliere. Giovanissimo ancora – e sempre alla leggenda che parlo- prese una grave malattia, tanto che i medici locali disperavano di salvarlo, ma poi sia per la sua fibra, sia per le cure che gli furono prestate superò la crisi e dopo circa quattro mesi guarì. La convalescenza fu lunga e difficile ma, come dio volle, fu superata anche questa. I medici dopo che si fu ristabilito, gli consigliarono di viaggiare e, dietro il loro consiglio si recò a Roma. |
T ornò da Roma dopo circa tre anni e tornò sposato. Sposò la figlia del gentiluomo che, per tutta la sua permanenza nella città eterna lo aveva ospitato. La moglie era una giovane di circa vent’anni, si chiamava Cecilia, era assai bella e più che bella buona. Quando Sigismondo tornò a Bovalino fu preceduto da quattro giorni da due cavalieri mandati dal suocero perché preparassero i festeggiamenti per l’arrivo della sua figliola col marito. Infatti, quando il marchese arrivò, il paese era in festa e le persone più notabili con a capo il sindaco e il parroco, erano ad attenderlo all’ingresso del paese. Quando la carrozza arrivò al castello il ponte levatoio si abbassò ed il marchese, sceso dalla carrozza, prese le chiavi del castello e quelle del paese- che un servo in precedenza li aveva portate là sopra un vassoio d’argento- e prendendole tra le mani s’inginocchiò sul predellino della carrozza e le offrì alla moglie dopo di averle, con gentilezza e galanteria, baciato la mano. Con questo gesto il marchese Sigismondo voleva dirle che la dichiarava non soltanto regina del castello e del suo feudo ma anche, e assai di più, regina del suo cuore. La marchesa gradì l’offerta, scese dalla carrozza e abbracciò il marito- In quell’istante il cannone del castello tuonò a salve e dopo si sentì uno scroscio di applausi, il cui eco si ripercosse per tutto il paese e dintorni. La giovane marchesa vestiva un semplice abito bianco senza ornamenti che la rendeva ancora più bella. L’unico ornamento che essa portava al collo, era una sottilissima catenella d’oro con all’estremità attaccato un piccolo reliquario, pur esso d’oro, che conteneva una scheggia del legno della Santa Croce, dono del Papa allora regnante. Questo piccolo reliquario era nascosto gelosamente nel petto. La marchesa volle conoscere tutte le personalità del paese e prima di tutti i sacerdoti. Dal parroco si fece dare l’elenco delle famiglie più povere e bisognose, che più tardi beneficò personalmente. All’arrivo della marchesa nel castello e nel paese la festa durò parecchi giorni e si concluse con un pranzo ai poveri che ella stessa servì. |
Cecilia e Sigismondo sono veramente felici, vivono (come si dice) l’uno per l’altro.Trascorrono la loro giornata in opere di bene: la mattina si alzano per tempissimo, ascoltando la messa celebrata per loro nella cappella del castello e spesso fanno la Santa Comunione. Finita la messa escono per la passeggiata che, quando il tempo è bello preferiscono fare a piedi. Vanno a visitare le famiglie povere e bisognose, di preferenza gli ammalati e i sofferenti; rientrano per l’ora della colazione che ha luogo abitualmente verso le undici, poi ognuno si ritirava nelle proprie stanze per rivedersi all’ora di pranzo. Questa vita dura da circa cinque mesi e nel castello vi regna la più perfetta pace. Il personale di servizio è lieto di ubbidire ai suoi signori e ogni loro desiderio viene soddisfatto nel più breve tempo possibile, con ordine e puntualità. Questa felicità, questa pace spesso turba Cecilia e quando è sola col marito, senza testimoni, lo abbraccia, piega la testa sul suo petto e piange. Il marito l’accarezza, la consola sussurrandole parole gentili e domandando il perché di quella tristezza, il perché di quel pianto. Cecilia risponde: - Sigismondo, sono molto felice, anzi siamo felici e ciò che mi turba è il fatto che la nostra felicità debba finire presto. - Sigismondo risponde:- No mia cara, perché rattristarti ? Siamo giovani, non ci manca nulla, godiamo la stima e l’affetto di tutti, e perché la nostra felicità debba finir presto ? Non lo so risponde Cecilia ma il cuore mi dice che, prima che quest’anno finisca tu debba rimanere solo ! No Cecilia, no Cecilia