La leggenda di Suor Maria Cecilia
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Capitolo 21
I l marchese, quando fu solo, scrisse una lettera al suo amico Fabrizio invitandolo, per la settimana prossima, a casa sua perché si sarebbe dovuto festeggiare l’ingresso in società della sua figliola. Gli diceva di non preoccuparsi perché alla festa non c’era nessuno, soltanto i familiari e quelli lo conoscevano tutti. La lettera concludeva: “ ti attendiamo sabato prossimo o, al più tardi, mattina di domenica, vieni con l’intenzione di fermarti un paio di giorni, te lo chiedo anche a nome di Cecilia, è lei che lo vuole”. Terminato di scrivere il marchese chiuse la lettera, la sigillò, scrisse l’indirizzo e suonò il campanello. Al cameriere accorso disse: - Pietro, fa sellare il cavallo e, a sprono battuto, portala al suo indirizzo, la lettera deve essere a destinazione entro questa notte. – Il cameriere rispose inchinandosi; non dubitate signor marchese, sarà servito. – Dieci minuti dopo il cameriere partì e verso le dieci di quella stessa sera si trovava alla porta del marchese Fabrizio. Bussò, ed al cameriere che venne ad aprire diede la lettera del suo signore perché la portasse al marchese Fabrizio mentre lui avrebbe atteso la risposta in portineria. Pochi minuti più tardi il marchese Fabrizio in persona scese e lo accolse con festa ordinando ai suoi servi di custodire il cavallo e dicendo a Pietro: - l’ ora è tarda, per questa sera ti fermerai qui e domani porterai a Sigismondo la risposta. – Per tutta la notte Fabrizio si ripetè mentalmente le parole della lettera di Sigismondo, specialmente quelle – “ è Cecilia che lo vuole “. La mattina si alzò per tempo e scrisse la risposta, naturalmente accettando l’invito. Domenica mattina partì e si trovò dopo poche ore, al castello di Bovalino. Fu ricevuto da Sigismondo che lo colmò di carezze facendogli molta festa e lo accompagnò – per il momento – nella camera degli ospiti. Cecilia, almeno per allora evitò di vederlo ma nel corridoio incontrarono Marina che passava di lì come per caso. I due marchesi si fermarono per salutarla e Sigismondo con paterna familiarità le sorrise e l’accarezzò sulla guancia; Marina rispose allo stesso modo. Allora del pranzo suonò il campanello poi aprirono le porte della grande sala e il maggiordomo, con solennità annunciò: - i signori sono serviti. – Teresa, Marina, il cappellano e il marchese Fabrizio a, quell’annuncio si alzarono ed entrarono nella sala da pranzo. Quando tutti erano ai loro posti entrò Cecilia al braccio di suo padre. Al suo ingresso, quelli che si trovavano in sala da pranzo batterono le mani, poi tutti sedettero e per un attimo si fece silenzio. Prima che il pranzo incominciasse Fabrizio diede uno sguardo in giro e si accorse che come Sigismondo gli aveva annunciato non c’erano invitati estranei ad eccezione del cappellano. Cecilia era seduta fra suo padre e Marina e in modo che il marchese Fabrizio le venisse di fronte. Fingeva di non guardare ma ogni tanto alzava gli occhi e guardava Fabrizio, i suoi sguardi erano esclusivamente per lui. Il pranzo finì tra i brindisi e gli auguri alla festeggiata, solo Fabrizio non parlava. Perché? Capiva forse che a momenti si sarebbe deciso del suo avvenire? Mistero! Finito il pranzo Cecilia si alzò e così parlò: - Grazie signor marchese per avere accettato l’invito alla festa per il mio ingresso in società; ringrazio voi perché, come vedete, di estraneo ci siete voi solo. C’è il cappellano ma è di casa, l’ho voluto qui affinché la presenza del sacerdote rendesse, per dir così più solenne questo momento e quanto sta per avvenire. Il mio ingresso in società è per modo di dire perché una ragazza orfana come me è vissuta per nove anni in monastero, certamente non prova piacere di vivere in mezzo al chiasso; in mezzo ai rumori, tra la confusione e il pettegolezzo alla gente anche se nel nostro piccolo paese ciò è in scarsa misura. Non so se papà ve lo scrisse ma sono stata io a volervi alla nostra festa. Perché domanderete voi? Volevo conoscere “di vicini” il salvatore di mio padre. L’incidente capitato nella partita di caccia di poco tempo fa è che senza il vostro intervento mio padre avrebbe incontrato la morte- mi è stato riferito in monastero; volevo conoscervi ringraziarvi e per dirvi che- per quello che avete fatto vi amo e vi stimo come mio padre. A questo punto Cecilia fu interrotta da un nuovo battito di mani ma poi continuò: - il ringraziarvi non basta, le parole dicono poco o nulla ci vuole qualche cosa di più positivo, di più duratura per dire a voi che Cecilia Loffredo non dimentica i benefici ricevuti. Signor marchese mi accorgo da qualche lacrima che vedo sui suoi occhi- che le mie parole vi commuovono; ho finito, vi chiedo soltanto un favore: narratemi la vostra storia”. Fabrizio risponde:- Figliola mia – permettimi di chiamarti così lasciamolo da parte il titolo, specie ora che tuo padre mi accordò l’ambitissimo onore di annoverarmi fra i suoi amici. - Cecilia lo interruppe dicendo:- non solo ve lo permetto, ma lo desidero. – Fabrizio rispose:- in questo giorno non è possibile narrare storie tristi, te la racconterò un'altra volta, oppure se hai fretta fattala narrare da Sigismondo. Ti dico soltanto che ho trent’anni e che nella mia vita ho sempre sofferto. Se qualche volta sul mio labbra errò un sorriso, fu solo per convenienza ma in quel sorriso c’era nascosta una grande amarezza. Sono stato infelice finora e penso di esserlo sempre. Ormai che ho conosciuto voi un solo conforto mi rimane: la tua amicizia e quella di tuo padre. Cecilia si alzò e, fra i singhiozzi trattenuti disse: - marchese, rallegratevi, la vostra tristezza è finita, c’è qui una creatura, una donna che tutto sacrifica per la vostra felicità. Mi volete per vostra moglie? A questo punto piangevano tutti e Marina e il cappellano piangevano, ridevano e battevano le mani. Fabrizio, col cuore gonfio rispose queste semplici parole:- figliola grazie, non disse altro. Quando si furono calmati il marchese Sigismondo abbracciò la figlia e le disse all’orecchio, in modo che nessuno sentisse:- grazie Cecilia, ti sei comportata bene. Dopo di lui l’abbracciò Teresa e Marina. Il cappellano le strinse la mano e s’allontanò di lì come scappando – Se fosse rimasto un altro minuto avrebbe scoppiato a piangere anche lui. In giornata stessa si presero accordi che fatte le pratiche civili e religiose Cecilia e Fabrizio, al più tardi, di lì ad un mese si sarebbero sposati. Il mattino seguente Fabrizio partì: Cecilia, suo padre e Marina lo accompagnarono fino allo scalone principale. Prima di lasciarsi lo pregarono di ritornare presto e Fabrizio lo promise. Sarebbe rimasto al suo paese solo il tempo necessario per sbrigare i documenti per il matrimonio e quegli altri occorrenti per affidare – dato che lui al suo paese non sarebbe tornato più – il governo del feudo a un suo nipote. Di nuovo strette di mano, saluti e auguri. Salito a cavallo s’allontanò salutando. |
