RICORDARE
AL FUTURO
Calabria. Immagini in Movimento
Reggio
Calabria, 3/4/5 dicembre 1997
IL CINEMA DIMENTICATO
Alcune note su Elio Ruffo
di Ettore Castagna
Mediateca
Regionale della Calabria
Med
Media, via Foro Boario 2, 89133, Reggio Calabria
“…curioso ingrediente la coscienza… vero Flavia?”
(Una rete piena di sabbia)
Di Elio Ruffo regista si sa poco o niente. Scarne, quasi laconiche le
note su di lui delle varie “storie” del cinema. Senza dubbio si tratta di un
autore dimenticato per decenni. Il suo ultimo film, “ Una rete piena di
sabbia”, risale alla metà degli anni ’60. La scarsa promozione di cui fu
vittima lo può fare considerare sostanzialmente inedito. L’incasso irrisorio
del film al botteghino ( i dati del periodo accreditano circa un milione e mezzo
di lire)conferma questo dato. Se è vero che Elio Ruffo dedicò ad “ Una rete
piena di sabbia” le sue migliori energie e il film dimostra comunque dei suoi
punti di forza ed interesse, vengono spontanee una serie di domande. La
principale , direi, è una: perché questo lungo dimenticatoio iniziato già al
momento dell’edizione stessa del film?
La domanda è complessa e forse richiede più di una risposta.
Elio Ruffo nasce il 1 Gennaio del 1921 da una famiglia dal nome
importante (1). I Ruffo sono di tradizioni repubblicane e massoniche. Gaetano
Ruffo, uno dei martiri di Gerace, è un loro illustre antenato. Così si chiama
anche Ruffo padre che si distinguerà successivamente in città per la sua
posizione fieramente antifascista. Il suo ruolo di avvocato, stimato e affermato
nel foro di Reggio Calabria, gli conferisce un prestigio che gli consentirà di
superare la fase difficile del ventennio mantenendo orgogliosamente le sue
posizioni politiche. Massone di Palazzo Giustiniani,
appassionato di scherma e di filosofia Ruffo padre si assunse l’onere della
difesa in tribunale del brigante Musolino. Il suo tentativo di provarne
addirittura l’innocenza nel processo di Modena tornò, come vedremo, in
qualche modo utile al figlio molti anni dopo.
Elio Ruffo ebbe il tempo, prima di trasferirsi a Roma, di intrecciare in
Calabria amicizie determinanti. Primo fra tutti lo scrittore Mario La Cava che
rimase nel tempo un prezioso riferimento nella stesura delle sceneggiature. Una
particolare stima lo legò a Pasquino Crupi. Per un certo periodo collaborò con
il Giornale di Calabria. Ed è infatti il giornalista una delle attività che
Ruffo coltivò nei lunghi intervalli fra i suoi film. Culturalmente il suo punto
di riferimento rimase comunque sempre il cinema. Questo lo portò a trasferirsi
a Roma in pianta stabile. Le sue prime esperienze con la pellicola lo vedono
come aiuto regista di Blasetti. Successivamente la sua rete di relazioni appare
ampia. Conosceva Visconti, Fellini, la Magnani, la Lollobrigida, Umberto Orsini,
Zavattini. Come regista si fece la fama di uomo pignolo. Raccontano che alcune
riprese di “ Una rete piena di sabbia” iniziate come “esterno notte”
siano terminate ben oltre l’alba.
Aderì alla corrente realista del cinema degli anni ’60 non solo come
cifra stilistica ma anche come battaglia culturale. Uno dei vari tratti
distintivi di questa adesione è l’utilizzo di attori “locali” accanto ad
alcuni professionisti. E’ una scelta classica verso un tipo di attore. Come si
disse allora “rispecchia i sentimenti del luogo”.
Scegliere il realismo in quegli anni complicava comunque una scelta di
campo. Era il mondo dei blocchi e della guerra fredda. Ruffo condivise in questo
una tendenza di gran parte degli intellettuali del momento entrando nel P.C.I.