mia, lascia questi brutti pensieri che ti turbano pensa a cose più belle, pensa al nostro futuro pensa che – da qui a qualche anno e forse anche prima – il Signore coronerà il nostro amore con la nascita di un bel bambino che sarà davvero la nostra felicità la nostra gioia. Sigismondo, replica Cecilia, voglia il Signore esaudirti ma io temo che non sarà così. - Quattro mesi sono passati dacché è avvenuto questo colloquio, Sigismondo e Cecilia sono soli nella cappella, la funzione della sera e da poco terminata e loro due si trattengono ancora in preghiera. Finita la preghiera, quando stanno per lasciare la cappella, Cecilia si avvicina al marito. Lo abbraccia e gli sussurra all’orecchio; come se avesse paura di essere ascoltata – queste parole – Sigismondo il Signore ha esaudito le tue preghiere, fra tre o quattro mesi, sarò mamma. A questo annunzio Sigismondo l’abbraccia se la stringe al cuore piangendo e ridendo insieme. L’indomani il marchese riunisce tutto il personale del castello e comunica loro la grande notizia, ordinando che in quel mese tutta la servitù abbia doppio salario e ,a turno, ogni uno di loro tre giorni di vacanza per divertirsi e festeggiare il non lontano lieto evento. |
F inalmente il giorno tanto atteso, tanto sospirato, giunse ma l’evento, invece di essere lieto fu triste, ossia tristissimo. La signora marchese diede alla luce una bella bambina ma la sera dello stesso giorno del parto sopravvenne una febbre fortissima e con essa altre complicazioni di natura assai grave. L’indomani i medici, dopo una visita accuratissima, si sentirono di dovere dire al marchese che le ore della sua signora erano contate. Al dolore che provò a questo annuncio è più facile immaginarlo che descriverlo, si sedette vicino al capezzale della sua cara inferma e dichiarò che non si sarebbe spostato di li per nessuno motivo e che quindi non voleva essere disturbato. La marchesa, coricata supina sul letto, gli occhi chiusi, non parlava sembrava morta, però tutto udiva, tutto capiva. Il giorno dopo si svegliò, come da un profondo sonno, e rivolta al marito gli disse, quasi sillabando, queste parole:- Sigismondo ti ricordi ciò che ti dissi quel giorno quando pronosticai che la nostra felicità sarebbe finita troppo presto? Ciò che dissi si è avverato, lo so, l’ho compreso, ho poche ore di vita; sia fatta la volontà di Dio! Quando io non sarò più tu mi chiuderai gli occhi. Alla nostra bambina darai il mio nome e accanto al mio metti quello della Madonna chiamandola “ Maria Cecilia “. Senti ancora un’altra cosa Sigismondo, e ti prego di non chiamarmi egoista. Quando sarò morta non sposarti più, ti chiede questo non per sacrificarti ma perché temo che la donna che dovesse prendere il mio posto non amerebbe la mia bambina quanto me se fossi in vita. Cerca una balia, tienila in casa e fa che la bambina cresca sotto i tuoi occhi. Me lo prometti ? Sigismondo, che per il pianto non poteva parlare, fece cenno di si col capo. La marchesa continuò:- Quando non ci sarò più pensami spesso e fa di tutto che le persone che ti circondano mi ricordino. Ed ora addio Sigismondo, vogliami bene, pensami sempre e che la mia memoria ti sia di guida e di conforto per tutto il tempo che il Signore ti lascerà in vita. - Lo guardò di nuovo e poi gli fece cenno che le porgesse un Crocifisso che stava sul comodino. Sigismondo lo prese e glielo avvicinò alle labbra; la marchesa lo baciò due volte e poi disse lentamente:- Signore nelle tue mani metto l’anima mia! Lo guardò ancora con gli occhi ormai spenti e spirò. Il marchese diede un grido che nulla aveva di umano, accorsero alcuni servi e la cameriera della marchesa. Un attimo dopo, il marchese , in un momento di pessimismo prese la pistola, che sempre portava con se e se la puntò alla tempia sinistra. La cameriera che gli stava vicino gliela strappò di mano gridando:- Signor marchese, cosa state facendo? E se voi non ci sarete più che cosa avverrà della bambina?-Per lei dovete vivere, solo per lei signor marchese!- Si, rispose il marchese, si Cecilia mia, piccola mia, per te devo vivere e per te vivrò. Si prese la testa tra le mani e pianse lungamente. Quando quello sfogo passò il marchese si alzò e, compreso dalla gravità del momento, fece chiamare il maggiordomo e gli ordinò di preparare tutto per i funerali che furono celebrati il giorno dopo e furono solennissimi tanto che coloro che assistettero ebbero a dire che a Bovalino ( a memoria d’uomo ) non furono mai celebrati funerali simili a quelli. |