D opo la partenza di Fabrizio Cecilia, suo padre e Marina rientrarono nel castello: il marchese si recò nel suo studio, Marina e Cecilia, tenendosi per mano, entrarono nel salotto. Sedettero sopra un divano di fronte al grande quadro che raffigurava la mamma di Cecilia e questa così parlò:- Marina, dopo tanti avvenimenti, dopo tante emozioni, siamo finalmente sole. Dimmi:- ho agito bene decidendo a sposare Fabrizio? Pensi che la mamma mi approva? Per questo ho voluto parlarti davanti al suo ritratto. Vorrei ( ma ciò non è possibile) sentire la sua risposta. - Marina le rispose:- Cecilia chiamami pure superstiziosa, dimmi quello che vuoi; ma io (guardando il ritratto di mamma tua) la vedo sotto un altro aspetto, mi sembra sorrida, guardala anche tu, guardala attentamente e, se puoi, dimmi che non è così. Cecilia guardò, si commosse e pianse, anche lei era dello stesso parere di Marina; le sembrava che sua madre sorridesse approvando, Marina disse: Cecilia, da quando nella prigione, tuo padre mi lesse la lettera che gli scrivesti, anch’io (ti prego di non essere gelosa) cominciai a volere bene a Fabrizio anch’io ho preso una decisione. – Cecilia – cercando di prendere un’aria autoritaria – disse: - Sentiamo la decisione della signorina Marina e, nel caso che non ci piace, l’annulleremo. – Marina continuò:- da quando decidesti a sposare Fabrizio, io ho deciso di non sposare. Monaca non mi farò perché il Signore non mi diede questa vocazione, ma voglio stare con te, voglio amarti, voglio servirti. Se io sposassi, il mio amore dovrei dividerlo tra mio marito, la mamma e te, naturalmente tu prenderesti nel mio cuore l’ultimo posto ed io non voglio che sia così, il mio amore deve essere tutto e solo per te (il Signore mi perdoni) io ti amo più di mia madre, perché tu sei una santa ed io voglio sporcarmi ad imitarti. Mentre Marina così parlava Cecilia piangeva e poi, non potendone più, l’abbracciò. Mentre erano abbracciati entrò il marchese e disse:- desidererei sapere cosa stanno complottando le due birichine; parola d’onore che da pochi giorni a questo non ci capisco più niente. Marina rispose:- marchese, cosa stiamo complottando non vi interessa, sono cose nostre ed il padre deve assolutamente ignorare i segreti delle figlie specie quando queste complottano a scopo di bene il marchese, comprendendo che Marina scherzava sorrise e se ne andò. |
A nche quest’altro mese passò e il giorno tanto atteso, per il matrimonio di Cecilia finalmente giunse. Anche se nel castello, da qualche giorno, regnava una certa animazione, ad eccezione delle persone bene informate, nessuno s’accorse del grande avvenimento che stava per compiersi. Per volere di Cecilia – D’accordo con suo padre e col fidanzato – il matrimonio si celebrò nella cappella del castello: senza pompa, nessun lusso e con invitati ridotti al minimo. Gli estranei che partecipavano al matrimonio furono: la superiora del monastero dove Cecilia era stata educata, la madre vicaria e due suore maestre; due testimoni, uno dei quali era quel nipote a cui Fabrizio aveva ceduto il castello e il comando del feudo, l’altro (quello di Cecilia) un sacerdote del paese. C’era l’arciprete, il cappellano e un altro sacerdote pure del paese, e tutto qui. Quel giorno era domenica. La cappella era parata a festa e dappertutto fiori a profusione. Cecilia entro al braccio del padre: vestita un semplice abito bianco, la corona di fiori d’arancio e una rosa (pure bianca) appuntata al petto. Non c’era nessun’altro ornamento ad eccezione di quella collanina d’oro con la reliquia della Santa Croce che era stata tanto cara a sua madre. Il marchese Fabrizio entrò al braccio di suo nipote ed avente a sinistra la simpatica Marina. Si celebrò la Messa e tutti fecero la Comunione. Finita la Messa – per volere del marchese padre – l’arciprete del paese celebrò il matrimonio il matrimonio. Quando tutto fu finito sia l’arciprete che il cappellano pronunciarono due elevati discorsi di circostanza: questi parlò con un gran tremito nella voce, quasi piangendo. Il perché si spiega: era egli il padre spirituale di Cecilia e quindi il depositario di tutti e suoi segreti; la riteneva una santa e sapeva quale sacrificio essa faceva sposando quell’uomo. Gli invitati, cioè le suore ed i testimoni, si trattennero sino a tardo pomeriggio, poi partirono. Il marchese padre e Fabrizio li accompagnarono sino al ponte levatoio dove le carrozze attendevano. Cecilia e Marina arrivarono sino alla porta della sala e, salutati tutti, tornarono indietro. Cecilia chiese a Marina di lasciarla sola; voleva pregare sino al ritorno del marito e prepararsi alla grande prova che stava per incominciare. Si ritirò nella stanza nuziale tappezzata di damasco rosso e avente ai piedi del letto un inginocchiatoi (pur esso foderato di rosso) con sopra un grande Crocefisso d’argento. Cecilia si inginocchiò e strettosi al cuore il Crocifisso – così pregò: -Signore Gesù , dei martiri, per intercessione di Maria regina delle vergini e madre dei dolori, dammi la forza di superare questa prova e, quel che più conta, essere compresa; voglio essere tua, tutta tua, assolutamente tua! Ripeto; Signore Gesù, quello che ti dissi la prima volta quando, all’età di nove anni, mi consacrai a Te. Fa o Signore che Fabrizio mi ami come figlia, come sorella e amandomi mi sappia comprendere. Intanto Fabrizio, con Sigismondo ritornarono e domandarono dove si trovava Cecilia. Marina, scherzando disse: - come siete seccanti, si è ritirata per pregare, lasciatela sola, quando vi vuole vi chiamerà. – A sera tutti andarono a cena e all’ora conveniente ognuno si ritirò nelle proprie stanze; naturalmente anche Cecilia col marito. Giunti nella stanza nuziale Cecilia cominciò a tremare, sentì il bisogno di sedersi sul divano che si trovava ai piedi del letto e fece cenno al marito di sederle accanto. Fabrizio, compreso il suo timore, sedette e per il momento si fece silenzio. Dopo alcuni istanti Cecilia disse: - Fabrizio da quando tempo mi conosci? Fabrizio a quella domanda si fece scuro in viso e tremò; pensava che Cecilia si pentiva d’averlo sposato. Cecilia lo comprese e gli disse: - no, Fabrizio, non temere, non voglio dirti quello che tu pensi, rispondimi alla domanda che t’ ho fatto e poi ascolta quello che ti dirò. Ripeto la domanda: - da quanto tempo mi conosci? Fabrizio, incoraggiato, rispose:- ti conosco da quel giorno fortunato che tuo padre mi invitò a pranzo per festeggiare la tua uscita dal monastero. Sapevo da tempo che Sigismondo aveva una figlia ma nelle poche volte che venni qui, non potei mai vederti. Cecilia rispose: quel giorno che mio padre festeggiò, (per dir così) il mio ingresso in società non uscivo dal monastero ma, ma una settimana prima ero uscita dalla prigione. A quelle parole Fabrizio, suo malgrado, tremò. Cecilia continuò: perché ero stata imprigionata? Perché mio padre voleva assolutamente maritarmi ed io volevo farmi suora. Mi ero consacrata a Dio all’età di nove anni, con un senno superiore alla mia età, e poi ogni anno – nell’anniversario della mia nascita, ripetevo la consacrazione, consacrazione che ho fatto per l’ultima volta anche ieri, vigilia del nostro matrimonio. Come ti ho detto mi ero data a Dio e non volevo tradire la mia fede. Mio padre, quando apprese che volevo restare presso le suore che mi avevano educata, mi tolse dal monastero quasi due anni prima del tempo che si era preposto. Quando tornai a casa la battaglia incominciò; mi chiese cioè se volevo farmi suora e, avuta risposta affermativa, si ribellò, gridò battè i piedi e a nulla valse l’intervento di Teresa e di Marina a mio favore. Concluse dicendomi: - scegli, o il matrimonio o la prigione… Io risposi: - scelgo la prigione. Mi fece accompagnare nella torretta del castello che guarda il mezzogiorno e là vi rimasi per oltre tre mesi. In questo tempo lui non venne mai a visitarmi permetteva solo, ogni tanto che Marina venisse a trovarmi per trattenersi