Ciò nonostante suo padre non vedesse di buon occhio l’allontanamento dalle
radici repubblicane della famiglia. L’invasione della Cecoslovacchia segnò
successivamente una crisi e un distacco dalla politica militante. Questa
delusione accentuerà in Ruffo, da quel momento in poi, la tendenza caratteriale
di assumere posizioni molto personali e critiche.
Elio Ruffo era un uomo, nel profondo, riservato. Geloso e protettivo
verso il suo mondo di affetti, ne evitava il contatto con il proprio lavoro. La
figlia Enrichetta racconta che il regista non filmava nemmeno i compleanni delle
sue figlie. Nessuna otto millimetri amatoriale circolò nella sua casa romana.
Non si fece praticamente mai ritrarre alla
macchina da presa o, per lo meno , il suo album di famiglia non ne registra
traccia. Il radicamento nella capitale, l’ambizione di lasciare una sua
testimonianza nel mondo del cinema non cancellarono mai in Ruffo il senso di
appartenenza alla Calabria. A questa regione si indirizza praticamente tutta la
produzione a noi nota del regista. Fa eccezione, il documentario “ Il bosco
dei cavalli selvaggi” girato negli anni sessanta in Sardegna nonché alcuni
materiali rimasti inediti sulle cooperative di pesca in Romagna (2).
Girare “Una rete piena di sabbia” assorbì molto Elio Ruffo.
Fu circa un anno e mezzo di lavorazione, fra il ’65 e il ’66,
soprattutto in Calabria. I motivi della forte attenzione del regista per questo
lavoro sono vari. Il principale probabilmente era la voglia di riscatto dopo il
lungo silenzio seguito a “Tempo d’Amarsi” (1954/55). L’insuccesso
commerciale di questo film rese riluttanti i produttori, per un intero decennio,
ad investire sull’autore calabrese per quanto le sue doti di neorealista
fossero comunque riconosciute. Difatti Rondolino sul “Catalogo Bolaffi del
Cinema Italiano” (1945-1955) aveva osservato che sebbene “Tempo
d’Amarsi” fosse “un film concepito, diretto e prodotto da un giovane alle
prime armi” era questa già un’opera dalla quale emergeva “un chiaro ed
originale senso cinematografico”. “Tempo d’Amarsi”, con il suo basso
incasso di 8.000.000 (la cifra rimane “bassa” per un film anche valutando il
maggior peso della lira di allora) e la sua trama imbastita su una dolente
storia familiare fra Bovalino e San Luca, non incoraggiò le produzione a
reinvestire su Ruffo. Anche la stessa onda di un cinema realista e di impegno
sociale, a quel che pare, non fu sufficiente per esercitare un “effetto
trascinamento” sull’opera di Ruffo. Nel senso di una maggiore
“attenzione” del mercato anche verso un autore considerato “minore” e
così particolarmente e strenuamente legato alla Calabria.
