Mario La Cava:
voce delle vittime del mondo
di Gianni Carteri
Ernesto Buonaiuti, che insegnò Storia del cristianesimo all'Università di Roma prima di essere espulso dal regime perchè tra i tredici professori universitari che rifiutarono la tessera fascista e scomunicato dal Sant'Uffizio (fu reintegrato solo nel 1944), era un uomo che sapeva molto ascoltare. Nel suo pellegrinaggio calabrese per dedicarsi allo studio di Gioacchino da Fiore finì nell'agosto 1928 ospite (in incognito) del suo medico curante Francesco La Cava, libero docente a Roma di patologia esotica e con grandi doti di umanista (sua la scoperta del volto di Michelangelo nel "Giudizio Universale").
Mario La Cava aveva appena 19 anni: era nato l'11 settembre 1908, di venerdì, e qualche mese più tardi, all'alba del 28 dicembre, sua madre lo nascose sotto il suo corpo per proteggerlo dai calcinacci della tremenda scossa di terremoto. L'incontro del Buonaiuti in casa dello zio fu qualcosa di più della conoscenza di una grande personalità.
«Egli, con la sua amorosa pazienza reagì al mio complesso di inferiorità di giovane isolato e diede ali alle mie speranze », scrive La Cava su «Ausonia » presentando nel 1961 se stesso.
Il professore romano fu l'uomo che arrivò al momento giusto per un giovane in erba che non sapeva parlare, non sapeva farsi valere, non sapeva imparare e aveva bisogno di tanta comprensione. Lo accolse con attenzione benevola trasmettendogli una fiducia a piene mani. «Il suo giudizio andava oltre le apparenze », dirà sempre lo scrittore, ricordando quei giorni, «e arrivava dove l'uomo è sconosciuto a sé stesso ».
La Cava ha amato molto la Calabria e la sua Bovalino, la sentì come « una polis per la sua ispirazione» che gli risvegliava di continuo il fascino dell'antica cultura, il mistero delle oscure origini. Una polis che per lui era tutto il mondo, il suo mondo al quale egli rimase fedele tutta la vita e dal quale trasse alimento per la sua opera sull'orma degli antichi greci, riuscendo a cogliere i segni e i misteri della sua terra, rivivendoli e trasfigurandoli in dolente poesia attraverso una prosa scabra ed essenziale. Nelle sue opere e nel suo dramma «Un giorno dell'anno », protagonista diventa l'uomo singolo, in una particolare azione del suo esistere, nel momento cruciale, unico, in cui contemporaneamente deflagrano la sua personalità e il suo destino. E la sventura, condizione connaturata alla natura di uomini, diventa il motivo dominante dei principali racconti e romanzi lacaviani, i cui protagonisti sono immersi in un mondo di contraddizioni insanabili, vittime di forze destinate a travolgerli.
In questa verità, che può parere a prima vista aspra e penosa, si cela tutto il senso della poetica di Mario La Cava, il vero e autentico itinerario della sua asciutta religiosità che derivava dal suo nascere giorno dopo giorno come scrittore.
«Caratteri », si intitola il suo primo libro pubblicato nel 1939 presso Le Monnier per merito di Giorgio Vecchietti e Giannino Marescalchi. Il libro contiene una raffinata poesia della realtà della vita, le cose semplici della quotidianità con uno stile letterariamente dimesso, attinto spesso al parlato e perciò accessibile ad ogni cultura.
Il 1953, l'anno della ripubblicazione dei «Caratteri » per merito di Vittorini, è un anno importante per lo scrittore: il 13 giugno sposa, a Roma, Maria; una bella ragazza figlia di un artigiano, di quasi trent'anni più giovane di lui e per questo in contrasto con la famiglia.
Da lei avrà quattro figli. Nella casa era stata anche accolta qualche anno prima una bimba di due anni, figlia di operai, che ispira allo scrittore l'opera da lui giudicata la più felice della sua produzione, quei «Colloqui con Antonuzza » del 1954 che Leonardo Sciascia pubblicò nella sua collezione di «Galleria » dopo averne incoraggiato la composizione.
Un ritratto morale, colto attraverso le parole memorabili dell'infanzia, colloqui che Pier Paolo Pasolini giudica «deliziosi » in una lettera indirizzata allo scrittore il 25 maggio 1955 per ringraziarlo della recensione ai suoi «Diari » che giudica fra le più belle pagine che siano state scritte su di lui: «Me le tengo carissime per la sua acutezza e la sua sensibilità ».