un pochino con me. A lei (io lo seppi dopo) domandava le mie notizie. Teresa, tre volte al giorno mi portava il vitto, lo posava sulla tavola e s’allontanava senza parlarmi; gli ordini erano severi e non si potavano trasgredire. Ma lui, povero babbo, soffriva e ti lascio immaginare quanto. Ed io? Io non mi davo per vinta: ero felice in quella prigione, soffrivo per una cosa sola: non poter fare la Santa Comunione per altro, la torre e la cella del monastero per me era lo stesso. Una domenica dello scorso settembre era di notte tu e mio padre discorrevate seduti proprio sotto la finestra della mia cella. Mio padre ti narrò la sua storia, tu gli narrasti la tua e mentre parlavi, piangevi. Io ti sentii piangere – avevo allora finito le preghiere della sera e stavo per andare a dormire. – Tirai il letto sotto la finestra, mi misi sopra una sedia, salii e sedetti sopra la finestra. Ascoltai tutto e quando scesi piangevo anch’io; commossa per la tua sofferenza. Giurai di sposarti e farti felice nella speranza che tu avresti rispettato (dato il voto che avevo fatto) la mia purezza. Fabrizio ti ho detto tutto adesso decidi: mi sono consacrata a Dio, un angelo mi ha in sua custodia, sento di poterti amare soltanto come una sorella, o ( se meglio ti piace) come una figlia e niente più. Accetti? Se si dimmelo, se no sono nelle tue mani: sono tua moglie, hai sopra di me tutti i diritti che Dio e la legge ti concedono, fa quel che vuoi. Non accettando sarai sempre infelice, come prima e forse più di prima perché io sentirò di non poterti amare e il perché ti è facile comprenderlo: mi avrai fatto trasgredire il giuramento che feci di darmi a Dio. In una parte del Vangelo – e penso che ciò ti sia noto – si legge che Dio è geloso di quelli che ama, io sono sua e perciò è geloso anche di me; non vuole che altri gli rubi ciò che gli appartiene. – Durante il lungo discorso di Cecilia, Fabrizio taceva a testa bassa riflettendo. Quando Cecilia finì disse: - Cecilia rispetterò la tua volontà, per me sarai sacra, ti amerò come si ama una Santa, come si ama la Madonna! Cecilia pianse e lo baciò sulla fronte dicendo: - ti amo, fratello mio, sposo mio, padre mio: ti amo in Cristo Gesù – Quando, continuò Cecilia, quando avrai tempo cerca nella nostra biblioteca e vi troverai un manoscritto è, “ per atti dei martiri San Valeriano e Santa Cecilia” leggili e vedrai che noi due – benché assai imperfettamente somigliamo a questi due grandi martiri marito e moglie, continuò: - Fabrizio un altro sacrificio ti domando: - il nostro segreto devono ignorarlo tutti, anche mio padre, nessuno deve sapere che noi due viviamo separati e ci amiamo solo come fratello e sorella. – Fabrizio disse: - e ciò come potrà essere? – Non dubitare aggiunse Cecilia: - tutto è combinato. Se ti sei accorto il nostro appartamento è vicino alla cappella e ha una porta che là conduce ad un’altra che apre nel corridoio e che rimane sempre chiusa ed un'altra ancora che porta in questa stanza e che è abilmente nascosta da quel quadro. Ogni mattina tu, quando sarai pronto, busserai ed io ti aprirò, da qui entreremo nella cappella per la recita delle preghiere del mattino. In questa stanza non permetterò che entri nessuno o che tocchi il tuo letto. Io stessa farò la pulizia e te la terrò in ordine. La sera quando andiamo a letto entreremo insieme in questa stanza poi- dopo chiusa la porta tu entrerai nella tua ed io lascerò la porta socchiusa in modo di poter sentire se avrai bisogno di qualche cosa. Così nessuno si accorgerà di nulla. Ti va? Fabrizio disse: - si Cecilia, ciò che tu fai è sempre ben fatto ed io non posso che ammirarti ed amarti sempre di più. – Si baciarono e si separarono augurandosi la buona notte. Cecilia toccò un bottone, il quadro che copriva la porta girò su se stesso e questa si aprì. Fabrizio entrò, si voltò e disse: - Buona notte! Cecilia toccò di nuovo il bottone e la porta si socchiuse. |
L a prima notte di nozze, Cecilia la trascorse in preghiera. Dopo che Fabrizio entrò nella sua stanza attese un po’ e quando comprese che si era coricato s’inginocchiò e (come sempre) con il Crocifisso stretto al cuore pregò a lungo. Ad un tratto le parve di sentire piangere; pose il Crocifisso, sospese per un poco la preghiera e tese l’orecchio per sentir meglio: era Fabrizio che pregava, e il quadro che copriva la parete della sua stanza impedì a Cecilia di capire le sue parole. Ad un tratto nel fervore della preghiera – Fabrizio disse più forte: - Signore ti ringrazio per quest’angelo che mi hai dato in sposa e ti prego, spegni in me il fuor della concupiscenza e fa che io l’ami come un fratello possa amare la propria sorella. – Queste parole Cecilia, parte le sentì e parte le comprese. Ribaciò il Crocifisso, volle continuare a pregare ma non potè. Si alzò di dove stava in ginocchio, si avvicinò a un comodino e prese un libro che vi stava sopra; lo aprì a caso e lesse: -“ beati i puri di cuore perché essi vedranno Dio “. Commentò queste parole del Vangelo, richiuse il libro e s’inginocchiò di nuovo continuando a pregare. Intanto spuntava l’alba, Cecilia si alzò e, sentito che Fabrizio si era pure alzato lo attese. Quando questi fu pronto bussò; Cecilia toccò il bottone della cornice del quadro, questo girò e la porta si aprì. Fabrizio entrando diede uno sguardo per la stanza e comprese che Cecilia non era andata a letto. In ogni modo le domandò se aveva dormito bene e lei rispose:- non ho dormito, ho voluto aspettarti pregando. Fabrizio la baciò, come al solito, sulla fronte, lei ricambiò il bacio e tutte e due si avviarono verso la cappella per le preghiere del mattino. Mentre si recavano Cecilia sentì un leggero passo nel corridoio che giunto alla porta della loro camera si fermò. Cecilia voltandosi verso Fabrizio gli disse: - E’ mio padre che viene a darci il buongiorno. – E così dicendo lasciò per un istante Fabrizio ed andò ad aprire la porta. Infatti era suo padre che arrivava: abbracciò la figlia e dopo di lei Fabrizio e sentendo che si stavano recando in cappella andò con loro, volle anche lui in quel primo giorno dopo il matrimonio di sua figlia pregare con essa e suo genero per la loro felicità. |
L a prima volta che Cecilia uscì di casa, dopo il suo matrimonio, fu per far visita di dovere alle suore del monastero dov’era stata educata. L’accompagnarono suo marito e Marina. La sera prima mentre tutta la famiglia era riunita in sala da pranzo si discuteva a che ora si sarebbe dovuto partire l’indomani. Il marchese Fabrizio disse: - gia che si deve rimane la tutta la giornata, io direi che è inutile partire di mattina presto, si parte dopo la colazione, magari anticipandola di qualche ora, poi, rivolto a Cecilia disse: - tu che ne dici? – Cecilia rispose:- partiremo quando piace a te, però ti avverto che io non faccio colazione perché desidero fare la Santa Comunione e credo, con me anche Marina. Fabrizio riprese: - allora partiremo presto perché (senza di te) io non faccio colazione. Cecilia, volgendosi a suo padre gli disse: - vuoi venire anche tu? Sigismondo rispose: - andateci voi, è il vostro tempo, io ormai comincio ad invecchiare e, tranne qualche partitina da caccia non vado a nessuna parte, desidero restare in casa, poi aggiunse: - ti prego salutami tanto la superiora. A quel “ salutami tanto la superiora “ Cecilia sorrise e, com’era solita fare quando voleva scherzare, diede uno schiaffettino a suo padre. La mattina dopo, perciò, Cecilia, suo marito e Marina, in