“Una rete piena di sabbia” fu comunque per Ruffo un’esperienza
determinante alla quale l’autore volle dare una forte impronta personale. Il
film è ricco di citazioni autobiografiche. Il protagonista, Ennio de’ Roberti,
è un regista, di origine calabrese ma vive a Roma, è figlio di un
antifascista. Una implicita citazione dell’attività di avvocato di Ruffo
padre ritorna nella scena nella quale de’ Roberti mentre cerca di aiutare i
pescatori a vendere la loro mercanzia si scontra con un mafioso locale. Il
picciotto gli ricorda di conoscere bene suo padre che lo ha difeso in tribunale
più di una volta. Ulteriori elementi di identificazione fra Ruffo e il suo
personaggio stanno nella pozione politica chiaramente “di sinistra” dello
stesso, della sua propensione al “cinema verità”. Estremamente
significativo nel personaggio de’ Roberti
è l’atteggiamento di sfiducia verso l’ambiente romano dove comunque
vive. Ennio sa già che il suo documentario sarà cestinato. E’ l’emblema di
una carriera artistica consapevole di non poter incontrare alcun successo e
apprezzamento in quel momento e in quell’ambiente. Eppure Ruffo esattamente
come Ennio de’ Roberti gira caparbiamente
a suo modo e solo a suo modo. Il manifesto disincanto polemico del
personaggio de’ Roberti verso la Rai, o meglio verso il sistema che la
controlla, diventa automaticamente autobiografico in un momento preciso del
film. Flavia mette in guardia Ennio dal “toccare” temi politici nel suo
documentario per farlo accettare più facilmente a Roma. Ennio ironizza dicendo
che gli è stato addirittura cestinato un lavoro che trattava di cavalli
selvaggi in Sardegna. E’ un riferimento assolutamente incomprensibile senza
sapere che, come abbiamo già
accennato, effettivamente Ruffo girò un documentario per la Rai con questo tema
di cui si sono perdute le tracce. Sulla pista dei lavori “cestinati” Ruffo
coglie l’occasione per citare, questa volta direttamente ed in immagini, un
suo lavoro sulle cooperative di pesca in Romagna. Fa irruzione prepotentemente
il primo amore di Ruffo: il cinema documentario. La trama di fiction con questo
bagno di realismo assume il colore della verità. Con ogni evidenza chi progetta
la fiction, qui, non vuole rinunciare alla sua anima di documentarista.
In “Una rete piena di sabbia” la polemica autobiografica è violenta
e totale: contro il sistema politico-mafioso calabrese, contro quello romano che
appoggia, il mondo del cinema e della televisione che non capisce e che non
apprezza.
Il legame artistico di Ruffo con la sua terra, con gli occhi di oggi, fu
probabilmente un fattore frenante per ottenere l’attenzione della scena
nazionale. “Esisteva” la Calabria nell’Italia degli anni ’50 e ’60? La
depressione e la marginalità di questa regione era forte all’interno dello
stesso mezzogiorno. Lo stereotipo di un Sud nel quale o si è “napoletani” o
si è “siciliani” vige da tempi lontanissimi. L’attrazione di questi due
modelli del “meridionale” funzionò, e continua a funzionare, in termini sia
“commerciali” che di interesse artistico anche nel cinema italiano. Potremmo
sprecare gli esempi di grandi successi cinematografici su soggetti meridionali:
da quelli urbani (Roma e Napoli) a quelli rurali/siciliani.
La Calabria di Elio Ruffo, a prescindere dagli eventi meriti o demeriti
del regista, rimase esclusa.
Prima di Amelio e Commencini che si interessarono della Calabria in anni
molto più recenti, solo il “grande eretico” Pasolini, sia in letteratura
che nel cinema, diede prova di accorgersi a qualche titolo dei calabresi.
Pensando a “Sciuscià” (1946), a “La terra trema” (1947), a
“Ladri di biciclette” (1948) la denuncia cinematografica di un’Italia
Dolens trovò nel neorealismo italiano senz’altro un discorso di forza
straordinaria. I fratelli Taviani al loro esordio si rivolgeranno in Sicilia
(“Un uomo da bruciare”): Sono i primi anni sessanta. Poco dopo “Il giorno
della civetta” (1967/68) fu uno dei segni più rilevanti di un’attenzione
speciale mai spenta del cinema italiano ed internazionale verso la mafia
siciliana. Tutta questa grande parabola di opere e di artisti che parte dal
neorealismo postbellico e passa per il realismo politico degli anni sessanta
conferma pienamente l’impressione che la “Storia”, agli occhi del cinema
italiano, doveva transitare allora dai grandi crogioli urbani di Roma e di
Napoli o dai crocicchi di una mafia siciliana dalla ricca mitologica. In qualche
modo in quel momento queste realtà “gridavano” più della Calabria. Ciò
non poteva non attirare attenzione.
