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A Reggio, inizia la linea ionica, che collega Caulonia, con Crotone, Sibari e le Tavole Palatine. E’ la strada della Magna Grecia. Duemila anni di civiltà sulla soglia della strada ferrata, che scorre a tratti tra fiori color porpora distesi a tappeto ed agavi in fiore come pali di un telegrafo senza fili. A fine secolo, passò la prima locomotiva. Il litorale, infestato dalla malaria, era un deserto punteggiato da qualche caseggiato dirupo. Solo i finanzieri a controllare il commercio del sale. I nobili scesero in calesse dai paesi arroccati sulle colline per assistere all’avvenimento del secolo. Reggio era collegata a Metaponto e quindi a Napoli.
Il Gattopardo, faceva l’ultimo viaggio attraverso «paesaggi malefici, giogaie maledette, pianure malariche e torpide; quei paesaggi calabresi e basilischi che a lui sembravano barbarici mentre di fatti erano tali e quali quelli siciliani… paesaggi lunari che per scherno portavano i nomi atletici e voluttosi di Crotone e di Sibari».
La nuova ferrovia fu un richiamo per gli amanti del mondo classico, George Gissing venne da Taranto a Reggio, in pellegrinaggio sulle rive dello jonio.
«Ad
ogni fermata del treno – scrive Gissing
– udivo la musica del mare, e ora sembrava riecheggiare un verso di Omero,
ora il ritmo più blando di Teocrito. Qualunque pensiero si possa avere durante
il giorno su questa lontana costa meridionale, le notti
sono sacre ai poeti dell’Ellade”. Era il 1897. Vent’anni dopo
arrivava Umberto Zanotti-Bianco, “tra la perduta gente».
«Catanzaro Marina! Fermo un’ombra, che dondola un fanale – A che ora
riparte il treno per Metaponto?- Al tocco e mezzo- Sono le nove e quaranta:
quattro ore! Che benedizione- Quattro ore, in orario; ma ci sono le facoltative
e l’impiegato ride. – Ieri il diretto è arrivato alle tre e minuti,
l’altro ieri alle quattro: nessuno sapi veramenti quand’arriva… E
l’ombra s’allontana con la sua luce oscillante. Tre, quattro ore di ritardo:
cose normali di tutti i giorni. Qual fisionomia può mai avere un popolo, che
foggia il suo spirito, le sue energie, in questa cronica anarchica?».
La linea jonica s’identifica con la storia delle nostre genti, con
i nuovi insediamenti delle marine, doppioni o gemmazioni di quelli posti a
guardia di torrioni per segnalare le tartane che giungevano all’insegna della
mezzaluna. Ma accanto ai viaggiatori classici abbiamo anche quelli coatti. Il 5
agosto del 1935, ammanettato e tra due carabinieri, arriva a Brancaleone Cesare
Pavese, inviato al soggiorno dal fascismo.
«Poi sopraggiunse il treno – scrive – col suo sibilo selvaggio, il treno di tutte le notti, che lo sorprese a
occhi socchiusi come un uragano. I lampi dei finestrini durano un istante; ma
quando tornò il silenzio, Stefano assaporò lo spasimo della vecchia consueta
nostalgia che era come l’alone della sua solitudine. Veramente il suo sangue
correva con quel treno, risalendo la costa che egli aveva disceso ammanettato
tanto tempo fa».
Negli anni sessanta la televisione dedicò alla linea jonica un servizio speciale del telegiornale dal titolo alvariano di «un treno nel sud». Gli italiani scoprirono così le vecchie stazioni sperdute sullo jonio, con il binario morto come i dipinti di Enotrio e popolate da studenti, giovani professionisti, avvocati senza cause. Apparve pure Mastro Filippo, primo strillone della “Gazzetta del Sud”. Un personaggio felliniano. Gazzette nuove e vecchie, con notizie recenti o di un anno fa. E’ un dialogo leopardiano tra venditori di almanacchi e un passeggero assonnato che le traballanti corriere avevano appena riversato in paesi della marina. Con l’immancabile trench, dove il colore era scomparso da ogni campionario, la sciarpa avvolta alla Lavallière, il Borsalino calcato sul capo ed il fascio di giornali. Mastro Filippo, popolava le sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie dove tutta una genìa di personaggi si dava appuntamento.
Faceto e pronto alla battuta non ostentava miseria né la respingeva come nei personaggi usciti dalla penna di Marotta. Recitò davanti alle telecamere senza copione come un vecchio attore consumato dal mestiere. Vendeva giornali del mattino, vecchi e stagionati. Se non l’avete letto – disse una volta ad un esterrefatto viaggiatore a cui aveva rifilato una “Gazzetta” di qualche mese prima – per voi le notizie sono sempre d’attualità. Da Reggio Calabria a Roccella Jonica viaggiava gratis in prima classe come un deputato munito di tessera di libera circolazione, portando una nota di colore o di scanzonata allegria mentre le vecchie vaporiere entravano tra i filari di gerani e siepi di rosmarino.
Nella incipiente senilità tra i suoi giornali arrotolati tirava ogni tanto qualche foto pornografica che baciava a lungo come si possono baciare le figurine dei santi miracolosi. E le donne in attesa di partire con i canestri vuoti, al ritorno dal carcere, ridevano di cuore. Alla sua morte c’erano tutti. Discorso del sindaco, corone di commercianti, della pro-loco e delle ferrovie. Si delle ferrovie, perché Mastro Filippo era uno di loro. A tempo pieno e senza stipendio.