carrozza partirono per Gerace. Arrivarono una mezzora circa prima che incominciasse la messa. Quando suonarono alla porta, la portinaia che venne ad aprire, conosciuta Cecilia, cominciò a battere le mani per la gioia e corse ad avvertire la superiora che arrivò in persona fino allo scalone: Cecilia e Marina le corsero incontro e l’abbracciarono con quella familiarità che si erano acquistata in circa nove anni di permanenza in quel monastero. Fabrizio se ne stava in disparte umile e silenzioso attendendo il momento di presentarsi. Dopo i primi abbracci, dopo le prime effusioni di affetto; Cecilia, facendosi da parte disse, con una certa solennità: superiora c’è anche mio marito. La superiora si avvicinò e gli strinse la mano sorridendogli con benevolenza. Poi rivolta a Cecilia le disse, in tono di rimprovero: - sei sempre la stessa birichina , sempre ne combini qualcuna delle tue; perché, quando sono stata al suo matrimonio, non mi hai detto nulla della tua visita? Cecilia rispose: - la giustificazione la trovo subito: perché volevo farvi una sorpresa e perché volevo stare con voi con un po’ di libertà. A questo scopo, per la visita, ho scelto oggi che per il monastero è giorno di vacanza. Brava, mille volte brava disse la superiora e poi aggiunse: - è inutile, sei sempre tu! Sorrisero un altro poco e poi la superiora le fece passare nella sala di ricevimento dicendo: - attendete qui, a momenti è ora della Santa Messa. – Cecilia disse a proposito, vorrei vedere il padre spirituale per confessarmi perché, sia io che Marina siamo partite col proposito di ascoltare la Messa e fare la Comunione. – La superiora disse: - a momenti arriva. Non aveva finito la frase che il padre spirituale arrivò. E’ più facile immaginarlo che descriverlo il modo festoso con cui il padre spirituale accolse Cecilia e Marina; rivedendole dopo tanto tempo. Si confessarono e Cecilia vi stette molto, dopo di lei si confessò Marina. Mentre il padre spirituale usciva per entrare in sacrestia e vestirsi per la Santa Messa, Fabrizio lo chiamò e gli disse una parola all’orecchio. Il padre spirituale, con un tono di deferenza e di rispetto gli disse:- favorisca con me in sacrestia. Entrarono e Fabrizio si confessò: anche lui vi stette molto, quasi un’ora. Quando finì e lasciò la sacrestia, a guardare il padre spirituale gli si leggeva nel volto una gioia e una contentezza impossibile a descriversi: certamente tutte due, Fabrizio e Cecilia confessandosi gli avevano parlato del loro segreto, cioè del proposito di custodire la purezza. Poco dopo si trovarono tutti in cappella e incominciò la Santa messa. Fabrizio stava inginocchiato vicino a cecilia, tutti gli sguardi erano puntati su di lui. Però bisogna dirlo – non era guardato come l’uomo brutto e deforme che in altri tempi faceva paura. Questa volta era guardato con affetto, con simpatia e, diremmo quasi, con ammirazione. Né lui né Cecilia si accorgevano di nulla: lei era con gli occhi fissi all’altare, guardava il sacerdote celebrante e non si scostava per nessun motivo. Fabrizio seguiva la messa con il libro. Marina inginocchiata dietro di loro seguiva pure la messa sua, ogni tanto, non poteva fare a meno di dare uno sguardo di curiosità intorno a tutto ciò che la circondava. Al momento della Comunione tutti si accostarono all’altare. Cecilia si alzò e suo marito andò a mettersi al suo fianco. Cecilia si commosse e per quando cercava di trattenere il pianto, non potè. La Comunione di suo marito, quel giorno, fu per lei una graditissima sorpresa.Finita la messa la superiora accompagnò tutte e tre nel refettorio delle suore per la colazione. Appena entrata disse. – farete colazione con noi, vi accontenterete di quello che vi può offrire una comunità francescana. Cecilia e Marina dissero sorridendo: - la comunità dato, che partiremo questa sera, ci deve offrire anche il pranzo – Sedettero a tavola e, prima di incominciare a mangiare, la superiora recitò le preghiere di rito. Finita la colazione passarono tutti, comprese le due educande nella sala del capitolo e là circondarono Cecilia e suo marito per fare loro gli auguri, per offrire dei doni e per dire che nel monastero era sempre ricordata con grande stima e affetto. Mentre erano sul più bello la superiora chiese il permesso di allontanarsi un poco e fece cenno a Marina di seguirla. Questa la seguì e andava pensando tra se. – che cosa vuole? Arrivate alla cella della penitenza si fermarono e la superiora, con una piccola chiave, aprì la porta. Entrarono tutte e due e poi – voltatasi verso Marina, la superiora disse: - Guarda – Marina diede uno sguardo in giro e vide sul pavimento, quasi invisibile, alcune gocce di sangue. Sangue sull’inginocchiatoio, sulla parete vicino al Crocifisso. La superiora disse: - vedi? E’ sangue suo, è sangue della nostra Cecilia! In tutto al quel mese che volle ritirarsi qui fece penitenza, pregò si flagellò a sangue e ciò per espiare – come diceva lei le sue colpe; colpe che non aveva e, per commuovere il cuore di Gesù perché convincesse suo padre a darle il sospirato permesso di farsi suora. – Come vedi qui, ai piedi del Crocifisso, oggi c’è un piccolo altare e questa – dalla sua partenza – non è più la cella della penitenza ma qui ci riuniamo una volta al mese il giorno di ritiro. Chiediamo a Gesù la grazia d’imitarla, ma – a quanto mi costa – ancora nessuno di noi ci è riuscito. Mentre la superiora parlava Marina piangeva in silenzio; ad un tratto disse: - superiora, guardando in giro dentro questa cella vedo degli strumenti di penitenza. Ditemi, quando una suora veniva punita era obbligata anche a flagellarsi? La superiora rispose:- no figliola solamente doveva rimanere chiusa qui tutti quei giorni che dal capitolo era stata condannata e poi usciva. Quelle che si flagellavano lo facevano volontariamente; o perché si sentivano colpevoli, o per umiltà. Ma, senti una cosa; in mezzo a questi strumenti c’era una cintura di cuoio lunga una trentina di centimetri, larga quindici, irta di chiodi e di uncini di ferro, cintura che, dopo la partenza di Cecilia, qua non ho più visto: scommetto che me l’ha rubata lei per usarla come cilicio; scommetto che anche ora la porta addosso. – Marina rispose: - penso che la maternità vostra, dicendo che Cecilia ha portato via la cintura, ha colpito nel segno. – Stettero un altro poco e uscirono. Mentre s’allontanavano per entrare nella sala del capitolo Marina disse: - da quanto tempo non venivano suore in questa cella per far penitenza? – La superiora rispose: - da quanto tempo sono qua io, e sono circa trent’anni, non c’è entrata più nessuna. – Allora Marina disse: - il punire le suore che trasgrediscono le regole penso che tante volte può dipendere, non tanto della loro colpevolezza quanto del cattivo modo di essere governate. In una parola, chi sta al governo della comunità non sa comprenderle e queste vengono meno al loro dovere. – La superiora comprese che – benché indirettamente quelle parole d’elogio venivano rivolte a lei rispose semplicemente: - può essere e non disse altro. Intanto erano giunte nella sala del capitolo: trovarono Cecilia – presente la madre vicaria – in mezzo alle educande vecchie e nuove, che giocavano. Per loro era, almeno per il momento, ridiventata bambina. Suo marito e la madre vicaria stavano a guardarla e sorridevano. La superiora e Marina si fermarono facendo lo stesso. A tarda sera tornarono a casa. Quando partirono la superiora, tutte le educande e tutta la comunità li accompagnarono fino alla carrozza pregandole di ritornare. Cecilia disse di si ma non fece nessuna promessa. Arrivarono a Bovalino che era notte; Teresa e il marchese Sigismondo li attendevano un po’ preoccupati per l’ora tarda. Quando arrivarono tutti e tre erano felici. Il marchese Sigismondo li rimproverò dicendo: - vi siete divertiti? Penso di si perché la gioia si legge sui vostri volti, mentre noi qui, poveri vecchi, eravamo in apprensione per il vostro ritardo. Vecchi, vecchi, disse Cecilia, sempre parlate di vecchiaia e siete più giovane di noi. Era tardi e ognuno si ritirò nelle proprie stanze per riposare. |