Per questo mi pare esagerato oggi fare al cinema italiano la colpa di non
aver imbastito alcun discorso sulla Calabria. La regione oltre che dalla Storia
sembrava esclusa dalla cronaca se non che per le grandi catastrofi naturali come
le alluvioni. Effettivamente negli anni ’50 e ’60 la stessa ndrangheta, così
“immancabile” in epoche più recenti per i nostri telegiornali, non aveva la
tragica importanza di oggi. O per lo meno quella assunta dai sessanta in poi.
Assolutamente profetica una scena di “Una rete piena di sabbia”in cui Ennio
riesce ad intervistare un mafioso calabrese. Questi ammettendo la
subordinazione, per il momento, alla più ricca cosa nostra siciliana, lancia
un’inquietante speranza al futuro prospettando una leadership a venire dei
calabresi.
La verità è che Elio Ruffo fu solo. Soprattutto perché la sua stessa
Calabria non lo capì. In questa chiave la “colpa”, se colpa ci fu, fu dei
calabresi. Il regista era troppo avanti rispetto ad una regione vittima di una
gigantesca operazione di disgregazione culturale decisa altrove ma che ebbe
consenziente il ceto “politico-dirigente” locale. Dal dopoguerra in poi (ma
forse da molto prima) i calabresi si sono trovati forsennatamente impegnati in
una colossale opera di rimozione. Era prioritario dimenticare di essere stati
contadini, pastori, pescatori. In Calabria si dice “puzzare dalla fame” per
esprimere uno stato di povertà strutturale. Una vita senza scarpe, in luridi
tuguri, bambini con le croste in testa ed il moccolo al naso. Era questo
“puzzare di fame”. Esattamente come si vede nelle crude foto di Tino
Petrelli ad Africo nel 1948. Era vero che in Calabria larga parte della
popolazione nel dopoguerra conduceva una vita lontano dal così detto
“confort” urbano europeo e occidentale. Ma probabilmente l’indigenza non
corrispondeva ad altrettanta miseria culturale e di valori. Insomma se l’Islam
dice “il mio onore è la povertà” non era dello stesso avviso
l’operazione culturale di massa dell’Italia postbellica nei confronti del
mondo contadino nel suo complesso. Questo era folclore,primitivismo, relitto,
tenebra che sarebbe stata spazzata via dalla luce del progresso. Una illusione
che non risparmiò nemmeno, per fare un esempio illustre, un grande antropologo
meridionale come Ernesto De Martino. Nessuno provò ad imbastire un discorso
critico sul problema delle radici, dell’indennità culturale. Senza grossi
sforzi analitici si pensò di “buttare via” con la povertà anche gli
interrogativi sull’identità culturale. Gli ex-contadini calabresi furono
convinti, e lo sono rimasti, di non avere storia, identità, memorie che
valessero la pena di essere conservate. La sinistra non si oppose. Tutto sommato
attraverso un marxismo un po’ scolastico si riteneva che tutto ciò che era
problema di sovrastruttura(e quindi anche la cultura) si sarebbe facilmente
aggiustato mettendo a posto l’economico, la struttura. Bastava dare sviluppo e
tutto si sarebbe aggiustato. Nella realtà nessuno sviluppo è arrivato e la
distruzione della società contadina portò soltanto emigrazione,disgregazione
sociale e culturale, assistenzialismo, mafia. Tutte storie note.
Oggi in Calabria, accanto agli interrogativi mai risolti di una
dimensione economica vera, riemergono problemi legati all’evanescenza
dell’identità culturale ed al bisogno di una sua (ri)costruzione. In questo
la regione, seppure con il suo specifico, partecipe di un fenomeno planetario
che in alcuni luoghi ha assunto risvolti drammatici.
Così Vittorio De Seta in una conversazione del 1996 a proposito del suo
“In Calabria” (3):
(…) Io dico memoria come riappropriazione non come nostalgia.