L o stesso giorno della morte della marchesa, il maggiordomo di casa Loffredo ebbe cura di far venire nel castello la balia che avrebbe dovuto allevare la bambina. Era questa la giovane vedova di un operaio che lavorava alle dipendenze del marchese, morto quindici giorni prima lasciandola con una bambina di quattro mesi. La balia si chiamava Teresa, la bambina Marina. Quando arrivò fu condotta subito presso la culla della piccola Cecilia che in quel momento dormiva. Teresa si avvicinò alla culla, sollevò il velo che la copriva, guardò la piccola e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Quando Cecilia si svegliò la balia se la prese tra le braccia, se la strinse al cuore e, in un impeto d’amore materno disse:- Povera cara, hai perduto la mamma prima di conoscerla, ma il Signore te ne ha mandato un’altra; fino a ieri avevo una figlia, da oggi ne ho due. - Da quel giorno Teresa fece parte della famiglia guadagnandosi la stima e l’affetto di tutti; veniva chiamata “ la signora Teresa “. Un giorno – dopo il trigesimo della morte della marchesa- si trovava nel salotto in compagnia di Teresa che teneva in braccio la piccola Cecilia; parlavano del più e del meno ma, si capisce, tutti i loro discorsi convergevano sulla piccina. Tutto ad un tratto il marchese si rivolse verso Teresa e- come ricordandosi di una cosa che avrebbe voluto dire molto tempo prima- Le disse di dirgli qual’era il salario che pretendeva per allevare la bambina, che lui era disposto a darle quanto voleva. Teresa si volse verso di lui e così rispose:- Signor marchese vi è nota la stima e la riconoscenza che legano la mia famiglia alla vostra, dico la mia famiglia perché intendo parlare anche del mio povero marito. Io e lui troppo vi dobbiamo, innumerevoli benefici ne abbiamo ricevuti sia da vostra eccellenza che dalla signora marchesa, quindi la mia riconoscenza per voi sarà eterna. Se oggi mi avete chiamata ad allevare la vostra bambina, sono io che devo ringraziarvi dell’onore che mi avete concesso e della fiducia che mi accordate; perciò non voglio nulla e resterò al mio posto fintanto che non avrete più bisogno di me. A quelle parole il marchese rimase profondamente commosso, e disse a Teresa che si sentiva obbligato verso di lei e che perciò la riteneva come apparentemente alla famiglia e che, da quel giorno, non sarebbe andata via mai più. |
I l tempo passa veloce, Le bambine crescono a vista d’occhio. Cecilia e Marina hanno quasi cinque anni. Ogni giorno vengono condotte a passeggio da mamma Teresa, la quale ha cura di farle avvicinare da tutte le persone che incontrano e perciò tutti le conoscono e le vogliono bene. Marina è bruna- un po’ più alta di Cecilia mentre questa è bionda come la mamma, i suoi capelli sono una massa d’oro; i suoi occhi vispi ed intelligenti innamorano, entusiasmano chiunque la guarda e tanti quando la lasciano si sentono tristi addolorati, vorrebbero stare sempre vicino a lei- Qualcuno dice:- Non sappiamo questa bambina cosa ha addosso ma è certo che chiunque l’avvicina si sente straordinariamente attratto verso di lei. Tanti dicono:- è la marchesa in persona!- Quando o per un motivo o per un altro non possono uscire di casa, allora si riuniscono in salotto e il marchese prendendosi tutte e due vicino a se le accarezza e racconta delle storie interessanti, onde attirare la loro attenzione, e la loro curiosità. Spesso mostra a Cecilia un grande quadro ad olio rappresentante la mamma- probabilmente dipinto da qualche pittore locale- e così le dice:- Cecilia quella è la tua mamma, è colei che ti portò al mondo e che tu purtroppo, non conoscesti! Amala, prega per lei che dal cielo ti guarda e ti sorride ed ha per te lo stesso affetto che avrebbe come se si trovasse presente. Dopo di lei la persona che devi amare di più su questa terra è mamma Teresa, e per il tuo povero papà. A queste parole