I l marchese Fabrizio amava molto Cecilia, ed ella lo contraccambiava: pensava che meritava il suo amore; amore fraterno, amore filiale ma lo meritava. Pensava al sacrificio che aveva fatto di accettare di amarla come sorella e lo giudicava un ere, tanto più che quella richiesta di amarla soltanto come sorella gliela fatta proprio la sera delle nozze e lui l’aveva accettata: non solo ma, nel silenzio della notte, aveva pregato Dio di spegnere in lui il fuoco della concupiscenza e di conservarlo sempre puro. Cecilia si ripeteva: - questi sacrifici li sanno fare solo i santi e mio marito per me è tale. Sia ringraziato il Signore! Un giorno Fabrizio chiese a Cecilia – era la prima volta che lo faceva dopo il suo matrimonio – se voleva andare a passare una giornata al suo paese; così avrebbe avuto la possibilità di visitare il castello e i posti più belli. Cecilia accettò a patto che sarebbero ritornati in giornata. Disse: - il perché di questo mio desiderio tu lo comprendi. – Fabrizio accettò e una mattina per tempo partirono. Arrivarono verso le nove. Il nipote del marchese andò a riceverli all’entrata del castello. A Cecilia fece molti complimenti e auguri baciandole con cavalleresco la mano. Cecilia accettò i complimenti del nipote e rispose con serietà e dignità dichiarandosi lieta di visitare quel castello che fu la casa di suo marito. Dopo pranzo il nipote li accompagnò a visitare diversi posti e verso il tramonto del sole ripartirono per Bovalino. Arrivarono a casa che era ancora presto e Sigismondo con Marina e Teresa si meravigliarono di vederli arrivare così presto. Fabrizio disse: - così ha desiderato la signora e i suoi desideri sono ordini per me. In quelle poche ore che erano rimasti al paese di Fabrizio tutti quelli che lo conoscevano ebbero la possibilità di avvicinarlo e ossequiarlo complimentandosi, specie per la sposa che aveva saputo scegliersi. Aveva ricevuto da tutti anche di quelli che prima lo allontanavano per la sua bruttezza ottima accoglienza e da tutti aveva ascoltato parole lusinghiere, ed oggi che come diceva lui sentiva di non meritare. Ogni tanto si voltava verso Cecilia e, piano, piano, le diceva: - prima ero odiato, disprezzato, sfuggito quasi da tutti. Chi operò questa trasformazione? – Tu, soltanto tu che il Signore ti benedica e ti dia tutte le grazie che il tuo cuore desidera. Cecilia, io devo a te le mia felicità, come farò per ricompensarti? Cecilia rispose: - volendomi bene! |
Q uattro anni circa sono passati dal matrimonio di Cecilia. Nel castello di Bovalino vi regna la più perfetta pace, la concordia, la tranquillità, l’amore. Il marchese Fabrizio non esce di casa se non quando deve accompagnare la moglie per recarsi a compiere qualche opera di bene. Nel paese è poco conosciuto perché il tempo che passò tra il fidanzamento e il matrimonio fu breve e quindi brevi furono le visite al castello che poi doveva essere suo. Quelli che lo conoscevano lo amavano, lo stimavano e si dicevano lieti quando potevano trascorrere un poco di tempo in sua compagnia. Suo suocero si accorgeva di tutte queste dimostrazioni di stima fatti a suo genero e ne era lieto. Cecilia e Marina erano come al solito sempre insieme e quando non avevano nulla da fare passavano il loro tempo lavorando: ricami e cucito, lavori che poi finivano per arricchire qualche chiesa povera del paese o dei dintorni. Teresa accudiva alle faccende di casa. Una sera di novembre il marchese Sigismondo annunziò che la mattina dopo si sarebbe alzato presto per andare a caccia, disse che non lo aspettassero per mezzogiorno e che non sapeva, la sera, a che ora sarebbe ritornato. Ritornò infatti piuttosto tardi, non volle cenare e andò a letto dicendo che si sentiva poco bene. Cecilia e Fabrizio, come pure Marina, se ne accorsero e lo pregarono di permettere loro di vegliarlo dato che, sentendosi poco bene, durante la notte poteva avere bisogno di qualche cosa. Lui rispose dicendo: - Signori state pur tranquilli sul conto mio, sono stanco per aver troppo camminato e poi, se dovessi aver bisogno di qualche cosa suonerò. Andò a letto augurando a tutti la buona notte, a l’una si sentì male, cercò il campanello e non riuscì a prenderlo: gettò un leggero grido e cadde riverso sul guanciale: era morto. La mattina i familiari, quando videro che verso le nove non si era fatto vedere s ‘impensierirono e tutti corsero nella sua stanza da letto: vi entrarono, dato che la porta era socchiusa, e lo trovarono morto con il braccio destro fuori dalle coperte. Guardando per terra videro il campanello: l’aveva preso per suonare, gli era caduto di mano e lo spesso tappeto aveva attutito il rumore. Cecilia, vedendolo gettò un grido: - padre mio! – E si gettò sul suo corpo ormai freddo. Fabrizio si avvicinò e cercò di sollevarla con dolcezza per toglierla di là. Cecilia girò lo sguardo verso di lui e lo pregò di lasciarla in quella posizione, avrebbe voluto piangere sul corpo di suo padre, di quel padre che tanto l’aveva amata e a cui lei aveva recati – bensì involontariamente tanti dispiaceri. Dopo poco fu necessario togliersi di là, bisognava vestire il cadavere per la sepoltura. Questo pietoso ufficio lo compì, Pietro il cameriere fidato, aiutato dal cocchiere. Intanto vi era accorso il cappellano, tutto il personale di servizio e altra gente. Vennero portate tre casse che furono acquistate in un altro paese. Quando il cadavere fu composto e chiuso nella cassa venne portato nella camera ardente preparata nella sala grande del castello, dove rimase per tutta la giornata. Tutti i suoi sudditi vollero rendergli omaggio e quindi vi passarono rispettosamente davanti gettando fiori sulla cassa e in mezzo alla stanza. Il cappellano era lì in ginocchio assorto in preghiera e vicini a lui stavano Cecilia Marina e Fabrizio. Marina lo pianse chiamandolo padre e ne aveva ben d’onde perché per lei era stato veramente padre. A Cecilia e a Marina le aveva voluto bene, le aveva trattate allo stesso modo e a tutte e due aveva fatto ricevere la medesima educazione senza fare delle particolarità, insomma le aveva trattate come se fossero entrambe sue figlie. E Teresa? Lei aveva pianto in silenzio perché si considerava nulla; lei non era stata altro che una povera serva anche se nel castello non era considerata tale, anche se il marchese l’aveva stimata molto e qualche volta – se non spesso – era ricorso a lei per consiglio. Come dicemmo pianse in silenzio perché anche lei amava il marchese se non per altro almeno per tutto quel bene che egli aveva fatto alla sua figliola. Si fecero i funerali e tutto il paese vi prese parte come anche gente di altri paesi. Ci furono discorsi che elogiarono il grande scomparso e tutti ne piansero la perdita. Nel castello il lutto durò oltre un anno e poi Cecilia e Fabrizio ripresero la vita normale e la parte migliore del loro tempo la spesero in opere di carità: Cecilia voleva seguire il programma di sua madre: consolare gli afflitti, aiutare i deboli e gli oppressi, i giusti perseguitati, gli orfani abbandonati. Fabrizio le fu compagno e cercò di contentarla sempre. |