Cioè noi non dobbiamo catalogare il passato. Noi
lo dobbiamo recuperare per farlo nostro. Ricuperare, per quanto è possibile una
visione della vita perché nella nostra società attuale non c’è una visione
della vita. Su questo bisogna essere proprio netti. Quindi non si parla di
nostalgia. E’ ovvio che le forme materiali, i telai a mano, la bocca fatta in
un modo sono importanti. Quelle forme esteriori possono anche dissolversi. Ma la
memoria interiore, io parlo di costume, parlo di riferimento ideologico, quello
non si può perdere. Rispetto ai primi documenti che ho fatto quarant’anni fa
in Sicilia, in Sardegna, in Calabria ho notato proprio questo. Una volta io ero
quasi rassegnato a questa fatalità,che questa cultura contadina dovesse
scomparire scacciata dal progresso. Adesso a distanza di quarant’anni mi rendo
conto che non solo è stato un errore fatale che sia stata abolita, distrutta
con questa violenza di cui non c’era nessun bisogno. Le due forme
(“tradizione” e “modernità” N.d.R.) avrebbero potuto coesistere
insieme. Io non è che sono contro le macchine. Nella mia proprietà c’è un
trattore con tredici applicazioni. E’ una cosa bellissima un trattore che
allevia la fatica. Però questi mezzi devono essere assorbiti gradualmente,
essere fatti propri. Non si può alterare la realtà con una cosa folle come è
stato ad esempio il Quinto Centro Siderurgico di Gioia Tauro. Allora è un
qualcosa che viene dall’esterno, che viene subito, che poi fallisce, come si
è visto, miseramente. Decine di migliaia di miliardi proprio buttati via quando
con gli stessi soldi si sarebbe potuto fare un lavoro capillare di
ristrutturazione vera. Portare istruzione, portare occupazione. Il che avrebbe
significato senz’altro la scomparsa della mafia(…). Non è tanto un museo
che noi dobbiamo creare con degli scaffali dove riporre queste memorie che
dovrebbero servire da sussidio per non si sa bene che cosa. Qui si tratta
secondo me di una riappropriazione di identità. Perché il problema nella vita
è il riferimento con la vita. E’ avere una visione delle cose che secondo me
oggi manca completamente.
Per scardinare le resistenze politiche, economiche, sociali, morali di
qualsiasi gruppo umano bisogna insegnargli che la sua cultura è perdente. Il
povero, il miserabile “non ha cultura”. Proprio perché è povero. Ma il
processo è andato oltre. I calabresi, infatti, hanno perfettamente
metabolizzato il messaggio tutto borghese che identifica/va la miseria contadina
con la “colpa” di essere poveri. Si tratta in buona sostanza di un’antica
e radicatissima convinzione morale delle borghesie occidentali. Scomodando
l’illustre Michel Fuocault troviamo conferma che, nelle società europee sia
di matrice cattolica che protestante, “…la miseria non è più presa di una
dialettica dell’umiliazione e della gloria,piuttosto in certo rapporto del
disordine all’ordine che la chiude nella colpevolezza(…). Essa scivola da
un’esperienza religiosa che la santifica ad una concezione morale che la
condanna” (4).
Ogni colpa che si rispetti porta con sé la sua brava vergogna. Gli
stessi che avevano digerito la vergogna di essere poveri hanno di buon grado
accettato sia l’emigrazione sia il sistema di controllo clientelare e mafioso
che ha governato per decenni la Calabria e chi vi è rimasto a vivere. In “Una
rete piena di sabbia” Elio Ruffo dimostra di aver compreso tutto ciò già in
quegli stessi anni. La geografia degli equilibri politici ed economici nella
regione dei ’60 delineata dal film è molto precisa: vi è una consorteria
notabile, clientelare e mafiosa assolutamente blindata ad ogni attacco. Essa è
dotata di appoggi potenti nel quadro di un sistema che giunge agevolmente sino a
Roma. Tutti i “sottoposti”, ad esempio i pescatori del film, non hanno altra
chance che subire più o meno consenzienti. Molti, per vivere meglio,
preferiscono sentirsi consenzienti. Questo “abbraccio” fra il notabilato e
la mafia trova una sua scena simbolica e caricatissima, addirittura acida, nel
film. E’ l’appassionato, sensuale tango fra la rampante donna Mimì ed il
funereo imbrillantinato don Fefè, incontrastata autorità mafiosa. E’
l’abbraccio fatale nel quale don Fefè, “onorato” braccio militare si
mostra pronto a sostenere la sua “rispettabile” partner politica in un
tragico (per la collettività) “caschi”.