Anche Sciascia le giudica pagine «di pungente candore» e dove Antonuzza con ritmo elementare e martellante esprime pareri su tutto ciò che la circonda, scopre la creazione attraverso una immediata ricerca della verità cui fa da contrappunto la pensosità dello scrittore che è affettuosa e sagace, ricca di osservazioni che scaturiscono dalla vivezza di sentimenti connaturati in una bambina.
L'opera e l'amicizia del Buonaiuti, interprete e filosofo della religiosità nel mondo, furono certamente per La Cava cariche di suggestioni sottili e affascinanti, anche se non approdo a una piena risposta di fede personale, dando a Dio il volto umano di Cristo.
La Cava preferisce l'amore umile e sofferto, mimetizzato nelle sue dolenti figure di Caterina ed Elena, che ci riconducono ai romanzi «Il matrimonio di Caterina » e «La ragazza del vicolo oscuro », che, come la patetica Ninetta di «Una storia d'amore», sono rappresentative di un certo tipo di società meridionale che a fatica si evolve.
I romanzi «Mimì Cafiero », «Vita di Stefano» e il dramma «Un giorno dell'anno», sono accomunati dal suicidio finale dei tre protagonisti. Il delitto di sangue e il tema conduttore di quest'ultima opera, forse la meglio riuscita di La Cava, che si ispira alla tragica vicenda umana vissuta a Bovalino da Francesco Barillaro (in arte Saverio Montalto), amico per una vita dello Scrittore.
Duccio Malintesta in preda a un raptus per le condizioni in cui versa la sorella, seviziata e maltrattata dal marito, dalla suocera e dalle cognate, la uccide per non vederla più soffrire. Il suo dolore e il suo rimorso danno alla vicenda il sentore di una profonda lacerazione impastata di sangue fraterno. Il delitto che aveva ridotto in una inguaribile misantropia il protagonista non poteva essere purificato che dalla morte di chi ha ucciso. Con «I fatti di Casignana» la narrazione di La Cava si cala totalmente nella tragica realtà sociale della Calabria, la cui civiltà così come i suoi misteri tenacemente resistono da oltre duemila anni.
Scrivendo «Viaggio in Egitto e altre storie di emigranti», lo scrittore, con il linguaggio comune della povera gente e sorretto da uno stile suggestivo e potente, ha saputo regalarci le più belle pagine della letteratura meridionale sull'emigrazione, sulla scia di Francesco Perri e Corrado Alvaro. Il vigore narrativo di La Cava non si defila, si immerge totalmente nel dolore della loro esistenza. La liberazione umana perseguita dallo scrittore è nello stesso tempo tensione alla liberazione della propria sofferenza interiore. La trasparenza della sua scrittura, specchio di una vita, limpida che lo iniziava giorno dopo giorno alla scrittura, aveva sì vinto la morte che sopraggiunse sorda e muta anche per l'avvocato che aveva per ottant'anni dato voce ai senza voce, attraversando per intero i brividi di un secolo senza pietà. Non era riuscito a giustificare le ingiustizie, né a nascondere la verità e per questo non pochi nel suo paese erano rimasti offesi dalla sua rettitudine. «Forse è morto per sapere di più sulla vita » disse Pasquino Crupi il giorno dei suoi funerali in una Bovalino straniata e indolente.
Assopendosi all'alba del 16 novembre di dieci anni fa, Mario La Cava si sarà ricordato di quel lontano settembre del 1928, quando era salito a Polsi, dormendo con Ernesto Bonaiuti per una notte sulla vetta di Montalto, aspettando l'arrivo di Umberto Zanotti Bianco e Manlio Rossi-Doria. Sotto le stelle pungenti e maligne si mescolarono poi alla folla dei miseri che dimenticavano le sofferenze abbandonandosi ai canti, ai balli agresti, sparando a salve e dando fuoco agli alberi in una folle smemoratezza.
A un tratto si sentì toccare dal professore, che con aria interrogativa gli sibilò pensieroso alcuni versi di Euripide: «Chissà se ciò che noi chiamiamo morte non sia vita e morte non sia ciò che noi chiamiamo vita». La luna dimessa e spogliata non smise per tutto il tragitto di attendere la sua risposta anche se aveva ben capito che l'ultimo suo pensiero sarebbe stato un pensiero di vita.