D opo la morte del marchese Sigismondo dato che non aveva lasciato figli maschi, Cecilia si trovò investita dall’autorità paterna, di quell’autorità che deve usarsi per governare il feudo di Bovalino. Di nome governò Cecilia ma di fatto governò suo marito: Il marchese Fabrizio. Governò con bontà, con saggezza, con carità; virtù queste che – ben praticate lo resero il feudatario modello, tanto vero che altri signori dei castelli vicini, spesso vennero a lui per prendere lezioni sul modo di governare. Trascorso il lutto per la morte di Sigismondo, un giorno Cecilia disse al marito: - è bene che qualche giorno di questi incominciamo, tu ed io la visita del feudo (anche se tu fugacemente lo visitasti) io lo conosco perché mio padre, da quando ebbi dodici anni, ogni anno in tempo di vacanza quando in un paese, quando in un altro, mi portò sempre. Andremo e ci accompagnerà Pietro, affinché - nel caso che io venissi a mancare- tu conosca tutto il territorio posto sotto la nostra giurisdizione Fabrizio rispose: - questo giro di visite lo cominceremo quando tu vorrai, per carità- non parlare di morte perché, sia tu che io, ne abbiamo sofferto abbastanza. – Cominciarono il giro qualche settimana dopo: Cecilia, Fabrizio Marina e il cameriere Pietro. Il primo paese che visitarono fu Benestare, il paese più vicino, abitato da coloni del marchese. Il maggiordomo di casa aveva avuto cura di avvisare il parroco qualche settimana prima in modo che a sua volta- avvisasse la popolazione affinché si tenesse preparata per ricevere, nel miglior modo possibile, i suoi signori. Benestare era un paese fatto di case basse, ad un solo piano e con una sola apertura: la casa migliore – a due piani – era quella del parroco. Il giorno dell’arrivo tutta la popolazione – con in testa il parroco – andò all’ingresso del paese per ricevere i suoi signori. Giunti al posto dove videro fermo il parroco, scesero di carrozza ordinando al cocchiere che camminasse piano, venendo dietro l’ultimo di tutti. Formato il corteo, vicino al parroco venivano Fabrizio e Cecilia tenendosi per mano. Per prima entrarono in chiesa dove il parroco celebrò una funzione di ringraziamento e fece un discorso ai signori che erano venuti, per la prima volta, a visitare il paese. Usciti di là Fabrizio pian piano domandò a Cecilia l’origine di quel nome: Benestare, o per dir meglio l’etimologia. Cecilia rispose: - io non saprei dirtelo, non so cioè se il paese fu chiamato con questo nome da mio nonno o da mio padre, ma so che si chiamò Benestare perché tutte le volte che i coloni venivano a casa nostra, se qualcuno domandava loro come stavano, rispondevano: benestare, benestare! – Penso – continuò Cecilia – che interpellato ancora c’è qualcuno che risponde così. Non avevo finito di parlare che passò davanti a loro un vecchio contadino curvo sotto un pesante sacco di erba che aveva raccolto per gli animali. I marchesi lo fermarono e lui – posto il sacco a terra – si tolse dal capo il lungo berretto di lana e saluto. Il marchese gli disse: - come state? Il contadino rispose: - Benestare, signor marchese, vostra grazia ha dei comandi da darmi? A quella risposta Fabrizio e Cecilia sorrisero e lo accomiatarono. Prima che se ne andassero, il marchese, tolta da tasca una moneta d’argento gliela porse dicendo: - questa per comprare il tabacco. – Il contadino rispose: - grazie marchese, il signore ve ne renda merito. La visita del feudo durò circa un mese, terminata la quale i marchesi rientrarono al castello. Il tempo della visita fu per Marina una gita di piacere. Durò circa un mese, non tanto per l’estensione del territorio , quanto perché tutte le sere – per volere di Cecilia – si ritornava a casa e poi, di buon mattino si ripartiva. Fabrizio, Cecilia, Marina e il loro seguito erano contenti: visitarono tutti i posti, entrarono in tutte le case, distribuirono molto denaro e Cecilia ebbe per tutti parole di consiglio e di conforto. A Cecilia piaceva quando beneficava qualcuno – sentirsi ripetere: - ( pregherò o pregheranno ) per l’anima dei vostri genitori. Lei diceva al marito che era più felice nel dare che nel ricevere. E Teresa? In quel tempo rimase sola al castello e sentì di più, perciò, la mancanza del marchese Sigismondo ed ebbe modo di piangerlo e riandare col pensiero a tutte le gentilezze, ai doni, alle buone parole e ai ricordi che aveva avuto di lui. L’amore di Teresa per il marchese non era stato l’amore comune, ma un amore fatto di dedizione, di riconoscenza, di gratitudine. Dopo il rientro al castello dei nostri personaggi, Teresa cominciò a deperire di giorno in giorno e Marina non se ne accorse; forse perché l’affetto gliela faceva vedere sempre sana, sempre allegra e, quel che più, tanto buona. Forse perché la spensieratezza della gioventù non le permise di notarlo.Fatto è che, come dicemmo, Marina non comprese che sua madre non stava bene. Cecilia invece se ne accorse e una sera lo disse al marito. Tutte e due d’accordo decisero – almeno per allora – di non dir nulla a Marina. Teresa ogni giorno si sentiva sempre più stanca lavorava senza lena e la sera si ritirava presto accusando quando un dolore di testa, quando un guaio e quando un altro; cose tutte da non preoccuparsi. Un giorno non si alzò dal letto – disse che aveva la febbre – chiamarono il medico, il quale dopo averla visitata – dichiarò che non c’era nulla da preoccuparsi però, almeno per quel giorno, restasse a letto. Il giorno dopo la febbre aumentò e così nei giorni seguenti. Il medico la visitava di frequente e non seppe dire mai di che malattia si trattava. Dopo quindici giorni di degenza a letto Teresa aggravò e si dovette chiamare d’urgenza – oltre il medico – il sacerdote che le amministrasse i sacramenti da lei ricevuti con molta edificazione. Marina e Cecilia stettero al suo capezzale, non l’abbandonarono più: l’assistettero come due figlie devote ed affezionate sanno assistere. Piangendo e sospirando, entrambe, la chiamavano mamma.Quel “ mamma “ a sentirlo ripetere singhiozzando e da parte di tutte e due, straziava il cuore. Teresa morì una sera verso l’ora del tramonto del sole e stringendo tra le braccia tutte le due figlie: Cecilia e Marina. Cominciò per la casa di Cecilia un altro lutto, non meno grave e non meno sentito del primo. Il povero Fabrizio soffriva quanto loro ma si sforzava di consolarle in tutti i modi. La gente del paese si strinse attorno ai suoi signori, ne prese parte al lutto e per quanto potè affinché il marchese Fabrizio e i suoi familiari comprendessero una volta ancora che erano amati. |