Ennio è l’efficace simbolo di più generazioni di intellettuali
sensibilizzati politicamente e socialmente, che hanno fatto una significativa
esperienza fuori dalla Calabria ed a qualche titolo vorrebbero “ritornare”,
fare delle cose in Calabria, avere l’opportunità di vivere nella propria
terra. Ma un sistema che pare inespugnabile e che si fonda sulla sottocultura e
sul braccio militare della mafia (per i soggetti più recalcitranti) chiuderà
regolarmente ogni spazio. Ruffo/dè Roberti non si rassegna. Difatti Ennio ad un
certo punto confessa a Flavia: “…forse il mio interesse è qui ora, nella
mia terra d’origine”.
Si potrebbe osservare che Elio Ruffo rovistava in realtà locale e rurale
con occhio da intellettuale urbano e borghese. Ma era un occhio che rifletteva
una coscienza lucida e una consapevolezza straordinaria della fase storica in
cui la periferia Calabria era immersa. “Tempo d’amarsi” ed “Una rete
piena di sabbia” in qualche modo ricordavano ai calabresi di essere i
calabresi di quel momento. Entrambe le opere principali di Ruffo sono
girate sulla jonica a Soverato, a Copanello, a Squillace, a San Luca, a Bovalino.
Emblematicamente Elio Ruffo si rivolge alla Calabria “orientale”, non si
stanca di cercare la sua verità narrativa su una costa ancora più povera e
marginale rispetto al versante tirrenico. Il Tirreno, per lo meno, faceva (e fa)
da riferimento per le comunicazioni dalla Sicilia verso il Continente traendone
qualche tenue beneficio.
Questo vantaggio geografico agita ancora oggi qualche fantasma di
sviluppo insostenibile. Nel complessivo disastro economica di un’intera
regione si sventola il mito taumaturgico del Ponte come qualche tempo addietro
quello del Quinto Centro Siderurgico.
Forse Ruffo sapeva di trovarsi di fronte ad un intero popolo che ormai
desiderava spasmodicamente di inchiodare la porta ed andare a Torino, a Milano,
in Germania. Oppure di “vincere” il posto statale. Finalmente un lavoro dove
non si suda. Via la zappa la ricotta e il tessuto di ginestra. Si ambiva la
fresatrice, il posto EMPAS, la provola Galbani, gli acquisti a rate.
Probabilmente anche lui è parzialmente convinto, come gran parte
dell’intellettualità italiana del momento (a questo proposito la
testimonianza di De Seta, poco sopra è emblematica), che non ci sia altra
strada per lo sviluppo e l’emancipazione dei calabresi. Ma per lo meno nutre
dei dubbi sul senso assunto dalla Storia. Forse potrebbe essere letta in questa
chiave la scena nella quale mentre Flavia, seduta nella sua macchina lussuosa,
accende una polemica con gli emigranti perché non restano a lavorare la terra
senza andare in Germania. Ennio rimane muto. Ennio non dice nulla di fronte a
quella folla di partenti in una vecchia stazione jonica. Forse si sente
spettatore impotente di una tragedia storico-sociale di scala vertiginosamente
ampia. Tornano alla mente qui le parole di Malcolm X: “Quelli che parlano non
sanno e quelli che sanno non parlano”. E probabilmente Ennio dè Roberti sa.