Cecilia si metteva a piangere e per calmarla ci volevano le parole e le carezze di Marina che spesso-quasi sempre- assisteva a questi colloqui intimi, commoventi che avvenivano tra padre e figlia. Il marchese avrebbe preferito che Cecilia e Marina crescessero come sorelle e se non lo aveva fatto era appunto perché sua moglie a letto di morte gli aveva detto : - Sigismondo parla spesso a Cecilia di me, ricorda alla bambina la sua povera mamma, fa che mi conosca e mi ami come avrebbe fatto se io fossi viva. Il marchese fedele alla promessa parlava spesso a Cecilia della mamma e del resto, quando cominciò a capire anche lei lo desiderava. Per altro Cecilia o Marisa si consideravano sorelle e sia il Marchese, che Teresa ne godevano tanto. |
P assò altro tempo. Il marchese - Teresa con lui, - comprese che l’educazione da lui impartita alle bambine non era sufficiente perché si elevassero all’altezza che il loro rango richiedeva. Era necessario, quindi che fossero collocate in qualche convento dove c’era anche un educatore per bambine. Si cercò, s’indagò e finalmente scelsero il convento delle suore francescane della vicina città di Gerace dove c’era l’educandato per bambine e signorine e dove stavano le figliole delle famiglie nobili della Locride. Espletate le pratiche arrivò finalmente il giorno della partenza. Era triste, era doloroso separarsi ma fu gioco forza farlo per il loro bene. Si partì per Gerace in carrozza: il marchese, Teresa, e le due bambine. Quando arrivarono furono accolte dalla superiore in persona e da due suore maestre che fecero loro molte accoglienze, del resto così richiedeva la dignità degli ospiti e così fu fatto. Quando il marchese e Teresa ritornarono a casa, erano tristi e silenziosi, quella sera non si cenò e ognuno si ritirò nelle proprie stanze molto prima del solito. La mattina dopo, all’ora della colazione – Teresa chiese al Marchese il permesso di ritirarsi, dato che ormai il suo compito era finito, o quasi. Questi la pregò di rimanere: si sentiva solo nel grande castello,completamente solo e se lei se ne fosse andata chissà quale fine avrebbe fatto. Nelle sue parole Teresa si commosse e accettò di rimanere, alle condizioni che restava lì come cameriera e che era trattata- come le altre cameriere-senza nessun riguardo. Il marchese approvò e lei rimase. |
I l marchese andava spesso a trovare “ le sue bambine”, come le chiamava, e si tratteneva con loro in parlatorio per circa un ora-quando permetteva il regolamento. Domandava loro notizie della salute, del profitto degli studi e tante altre piccole cose. Quando le lasciava gli chiedevano se sarebbe ritornato presto e lui rispondeva che non lo sapeva; gli piaceva arrivare senza essere aspettato. Quando andava a trovarle, alcune volte andava solo, altre in compagnia di mamma Teresa - Ogni tanto dopo essersi trattenuto con le bambine, a loro insaputa si faceva ricevere dalla superiora ed a lei apriva il suo cuore, diceva cioè che si sentiva triste e solo ma che pur non di meno, era necessario che le bambine restassero per alcuni anni in monastero per formarsi una cultura, affinchè quando uscivano di li essere degne del nome che portavano. La superiora lo confortava e lo approvava e poi gli diceva che era felice e contenta di avere due educande come Cecilia e Marina: Si facevano distinguere nella cultura, nella religione,nella modestia, erano esattissime nel compiere i propri doveri. Spesso terminava il suo dire con queste parole: - Marina è colta, intelligente devota, affettuosa amabile con tutti, però non è la mia Cecilia. Il marchese ritornava a casa orgoglioso per quanto sentiva delle sue figliole. Era contento ma spesso o quasi sempre il suo volto era velato di mestizia- E come poteva non esserlo?- Pensava alla sua povera sposa morta a vent’anni, appena dopo un anno di matrimonio, pensava come sarebbe stata felice con lui se fosse vissuta e quanto entrambi avrebbero amato la loro bambina la loro piccola cara ! Ma tutto fallì e il povero marchese è rimasto solo, e se non avesse avuto la compagnia della signora Teresa, chissà che non avrebbe seguito la sua diletta consorte. |
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