C ol passare del tempo intorno a Cecilia si andava facendo un gran vuoto; ella se ne accorgeva e tremava: erano morti suo padre e Teresa che ella tanto aveva amato ed era stata riamata; era morto il cappellano suo confessore e custode del suo segreto; è vero che era stato sostituito da un altro buon sacerdote, ma questi non comprendeva Cecilia e da lei non era compreso. Era morta la buona superiora del suo monastero sostituita da un’altra molto giovane e quindi incapace a reggere quella carica. Cecilia la vide e non le piacque, tanto vero che sospese le sue visite al monastero. Insomma, tutte le persone che le erano care non c’erano più! Si sentì triste e sola: c’erano è vero suo marito e Marina, c’erano le persone di servizio – quattro in tutto – a lei assai devota e con tutto ciò il castello le sembrava vuoto. La sera – specie nelle lunghe sere d’inverno quando si riunivano nel salotto dopo cena si sentivano soli. Fabrizio e Marina un giorno decisero di ammettere in loro compagnia la cameriera e la cuoca – due buone donne del paese – si stava insieme fin verso le nove e poi ognuno si ritirava nelle proprie stanze per il riposo della notte. Fu questa la vita vissuta nel castello per alcuni anni, dopo la morte di Teresa,. Fabrizio governò il feudo, con una saggezza che lo rese celebre, fino all’età di setta anni. Una sera, quando si stavano ritirando per dormire, giunto alla porta della sua stanza, Fabrizio disse a Cecilia di sentirsi male. Questa lo guardò allarmata e gli chiese che cosa aveva. Fabrizio rispose: - non è nulla, non allarmarti, si trattava di un malessere generale e nulla più. Cecilia gli disse: - fermati qui, siediti su quella poltrona ed intanto io vado nella stanza a prenderti il pigiama e per questa sera dormirai nel mio letto. – E tu? Rispose Fabrizio – Io : - disse Cecilia – resterò seduta al tuo capezzale per vegliarti ed intanto manderemo a chiamare un medico. Fabrizio sedette e Cecilia entro nella sua stanza, ritornò presto col suo pigiama, lo posò sul letto e suonò. Al cameriere accorso disse: - Pietro, aiutate il marchese a spogliarsi, mettetelo a letto mentre io mi ritiro un po’ in cappella per dire le mie preghiere; quando il marchese sarà pronto suonate ma fate presto perché come vedete non si sente bene. Si ritirò nella cappella e li lasciò soli. Pietro lo aiutò a spogliarsi lo mise a letto, aggiustò ogni cosa, e dopo alcuni minuti suono. Cecilia accorse e si sedette su d’una poltrona, vicino al capezzale del marito, dicendo a Pietro: - Pietro andate subito a cercare un medico, possibilmente il nostro, conducetelo qui. Pietro rispose: - signora marchesa sarà subito servita, mi occorre solo il tempo per arrivare alla casa del medico. Dopo dieci minuti il medico era arrivato e con lui entrava Marina tutta spaventata. Il medico visitò accuratamente Fabrizio e dopo alcuni minuti alzò la testa e disse a Cecilia: - signora marchesa, si tratta di cosa seria; il marchese è ammalato di polmonite però voi non vi allarmate. – Tenteremo tutti i mezzi per salvarlo, magari, col vostro consenso chiameremo un altro collega e faremo un consulto. Cecilia rispose: - dottore fate di tutto per salvarlo, vedete che sono rimasta sola, ad eccezione della mia cara Marina, non c’è nessuno qui con me: sola, completamente sola! Piegò la testa tra le mani e si mise a piangere. Fabrizio se ne accorse e disse: - perché piangi? Hai inteso che il medico disse che non si tratta di cosa grave? Se fai così come farai ad assistermi nel caso che la malattia dovesse andare a lungo? Cecilia alzò la testa, congiunse le mani, pregò un poco e poi disse: - hai ragione, mettiamo tutto nelle mani di Dio, mettiamoci sotto la protezione della Madonna e lasciamo fare a loro. – Il medico che se n’era andato pochi minuti dopo la visita, ritornò la mattina seguente, visitò l’ammalato e lo trovò peggiorato. Prescrisse un'altra medicina e si allontanò promettendo di ritornare ancora. Marina non si era mossa dal fianco di Cecilia, volle tenerle compagnia. Il medico, ritornò ancora e, rivedendo l’infermo, disse: le cose vanno male, io direi di fare un consulto. – Si chiamò un professore e questi venne. Dopo averlo visitato, tutti i due medici si ritirarono in un'altra stanza dove discussero per oltre mezz’ora. Quando rientrarono nella stanza dell’infermo lo guardarono e poi – guardando Cecilia e Marina – dissero la crudele verità. Non c’era nulla da fare! Cecilia e Marina piansero a lungo e poi fu giocoforza calmarsi. Con l’aiuto di Pietro, del cocchiere e delle cameriere cominciarono ad aggiustare le cose per la morte del marchese. Fabrizio morì dopo quattro giorni con tutti i conforti religiosi. Morì baciando la mano di Cecilia e quella di Marina che poi tenne stretta tra le sue. Spirò baciando il crocifisso che Cecilia stessa gli aveva avvicinato alle labbra. Prima di morire ebbe la forza di dire a sua moglie: - Cecilia cara, ti ringrazio per il bene che mi hai voluto, ti ringrazio che mi hai insegnato ad essere buono e a sapere apprezzare e praticare la bella virtù della purezza. A Marina – prima ancora di Cecilia – aveva detto: - a te, Marina cara che cosa dire? Ti raccomando Cecilia, ormai a lei rimani tu sola, siete state sorelle, siatelo ancora, siatelo sempre e tu confortala, vogliale bene e stalle sempre vicina. Alla morte di Fabrizio il castello rimase al comando della marchesa Cecilia la quale dopo i funerali ebbe cura di cedere tutto ad un marchese della famiglia Spinelli, forse suo lontano parente. Chiese per se una cosa sola: di rimanere nel castello per un tempo indeterminato – come poteva anche darsi per tutta la vita. |
U n giorno era da poco trascorso il lutto per la morte del Marchese Fabrizio. Cecilia e Marina si trovavano nella sala di soggiorno: l’una era occupata ad un lavoro di ricamo, l’altra leggeva. Ad un tratto smisero il lavoro e la lettura, si guardarono un poco e poi si abbracciarono e piansero lungamente. Scioltosi dell’abbraccio Cecilia disse: ed ora che sarà di noi? Che cosa faremo?- E’ quello che volevo domandare a te rispose Marina. - Cecilia replicò: Adesso sistemeremo le nostre cose e dopo – con l’aiuto di Dio – cercherò di realizzare il sogno che ho vagheggiato fin della mia prima infanzia, quello cioè di chiudermi in un monastero e là finire la mia vita. Spero che adesso - padrona della mia volontà – potrò portare a compimento ciò che da tempo desideravo. -Marina, come meravigliata, le disse:- Una suora? Tu vedova e che hai conosciuto Fabrizio? Cecilia replicò: - ai due tuoi interrogativi darò una sola risposta:- per venticinque anni ho conosciuto Fabrizio, ci siamo amati solo come fratello e sorella. E qui le narrò la storia della sua vita incominciando dalla prima notte di matrimonio. Marina ascoltò attonita e poi – come tenendo il broncio – disse : - e di questo fatto hai tenuto il segreto, con me, per venticinque anni? - Cecilia le rispose, tu sai quanto ti amo, se ti ho tenuto il segreto fu perché, come sai, certe cose alle signorine non si possono dire. -Nel pomeriggio di quello stesso giorno fece chiamare il cappellano e con lui parlò a lungo. Gli disse, tra l’altro, che avrebbe voluto tentare, prima per vedere se le riusciva di andare in quel monastero dov’era stata educata. Il cappellano le rispose che lui non poteva fare altro che raccomandarla e che, poi, l’avrebbe accompagnata con le sue preghiere ma che a lui gli sembrava difficile che nuova superiora l’avrebbe accolta. La mattina dopo Cecilia scrisse una lettera alla superiora del monastero e mandò Pietro a portargliela. In quella lettera chiedeva un appuntamento. Pietro si recò a Gerace portò la lettera e attese la risposta. La risposta giunse dopo circa un ora. La superiora concedeva l’appuntamento tre giorni dopo che era domenica e fissava l0orario: - le due del pomeriggio. La domenica Cecilia accompagnata da Marina pranzarono verso le dieci e partirono con Pietro. Si recarono a Gerace dove arrivarono circa un ora e mezza prima dell’ora fissata. Marina attese in portineria e Cecilia, giunta in parlatorio, vide la superiora che l’attendeva dietro la grata. Cecilia s’inginocchiò e con