D’altro canto la sua denuncia è troppo risentita, quasi rabbiosa per non
sembrare l’appello di qualcuno che
in Calabria vorrebbe realmente vivere se fosse possibile la vita. Il dramma si
concentra tutto in questa impossibilità di un’esistenza dignitosa in una
regione strozzata da un sottosviluppo imposto da nuovi e vecchi equilibri
nazionali. In questa direzione appare significativa la trama di “Tempo
d’amarsi”, un film fortemente voluto da Ruffo, girato con mezzi economici
risicatissimi, presentato al festival di Locarno nel ’55 e successivamente
inabissatosi nella dimenticanza. Antonio Marando, un affezionato amico di Elio
Ruffo, oggi residente a Roma, racconta “nel 1955 organizzammo una proiezione
di S.O.S. Africo e di Tempo d’amarsi ad Ardore Marina. Era un’arena
all’aperto e presenziarono sia Elio Ruffo che Mario La Cava. Ancora oggi mi
stupisco come la distribuzione abbia ignorato Tempo d’amarsi…”
“Tempo
d’amarsi” si muove tutto fra San Luca e Bovalino. Disoccupazione, povertà,
il drammatico problema del lavoro sono il cuore del film. Un capo famiglia cade
da un albero e muore e sua figlia Rosa (Loretta Capitol) si assume un ruolo di
responsabilità rispetto alla famiglia innescando un conflitto con il fratello
Gianni (Ciccio Pelle). Il figlio maschio si sente comunque più in dovere di
trovare sostegno economico per la famiglia. Inizia la sua affannata ricerca di
lavoro da San Luca a Bovalino per i cinque orfani si profila una vita di stenti.
Conclude il quadro delle
opere di Elio Ruffo un film rimasto purtroppo incompiuto: “Borboni anni
‘70”.
Già la sceneggiatura fu oggetto di una battaglia legale che rallentò la
successiva lavorazione del film. L’oggetto del contenzioso fu la paternità
della stessa sceneggiatura che i produttori Lucibello e Borruto si attribuivano.
Elio Ruffo vinse la causa ma non fece in tempo a realizzare “Borboni anni
‘70” perché la morte lo colse pochi anni dopo. In attesa della risoluzione
del contenzioso, a quel che pare, Ruffo iniziò comunque a girare dei materiali
in 35 mm e, per la prima volta, a colori. Nel solco del suo “cinema verità”
la sua attenzione si centrò sul processo di Locri, noto come “processo di
Montalto”. Il processo si concluse con la condanna di praticamente tutti gli
imputati e gli stessi materiali Ruffo furono trattenuti come prova giudiziale.
La successiva morte dell’autore purtroppo contribuì a smarrire il contatto
con un documento che doveva essere rilevantissimo. Infatti gli eredi non
rivendicarono successivamente la pellicola. Ruffo girò varie fasi del processo.
Cercò il confronto diretto con gli imputati, riuscì a rassicurarli che avrebbe
trattato la loro immagine con “equidistanza”. Molto probabilmente il fatto
di essere figlio del difensore di Musolino fece la sua presa su una vecchia
mafia, ancora parzialmente legata a criteri pseudo-cavallereschi.
Una morte precoce, dunque, non gli permise di concludere il film.
Era il 16 giugno del 1972.
Ettore Castagna (dicembre 1997)
(1)
Ringrazio la figlia di Elio Ruffo, Enrichetta. Le notizie biografiche sul
regista sono dovute alla sua fondamentale testimonianza.
(2) Si trattò di una produzione RAI. La ricerca sulla collocazione è
tuttora in corso.
Fra gli altri lavori minori di
Ruffo segnaliamo un documentario sui cinque martiri di Gerace. Anche di questo
lavoro allo stato attuale delle nostre conoscenze, si sono perse le tracce.
(3)
Intervista a Vittorio De Seta, Ettore Castagna, Archi/Med, 1996
(4)
Michel Foucault – Storia della Follia nell’Età Classica, Rizzoli,
Milano,1963.