parole,interrotte dal pianto narrò la sua storia; narrò la sua vita dopo il matrimonio e terminò esprimendo il desiderio di farsi suora. La superiora ascoltò e durante la narrazione del lungo racconto, spesso, fece l’atto di spazientirsi, ma Cecilia finse di non accorgersi. Quando ebbe finito la superiora disse: - < figliuola mia i miracoli li fanno i Santi e voi non siete una santa >. – E la congedò. Cecilia s’alzò col volto bagnato di lacrime, la salutò con un breve cenno del corpo e si allontanò. A Marina, che l’attendeva impaziente, narrò ogni cosa e questa pianse con lei non potendo fare a meno di ricordare la bontà e la gentilezza della vecchia superiora, la buona e cara madre Adelaide che le aveva voluto tanto bene. Salirono in carrozza e ritornarono al castello dove Cecilia si fece premura di riferire al cappellano l’esito della sua visita alla superiora del convento di Gerace. Tentarono in altri diversi monasteri ma da tutte le parti si ebbero quasi la stessa risposta: - in monasteri di vergini le vedove non venivano accettate anche se vissute santamente. – Ed allora che cosa fare? Ci penserà il Signore. |
V isto che non aveva potuto essere accettata in nessun monastero Cecilia, aiutata dal cappellano, pensò di fare del suo castello come un monastero e là – con il lavoro e la preghiera – servire santamente il Signore, chiamò con sé alcune signorine che desideravano ritirarsi a vita religiosa – sette in tutto – ed il cappellano scrisse per loro una regola. Vissero vita comune. Il loro motto quello di San Benedetto “ ora et labora “. Chi tesseva, chi cuciva, chi ricamava ed il loro lavoro era alternato alla preghiera. Tre volte al giorno si riunivano in cappella per pregare in comune. La mattina ascoltavano la messa, facevano la Santa Comunione e il cappellano dettava una breve meditazione, alle due del pomeriggio – in tutte le stagioni, il Santo Rosario e visita al S.S. Sacramento, alle sei nuova meditazione e benedizione. Così passarono le loro giornate. Questa vita durò finché Marina e Cecilia ebbero quasi setta anni. Abbiamo parlato della vita che facevano in casa, tralasciando di dire il bene che facevano fuori di casa. Nei giorni di festa giravano per le campagne per soccorrere i bisognosi, per insegnare il catechismo ai ragazzi e per fare quanto più bene potevano. Dove c’era una questione di aggiustare, un dolore da lenire, una lacrima da tergere erano sempre le prime ad occorrere e le ultime ad allontanarsi. Dovunque andavano, quando si allontanavano, erano accompagnate degli auguri e delle benedizioni dalle persone da loro beneficiati. Un giorno Cecilia si senti male; lo disse a Marina e ad un'altra compagna e queste la costrinsero a mettersi a letto. Chiamò Marina e così le parlò: - Marina cara, sento che non vivrò troppo a lungo, il Signore mi chiama a se, voglio perciò – ora che posso parlare – dirti alcune cose che è bene che tu sappia: - nell’armadio grande c’è una scatola di cartone legata con un nastro nero; là dentro ci sono gli abiti coi quali tu mi vestirai quando sarò morta: c’è la biancheria intima e un abito da suora francescana, se non sono stata suora realmente, lo sono stata col desiderio e penso che nessuno mi vieterà di vestire quell’abito dopo la morte. Ti ho detto: mi vestirai tu perché nessuno veda la mia carne, come nessuno le ha viste finora. Se ciò non ti riuscirà fare da sola, tu mi metterai la camicia chiusa e la sottana bianca che si trovano nella stessa scatola di cui ti ho parlato e poi chiamerai aiuto. Quando sarò ben vestita mi metterete in una cassa rustica a piedi scalzi. Dopo i funerali mi farete seppellire nel convento dei riformati e precisamente presso l’altare di San Francesco . Sulla lapide che coprirà la mia tomba si scriverà l’ipigrafe che il superiore dello stesso convento – ispirato da Dio – detterà. – Finito di parlare Cecilia disse di essere stanca. Marina non si mosse dal suo capezzale; tirò fuori la corona chiamò le compagne e tutte insieme incominciarono la recita del Santo Rosario: Cecilia rispondeva ma così piano che, se si volevano sentire le parole, bisognava accostare le labbra all’orecchio. L’indomani Cecilia peggiorò: fu chiamato il medico il quale – dopo averla visitata – disse che era grave ma non seppe dire altro e si contentò di dire: - è l’età. – Passarono ancora altri due o tre giorni ed il cappellano – che non si era scostato dal castello – credette giunto il momento di amministrare i conforti religiosi. La confessò, le portò il viatico e l’olio santo. Quando le fu portata la Comunione Cecilia, nel mirare la particola sollevata dal sacerdote, disse con un filo di voce:- vieni Gesù, tu solo mi basti: - Nel pomeriggio Cecilia parve migliorare: volle che le sue amiche stessero tutte attorno al suo letto e che Marina leggesse ad alta voce la passione di Gesù dal Vangelo di San Giovanni arrivò alle parole: - “ e chinato il capo emise lo spirito “ Cecilia guardò il cielo, sorrise e disse: - “ Gesù! Gesù! Ecco vengo! “ Emise un sospiro e spirò. Marina e le compagne piansero la perdita della loro madre – per tale l’avevano ritenuta per tutto quel tempo che erano vissute insieme – E poi Marina pregò le compagne di allontanarsi, però volle che due di loro restassero in anticamera pronte per quando le avrebbe chiamate. Quando fu sola s’inginocchiò e con le mani tremanti cominciò a vestirla. Quando scoprì quelle carni verginali vidi attorno al suo corpo la cintura che mancava nel monastero dagli strumenti di penitenza: quei chiodi di cui era rivestita si erano conficcati nella carne. Quella cintura Cecilia l’aveva portata sempre sul suo corpo nudo stretta assai forte. Marina baciò quelle carni ferite e calde lacrime caddero sopra di esse facendo si che quel sangue raggrumato si sciogliesse come se fosse fresco. Dopo essersi saziata di baciare dopo aver pregato lungamente le mise la camicia nuova la sottana, e quando fu ora di mettere la tunica chiamò le sue compagne che erano in attesa e queste l’aiutarono: misero la tunica bigia, legarono attorno alla vita il cordone, legarono le mani di cecilia con la corona e sul petto vi misero il Crocifisso. L’adagiarono poi nella cassa rustica già pronta e loro stesse la portarono nel salone trasformandolo in camera ardente. Misero la cassa a terra e attorno quattro grossi ceri accesi. Le compagne ed il cappellano restarono in preghiera tutta la notte. La mattina dopo le porte del castello si aprirono al pubblico non ci fu persone che non venne a rendere l’estremo saluto, l’ultimo omaggio alla cara castellana che ormai non c’era più: tutti nessuno escluso vi portarono lacrime e fiori. I funerali ebbero luogo verso le undici. E’ superfluo dire che tutto il paese e la gente dei dintorni vi presero parte, come pur tutti i paesi vicini e le autorità. Quanti non poterono partecipare personalmente, mandarono una rappresentanza. Ci furono dei discorsi che elogiarono la santa vita di Cecilia e delle sue compagne, le quali – dopo, perduta colei che le guidava – si erano ritirate alle loro case santificandosi nella vita privata . Narrano le cronache che dopo la morte di Cecilia Marina non sopravvisse che pochi giorni e poi anche lei senza malattia morì. L’amore essendo virtù essenzialmente fa di due anime un anima sola. Come Cecilia e Marina furono unite in vita, così lo furono in morte. Trascorso il periodo di lutto il nuovo proprietario vi prese possesso del feudo e del castello. |
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