UNA RETE PIENA DI SABBIA |
|
Regia, soggetto e sceneggiatura: Elio Ruffo | |
Direttore della fotografia: Renato Fait (ma iniziato da Carlo Bellero) | |
Musiche: Teo Usuelli | |
Montaggio: Mario Giacco | |
Produzione: Ars cinematografica | |
Direttore alla produzione: Attilio Tosato | |
Durata: 98’ | |
Studi: Istituto Luce. Foto Panoramica | |
Incasso: 1.500.000 (un basso dato “di botteghino”. Il film si può considerare praticamente inedito) | |
Interpreti: Cyrus Elias (Ennio De Roberti), Fulvia Franco, Gabriella Giorgelli, Ettore Garofano (Rocco, più noto per “Mamma Roma” con Anna Magnani), Myriam Micol, Renè Curè, Olga Corbelli, GiulianoRaffaelli, Fred Coplan, Mirella Panfili, Gaetano dell’Era, Peppino Ferrara, Alfredo Colantoni, Tullio D’Achille. | |
Soggetto: Un regista torna nella sua terra d’origine che è la Calabria. Intende girare un reportage per la televisione. Immediatamente si innesca uno scontro politico culturale con la mafia/establishment locale che non apprezza le sue intenzioni “realistiche”. Gli viene “suggerito” di occuparsi “solo” di bellezze naturalistiche e paesaggistiche. Il regista, testardamente, gira egualmente un lavoro di cui già conosce il desino negativo. Difatti la televisione nazionale, non casualmente, lo rifiuterà. A Roma qualcuno gli prometterà un finanziamento per un film verità… |
S.O.S. AFRICO (1949) |
|
Regia e soggetto: Elio Ruffo | |
Direttore della fotografia: Aldo Alessandri | |
Musiche: Virgilio Chiti | |
Montaggio: Pino Giovini | |
Commento parlato: Sandro Paternostro | |
Produzione: Associati | |
Durata: 9’.55’’ | |
Il soggetto tratta di un viaggio
del giornalista Sandro Paternostro e del mulo Peppi da Bovalino ad Africo. In
uno splendido bianco e nero, Ruffo cerca di costruire un racconto sulle
difficoltà di un’area ancora contadina, le sue speranze di sviluppo economico
(la segheria di San Luca), le difficoltà di un’economia legata ancora al
sudore della terra ed alla zappa. Numerosi e molto efficaci i ritratti di varie
figure di un mondo contadino ancora vivo. Il viaggio si conclude ad Africo con
un quadro efficace di vita quotidiana del paese calabrese. Africo senz’acqua,
senza luce e senza strada sarà abbandonato in seguito all’alluvione del
’52. Il documentario fu proiettato a Roma alla presenza del Presidente della
Repubblica Luigi Einaudi. Pare che la moglie del Presidente si sia commossa
constatando lo stato in cui versava Africo. Ma nulla di concreto seguì, se non
pochi anni dopo, l’intervento comunque risolutore dell’alluvione. Africo fu
sgomberato e ricostruito molto distante. Ma non è di questo che tratta il
documentario. Con “S.O.S. Africo” siamo ancora nella fase delle grandi
speranze e delle aspettative. Quando ancora il viaggio attraversa la valle del
Careri, Sandro Paternostro commenta: “…una bonifica della zona sarebbe per
migliaia di famiglie condannate alla miseria oggi la prosperità per il
futuro”. Parrebbe proprio una visione esatta dello sviluppo per la Calabria in
forma moderna economica agricola senza false promesse di industrializzazione.
L’enfasi è destinata a crescere alle ultime battute che riguardano
direttamente Africo “… voi di Africo vi meritate perché avete fede
nell’avvenire”. Un’affermazione che, a posteriori, date le sorti di
Africo, suona amara e beffarda ma che è il chiaro segno della convinzione che
il corso delle cose avrebbe potuto essere indirizzato diversamente. |